Ordinanza n. 417 del 2004

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ORDINANZA N. 417

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Valerio            ONIDA                                  Presidente

- Carlo               MEZZANOTTE                    Giudice

- Guido             NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto  CAPOTOSTI                         "

- Annibale         MARINI                                "

- Franco             BILE                                      "

- Giovanni Maria FLICK                                 "

- Francesco        AMIRANTE                          "

- Ugo                 DE SIERVO                          "

- Romano          VACCARELLA                   "

- Paolo               MADDALENA                     "

- Alfio               FINOCCHIARO                   "

- Alfonso           QUARANTA                        "

- Franco             GALLO                                 "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall'art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti di sorveglianza, dal Tribunale di sorveglianza di Napoli con ordinanze del 26 marzo (2 ordinanze), del 7 aprile (2 ordinanze), del 9 aprile, del 14 marzo, del 10 luglio, del 2 maggio e del 26 marzo 2003, rispettivamente iscritte ai numeri 599, 663, da 702 a 705, 903, 906 e 1030 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 35, 36, 37, 45 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2003.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 17 novembre 2004 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

    Ritenuto che con nove ordinanze identiche nella parte motiva il Tribunale di sorveglianza di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall'art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, nella parte in cui prevede che i provvedimenti ministeriali di sospensione delle regole di trattamento sono prorogabili «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno»;

    che il Tribunale di sorveglianza, in sede di reclamo avverso provvedimenti ministeriali di proroga, osserva che la legge n. 279 del 2002 ha modificato profondamente l'istituto della sospensione delle regole di trattamento, adeguandolo alle pronunce della Corte costituzionale intervenute a partire dal 1993;

    che tuttavia la disciplina della proroga del regime differenziato finirebbe per vanificare la giurisprudenza costituzionale sopra menzionata che àncora l'applicazione del regime differenziato alla sussistenza di un effettivo ed attuale pericolo per l'ordine e la sicurezza derivante dal permanere dei collegamenti con la criminalità, richiedendo altresì che venga fornita autonoma e congrua motivazione al riguardo;

    che, secondo il rimettente, il comma 2-bis dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario «reintroduce nel sistema la prova negativa sul venir meno di quella capacità del detenuto di mantenere contatti con associazioni criminali», consentendo di prolungare la durata del regime differenziato a prescindere dalla sussistenza di reali esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza, mediante provvedimenti di proroga privi di motivazione o con motivazioni inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte;

    che, in particolare, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 13, primo e secondo comma, e 27, secondo e terzo comma, Cost. in quanto individua, esclusivamente in ragione di una presunzione di pericolosità sociale e senza che ricorrano i requisiti di necessità e urgenza, una categoria di detenuti sottoposti ad un regime di esecuzione della pena diverso e più afflittivo rispetto a quello previsto per la criminalità comune, con sacrificio anche del principio della finalità rieducativa della pena, che impone trattamenti individualizzati e ispirati al senso di umanità;

    che il regime differenziato, disancorato dalla valutazione di «atteggiamenti particolarmente significativi del detenuto, comunque riconducibili alla sua pericolosità sociale, alla sua capacità a delinquere, alla condotta intramuraria ovvero ai suoi rapporti con il mondo esterno», verrebbe ad essere giustificato solo in ragione della «tipizzazione del detenuto 'speciale'» in quanto imputato o condannato per determinati delitti;

    che sarebbero inoltre violati gli artt. 24, secondo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost. perché la norma censurata - là dove «non prescrive idonea motivazione, in positivo, comprovante l'esistenza di una realtà certa, concreta ed essenziale ai fini dell'emissione del provvedimento» - introduce, in contrasto con il diritto di difesa, con il buon andamento della pubblica amministrazione e con il diritto alla tutela giurisdizionale, «un sistema diabolico, in base al quale l'applicazione del regime differenziato finisce con l'essere prorogabile anche a mezzo [di] un decreto ministeriale privo della parte documentale, relativa alla motivazione sulla sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale»;

    che infine, quanto alla rilevanza, il rimettente osserva che nei provvedimenti impugnati «appare quanto meno pretestuoso leggere che le limitazioni imposte sono dettate dalla necessità di evitare l'utilizzazione degli istituti trattamentali per mantenere rapporti con l'esterno, laddove contemporaneamente si contesta la sussistenza e l'attualità dei collegamenti con l'esterno e con gruppi malavitosi nonostante il regime differenziato»;

    che in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sul presupposto che ripropongono nella sostanza aspetti già affrontati e superati dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento al provvedimento di prima applicazione del regime differenziato;

    che, in particolare, del tutto infondata sarebbe la censura relativa alla violazione dell'art. 3 Cost., atteso che, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 376 del 1997, il regime differenziato «non si applica a categorie astrattamente determinate ma a singoli soggetti da individuarsi tra i detenuti condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata che siano ritenuti [...] in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività»;

    che in riferimento all'art. 13 Cost. l'Avvocatura osserva come il potere, attribuito al Ministro della giustizia, di adottare il provvedimento di proroga del regime differenziato è limitato, alla stregua della sentenza n. 349 del 1993, alla sola sospensione delle regole e degli istituti che si riferiscono al regime penitenziario in senso stretto, non potendo incidere sulla pena e quindi sul grado residuale di libertà del detenuto, e che comunque tale potere è suscettibile di sindacato da parte del tribunale di sorveglianza attraverso il reclamo del detenuto;

    che per le medesime ragioni non può ritenersi violato neppure l'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto le misure disposte non possono porsi in contrasto con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e con la finalità rieducativa della pena;

    che del tutto priva di fondamento sarebbe anche la censura riferita all'art. 24 Cost., perché la norma impugnata, nell'escludere la proroga del regime differenziato nel caso in cui venga meno la capacità dell'interessato di mantenere contatti con le organizzazioni criminali, è coerente con la particolare natura delle ipotesi considerate, che presuppongono l'esistenza di stabili vincoli associativi, e non sembra pregiudicare le potenzialità difensive del destinatario, cui non è rimesso alcun onere di prova negativa;

    che, infine, infondate sarebbero le censure riferite alla violazione degli artt. 97 e 113 Cost., posto che l'obbligo di motivazione sussiste anche in relazione ai provvedimenti di proroga del regime differenziato, in base al principio generale sancito dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e a quanto disposto in particolare dai commi 2-quinquies e 2-sexies dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, che impongono al tribunale di sorveglianza, in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui è stata disposta o confermata l'applicazione del regime differenziato, di valutare «la sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento» e la «congruità del contenuto dello stesso in relazione alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica».

    Considerato che con nove ordinanze identiche nella parte motiva il Tribunale di sorveglianza di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall'art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, nella parte in cui prevede che i provvedimenti ministeriali di sospensione delle regole di trattamento sono prorogabili «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno»;

    che, attesa l'identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi;

    che il giudice rimettente - pur prendendo atto che la legge n. 279 del 2002 ha modificato profondamente l'istituto della sospensione delle regole di trattamento previsto dal comma 2 dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, adeguandolo alle sentenze pronunciate in materia dalla Corte costituzionale - ritiene che la nuova formulazione del comma 2-bis vanifichi tale giurisprudenza, che, anche in tema di proroghe, aveva ancorato il regime differenziato all'esistenza di un attuale ed effettivo pericolo per l'ordine e la sicurezza, derivante dal permanere dei collegamenti con la criminalità organizzata;

    che, in particolare, la norma censurata avrebbe reintrodotto una presunzione di pericolosità collegata alla tipologia dei reati elencati nell'art. 4-bis (comma 1, primo periodo) dell'ordinamento penitenziario e consentirebbe, mediante la previsione di una impossibile prova negativa, di disporre la proroga del regime differenziato a prescindere da reali esigenze di ordine e di sicurezza, sulla base di provvedimenti privi di motivazione o motivati in maniera non idonea a giustificare l'attualità del pericolo;

    che risulterebbero pertanto violati gli artt. 3, 13, primo e secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., per contrasto con il principio di eguaglianza e con quello della finalità rieducativa della pena, nonché gli artt. 24, secondo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost., per lesione del diritto di difesa e del principio della effettività della tutela giurisdizionale;

    che in relazione all'originaria disciplina della sospensione delle regole di trattamento, introdotta dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, questa Corte, con numerose decisioni che si sono succedute a partire dal 1993 (sentenze numeri 349 e 410 del 1993, 351 del 1996, 376 del 1997), ha chiarito come fosse possibile e doveroso dare una interpretazione conforme a Costituzione della disciplina in esame, volta a fronteggiare specifiche esigenze di ordine e sicurezza, discendenti dalla «necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà», collegamenti che potrebbero realizzarsi proprio «attraverso i contatti con il mondo esterno» che lo stesso ordinamento penitenziario favorisce quali strumenti di reinserimento sociale;

    che, così definite le finalità dell'istituto, la Corte ha precisato che i provvedimenti che applicano l'art. 41-bis, comma 2, dell'ordinamento penitenziario debbono essere concretamente motivati in relazione alle specifiche esigenze di ordine e di sicurezza che ne costituiscono il presupposto, in quanto il regime differenziato si fonda sull'effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti interni ed esterni con le organizzazioni criminali e con le loro attività, e non sull'essere i detenuti autori di particolari categorie di reati;

    che, proprio per questa ragione, i detenuti debbono essere sottoposti «a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che [...] discenderebbero dall'applicazione del normale regime penitenziario»;

    che tali garanzie, relative sia ai presupposti che ai contenuti del regime differenziato, il cui rispetto è assicurato dall'obbligo di motivazione da parte dell'amministrazione e dal successivo controllo giurisdizionale, operano anche in relazione ai provvedimenti di proroga;

    che ogni provvedimento di proroga deve pertanto contenere «una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l'ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire» e non possono ammettersi «motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte» (v. in particolare sentenza n. 376 del 1997);

    che le modifiche apportate dalla legge n. 279 del 2002 alla disciplina della proroga del regime differenziato, prevista nel comma 2-bis dell'art. 41-bis, devono essere interpretate in conformità ai principî affermati nella giurisprudenza costituzionale per quanto riguarda sia i presupposti e i contenuti dell'istituto che il controllo giurisdizionale sul provvedimento di proroga;

    che tali principî sono stati recepiti dalla giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione al nuovo comma 2-bis dell'art. 41-bis, la quale ha ribadito che ai fini della proroga è necessaria un'autonoma e congrua motivazione in ordine alla attuale esistenza del pericolo per l'ordine e la sicurezza derivante dalla persistenza dei vincoli con la criminalità organizzata e della capacità del detenuto di mantenere contatti con essa;

    che la giurisprudenza di legittimità ha pure sottolineato che l'inciso di cui al comma 2-bis («purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno») non comporta una inversione dell'onere della prova, in quanto rimane intatto l'obbligo di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui 'risulti' che il pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive non è venuto meno;

    che i dubbi di costituzionalità sollevati dal rimettente non hanno pertanto ragion d'essere, posto che è possibile attribuire ai presupposti del provvedimento di proroga di cui al comma 2-bis dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario una interpretazione conforme a Costituzione;

    che, in particolare, il provvedimento di proroga deve contenere una adeguata motivazione sulla permanenza dei presupposti che legittimano l'applicazione del regime differenziato, vale a dire sugli specifici ed autonomi elementi da cui risulti la persistente capacità del condannato di tenere contatti con le organizzazioni criminali;

    che, a sua volta, in sede di controllo giurisdizionale, spetterà al giudice verificare in concreto - anche alla luce delle circostanze eventualmente allegate dal detenuto - se gli elementi posti dall'amministrazione a fondamento del provvedimento di proroga siano sufficienti a dimostrare la permanenza delle eccezionali ragioni di ordine e sicurezza che, sole, legittimano l'adozione del regime speciale;

    che le questioni devono pertanto essere dichiarate manifestamente infondate.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall'art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Napoli, con le ordinanze in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2004.