Sentenza n. 341 del 2006

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SENTENZA N. 341

ANNO 2006

 

Commento alla decisione di

 

Paola Torretta

Il diritto alle garanzie giurisdizionali (minime) del lavoro in carcere di fronte alle esigenze dell’ordinamento penitenziario

 

per gentile concessione del Forum dei Quaderni costituzionali)

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                BILE                                                              Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                                                             Giudice

- Francesco           AMIRANTE                                                         ”

- Ugo                    DE SIERVO                                                         ”

- Paolo                  MADDALENA                                                    ”

- Alfio                   FINOCCHIARO                                                  ”

- Alfonso              QUARANTA                                                        ”

- Franco                GALLO                                                                 ”

- Luigi                   MAZZELLA                                                         ”

- Gaetano              SILVESTRI                                                          ”

- Sabino                CASSESE                                                             ”

- Maria Rita          SAULLE                                                               ”

- Giuseppe            TESAURO                                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza del 17 novembre 2005 dal Magistrato di sorveglianza di Pisa, sul reclamo proposto da V.A.M., iscritta al n. 7 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2006.

       Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

       udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2006 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 17 novembre 2005 il Magistrato di sorveglianza di Pisa ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 27, primo e terzo comma, 81, quarto comma, 97 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede la competenza del magistrato di sorveglianza «sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali».

Avanti al rimettente è stata riassunta, nelle forme risultanti dal combinato disposto degli artt. 14-ter e 69, sesto comma, della legge n. 354 del 1975, una controversia già promossa da un detenuto, presso il giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura civile. Si trattava, nella specie, di domanda volta ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro già intrattenuto tra il ricorrente ed un’impresa privata (con prestazioni erogate all’interno dell’istituto penitenziario), nonché della illegittimità del licenziamento intimato, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento di somme. Il tribunale adito, con sentenza del 27 aprile 2005, aveva dichiarato la propria incompetenza, individuando l’odierno giudice a quo quale magistrato di sorveglianza competente a norma dell’art. 69 della citata legge n. 354 del 1975.

1.1. – Il rimettente, premesso che il principio applicato dal giudice del lavoro è asseverato da ripetute pronunce della Corte di cassazione, e costituisce ormai «diritto vivente», ritiene che le caratteristiche del procedimento di sorveglianza – per quanto lo stesso abbia assunto piena natura giurisdizionale con l’introduzione dell’art. 14-ter dell’ordinamento penitenziario, ad opera dell’art. 2 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – non siano compatibili con le esigenze di difesa e contraddittorio tipiche delle controversie di lavoro.

Rileva il giudice a quo, in particolare, che la procedura regolata dal citato art. 14-ter non prevede la partecipazione diretta del detenuto, il quale è rappresentato dal difensore e può soltanto presentare memorie, mentre la sua controparte, individuata nell’amministrazione penitenziaria, non è presente all’udienza neppure per il tramite di un difensore, posto che tale non può essere considerato il pubblico ministero, il quale invece è parte necessaria del procedimento. Una disciplina siffatta implicherebbe, per entrambi i soggetti del rapporto controverso, la violazione dei principi fissati nel primo e nel secondo comma dell’art. 24 Cost. Il diritto di difesa della parte opposta al lavoratore detenuto, poi, sarebbe illecitamente compresso anche in quanto il solo lavoratore, a parere del rimettente, potrebbe impugnare, mediante ricorso per cassazione, l’ordinanza assunta dal magistrato di sorveglianza in conclusione del procedimento. Da questa stessa regola sortirebbe una ulteriore violazione di rilievo costituzionale, riferibile al principio di parità tra le parti sancito nel secondo comma dell’art. 111 Cost.

1.2. – Il giudice a quo ritiene, inoltre, che la disciplina della competenza territoriale nel procedimento di sorveglianza (art. 677 del codice di procedura penale) sia priva di funzionalità, nel caso di trasferimento del detenuto, rispetto alle esigenze di accertamento dei fatti rilevanti per la soluzione della controversia di lavoro, essendo riferita al luogo di detenzione dell’interessato al momento del reclamo, e non al tempo della prestazione lavorativa, e comportando oltretutto la partecipazione al giudizio di un soggetto diverso da quello coinvolto nel rapporto (cioè il responsabile dell’istituto di detenzione del reclamante nel momento del giudizio e non quello dell’istituto ove l’interessato fosse ristretto al tempo della prestazione). In tali circostanze, secondo il giudice a quo, si determinerebbe una violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione, anche per quanto riguarda l’organizzazione degli uffici giudiziari (art. 97 Cost.). Lo stesso parametro sarebbe poi violato per effetto dell’attribuzione di una competenza concernente questioni specialistiche ad un giudice la cui preparazione professionale concerne materie completamente diverse.

1.3. – Il rimettente prospetta, ancora, una illegittima discriminazione, rilevante ex art. 3 Cost., tra i lavoratori detenuti e quelli non assoggettati a limitazioni della libertà personale. La differenza di trattamento, già considerata ragionevole dalla giurisprudenza di legittimità sulla base delle peculiarità attribuite al lavoro penitenziario, sarebbe ormai incompatibile con l’attuale assimilazione del rapporto di lavoro dei detenuti al rapporto di lavoro ordinario, che questa stessa Corte avrebbe sancito, intervenendo sul diritto ad un periodo feriale retribuito, con la sentenza n. 158 del 2001. Detta assimilazione sarebbe particolarmente significativa, a parere del giudice a quo, quando il rapporto di lavoro viene istituito, come nella specie, con un’impresa privata ed estranea all’amministrazione penitenziaria, mediante stipulazione di un ordinario contratto e con espresso rinvio alle norme corrispondenti del codice civile e della contrattazione collettiva. Non vi sarebbe dunque ragione di assicurare al lavoratore detenuto una tutela meno intensa di quella riconosciuta ad ogni altro lavoratore, come ad esempio avviene attraverso la regola di immediata esecutività della sentenza di primo grado nel rito del lavoro (regola non applicabile, a dire del rimettente, all’ordinanza del magistrato di sorveglianza). Del resto, osserva il giudice a quo, non esisterebbe un principio di necessaria competenza del magistrato di sorveglianza per la tutela dei diritti soggettivi del detenuto, neppure quando la controparte sia rappresentata dall’amministrazione penitenziaria, come dimostrerebbe la competenza riconosciuta al giudice civile per fatti che comportino responsabilità risarcitoria nei confronti dei detenuti.

1.4. – Una grave carenza di tutela – prosegue il rimettente – si riscontra anche con riferimento alla posizione del datore di lavoro coinvolto nella controversia, il quale, nella generalità dei casi, resta completamente estraneo al procedimento camerale celebrato dal magistrato di sorveglianza. La questione non potrebbe essere risolta (come talvolta si è fatto dalla giurisprudenza) individuando nell’amministrazione, sempre e comunque, la controparte del detenuto lavoratore. In questa prospettiva tutti gli oneri nascenti dal rapporto di lavoro, compresi quelli retributivi e previdenziali, andrebbero riferiti proprio all’amministrazione, attribuendole un ruolo improprio di interposizione e garanzia, e costringendola a costose azioni di recupero dall’esito incerto (senza che per gli oneri corrispondenti sia stata prevista dalla legge la necessaria copertura, in ossequio alla disposizione di cui all’art. 81, quarto comma, Cost.). La responsabilità surrogatoria, d’altra parte, si estenderebbe ai casi di infortunio e malattia professionale, anche sotto il profilo penale, con effetto incompatibile, secondo il rimettente, con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.).

Se, dunque, il rapporto di lavoro del detenuto può riguardare una parte estranea all’amministrazione penitenziaria, che rimane esclusa dal procedimento di cui agli artt. 14-ter e 69 dell’Ordinamento penitenziario, risulta evidente, a parere del giudice a quo, l’incompatibilità tra la norma impugnata ed i principi fissati nei primi due commi dell’art. 24 Cost.

1.5. – Il rimettente ritiene, infine, che il complesso degli oneri attribuiti ai responsabili degli istituti penitenziari (oneri che addirittura coinciderebbero con quelli del datore di lavoro, ove fosse accolta la tesi giurisprudenziale della loro responsabilità surrogatoria per le obbligazioni assunte dalle imprese esterne) varrebbe a disincentivare l’azione istituzionale mirata al recupero dei detenuti attraverso il lavoro, così frustrando il principio di necessaria funzionalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 7 febbraio 2006, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

Il giudice a quo avrebbe omesso, anzitutto, la necessaria ricerca di una soluzione interpretativa utile ad evitare la prospettata lesione di interessi costituzionalmente protetti. In effetti, se con formula tralaticia le Sezioni unite civili della Corte suprema hanno più volte prospettato una competenza del magistrato di sorveglianza anche per le controversie riguardanti datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria, non mancherebbero in giurisprudenza affermazioni, pur isolate, dell’opposto principio, cioè d’una competenza attribuita, nei casi in questione, secondo le regole del processo civile.

In ogni caso, sempre a parere dell’Avvocatura erariale, la questione sarebbe infondata. La deroga al criterio generale di competenza si giustificherebbe (nella prospettiva dell’art. 3 Cost.) per la peculiarità del lavoro carcerario, strumentale alla rieducazione del condannato e comunque fortemente influenzato, nel suo svolgimento, dalla condizione detentiva del lavoratore. Pur quando intrattenuto con datori di lavoro esterni all’amministrazione, il rapporto si caratterizzerebbe per una disciplina particolare, anche nelle fonti (ad esempio la regolazione per mezzo di convenzioni tra l’amministrazione penitenziaria ed il terzo). Al procedimento delineato dal combinato disposto degli artt. 69 e 14-ter della legge n. 354 del 1975, d’altra parte, andrebbe ormai riconosciuta natura giurisdizionale piena, e dunque utile a garantire i diritti delle parti, sia pure con modalità particolari che riflettono la peculiarità del rapporto sottostante.

Le doglianze riferite all’art. 97 Cost., oltre che inammissibili perché relative ad una norma non impugnata (quella che determina la competenza territoriale del magistrato di sorveglianza) e perché formulate in modo generico, sarebbero anche infondate. La conduzione del procedimento ad opera del magistrato investito della giurisdizione nel luogo di attuale detenzione del lavoratore varrebbe, infatti, ad evitare complessi e costosi trasferimenti presso una sede giudiziaria diversa e, comunque, esterna al carcere.

Per quanto attiene al contraddittorio ed al diritto di difesa del datore di lavoro coinvolto nella controversia, l’Avvocatura dello Stato rileva che anche nei rapporti concernenti imprenditori privati il ruolo di controparte del lavoratore sarebbe riferibile all’amministrazione penitenziaria, la quale può partecipare al procedimento mediante produzione di memorie. Se così non fosse, per altro, il diverso datore di lavoro potrebbe far valere le proprie ragioni in un giudizio ulteriore, cui avrebbe diritto non avendo preso parte al procedimento avanti al magistrato di sorveglianza.

In un caso e nell’altro, il rimettente non avrebbe dato prova dell’eventualità di costi «riflessi» a carico dell’amministrazione penitenziaria, così risultando infondata anche l’ulteriore questione proposta ex art. 81 Cost.

Considerato in diritto

1. – Il Magistrato di sorveglianza di Pisa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – nella parte in cui prevede la competenza del magistrato di sorveglianza, che giudica secondo la procedura di cui all’art. 14-ter della stessa legge, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali – in relazione al disposto degli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 27, primo e terzo comma, 81, quarto comma, 97 e 111 della Costituzione.

2. – La questione è fondata.

2.1. – Lo svolgimento di attività lavorative da parte dei detenuti contribuisce a rendere le modalità di espiazione della pena conformi al principio espresso nell’art. 27, terzo comma, Cost., che assegna alla pena stessa la finalità di rieducazione del condannato. Questa Corte ha precisato che il lavoro dei detenuti, lungi dal caratterizzarsi come fattore di aggravata afflizione, «si pone come uno dei mezzi di recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo» (sentenza n. 158 del 2001).

Il legislatore ha enunciato con chiarezza lo stesso principio, specificando da una parte che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato» e dall’altra che «l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale» (art. 20, secondo e quarto comma, della legge n. 354 del 1975).

Il lavoro dei detenuti, sia che venga svolto in favore dell’amministrazione penitenziaria, sia che venga effettuato – come avviene sempre più di frequente – alle dipendenze di terzi, implica una serie di diritti e obblighi delle parti, modulati sulla base contrattuale dei singoli rapporti instaurati. Questa Corte ha già chiarito che dal primato della persona umana, proprio del vigente ordinamento costituzionale, discende, come necessaria conseguenza, che i diritti fondamentali «trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti ad una restrizione della libertà personale i limiti ad essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione». Posta la indispensabile connessione tra riconoscimento dei diritti e possibilità di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale, deve essere sempre assicurato il rispetto delle «garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l’impugnabilità con ricorso per cassazione» (sentenza n. 26 del 1999).

2.2. – Secondo i principi sopra richiamati, si possono stabilire tre punti fermi nella materia in cui si inserisce la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente.

Il primo consiste nella necessaria tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro instauratisi nell’ambito dell’organizzazione penitenziaria. Tali diritti non sono soltanto quelli dei detenuti, ma anche quelli degli altri soggetti del rapporto, quali i datori di lavoro, che non devono subire indirettamente menomazioni della propria sfera giuridica per il solo fatto di aver stipulato contratti con persone sottoposte a restrizione della libertà personale.

Il secondo punto consiste nella possibilità che il legislatore ponga limiti ai diritti in questione in rapporto alla condizione restrittiva della libertà personale cui è sottoposto il lavoratore detenuto. La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono quindi non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, e per assicurare, con la previsione di specifiche modalità di svolgimento del processo, le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. In altre parole, i diritti dei detenuti devono trovare un ragionevole bilanciamento nel diritto della collettività alla corretta esecuzione delle sanzioni penali.

Il terzo punto, derivante dai primi due, è costituito dalla illegittimità di ogni «irrazionale ingiustificata discriminazione», con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini (sentenza n. 49 del 1992).

3. – La questione di legittimità sollevata dal giudice a quo deve essere esaminata alla luce dei punti fermi della giurisprudenza costituzionale fin qui citata.

3.1. – Non v’è dubbio che il detenuto abbia diritto a far valere in giudizio le pretese nascenti dalla prestazione di attività lavorative. È parimenti certo che sia il detenuto sia la sua controparte abbiano diritto ad un procedimento giurisdizionale basato sul contraddittorio, come imposto dagli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., i quali attribuiscono a tutte le parti un nucleo minimo di garanzie.

Se si valuta la norma impugnata nella prospettiva delle suesposte garanzie costituzionali, si deve notare, in primo luogo, che la procedura camerale in essa prevista, tipica dei giudizi davanti al magistrato di sorveglianza, non assicura al detenuto una difesa nei suoi tratti essenziali equivalente a quella offerta dall’ordinamento a tutti i lavoratori, giacché è consentito un contraddittorio puramente cartolare, che esclude la diretta partecipazione del lavoratore-detenuto al processo. Per altro verso, la disposizione non assicura adeguata tutela al datore di lavoro, posto che all’amministrazione penitenziaria è consentita solo la presentazione di memorie, e che il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore (situazione che ricorre nel caso oggetto del giudizio principale) resta addirittura escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al detenuto lavoratore, se accertata da una decisione del magistrato di sorveglianza.

Il procedimento di cui all’art. 14-ter della legge n. 354 del 1975, imposto dall’art. 69, sesto comma, lettera a), per tutte le controversie civili nascenti dalle prestazioni lavorative dei detenuti, comprime dunque in modo notevole le garanzie giurisdizionali essenziali riconosciute a tutti i cittadini. L’irragionevolezza di tale compressione viene in rilievo anche per l’assenza di esigenze specifiche di limitazione legate alla corretta esecuzione della pena. Eventuali problemi organizzativi derivanti da una maggiore garanzia del contraddittorio e della difesa in giudizio possono essere affrontati e risolti in modo razionale dall’amministrazione penitenziaria, senza che sia indispensabile attuare per legge il sacrificio di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, può ben prevedere forme di svolgimento dei giudizi civili nascenti da prestazioni lavorative dei detenuti tali da essere compatibili con le esigenze dell’organizzazione penitenziaria e mantenere integro, nel contempo, il nucleo essenziale delle garanzie giurisdizionali delle parti.

3.2. – La disposizione impugnata non consente interpretazioni conformi alla Costituzione per la perentoria chiarezza della sua formulazione, che lega indissolubilmente la competenza del magistrato di sorveglianza alla procedura camerale di cui all’art. 14-ter della legge n. 354 del 1975, tipica di questo giudice per scelta del legislatore. Tale esclusività di competenza, con conseguente necessaria applicazione delle suddette regole processuali, è stata affermata dalla Corte di cassazione, con orientamento costante e univoco, a partire dal 1999 (Sez. Un. civ., sentenza n. 490 del 1999). È stato escluso, in particolare, un anomalo diritto di scelta del detenuto, ammesso dalla giurisprudenza precedente, tra il rito camerale, previsto dalla norma impugnata come diretta conseguenza della competenza del magistrato di sorveglianza, e il rito ordinario previsto dall’ordinamento per le controversie individuali di lavoro.

Questa Corte ha precisato che la scelta del legislatore in favore del rito camerale non è illegittima in sé, ma solo nell’eventualità in cui non vengano assicurati lo scopo e la funzione del processo e quindi, in primo luogo, il contraddittorio (ex plurimis, sentenza n. 543 del 1989 e ordinanza n. 121 del 1994).

4. – La Costituzione non impone un modello vincolante di processo (ex plurimis, di recente, ordinanze n. 389 del 2005 e n. 386 del 2004). Occorre pertanto «riconoscere al legislatore un’ampia potestà discrezionale nella conformazione degli istituti processuali, col solo limite della non irrazionale predisposizione di strumenti di tutela, pur se tra loro differenziati» (sentenza n. 180 del 2004). La stessa discrezionalità il legislatore possiede nella disciplina della competenza (sentenza n. 206 del 2004). La norma impugnata, tuttavia, non si limita ad individuare una specifica competenza in capo ad un determinato ufficio giudiziario, ma detta, con stretta consequenzialità, regole processuali inidonee, se riferite alle controversie di lavoro, ad assicurare un nucleo minimo di contraddittorio e di difesa, quale spetta a tutti i cittadini nei procedimenti giurisdizionali. Si deve rilevare pertanto una violazione – da parte dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge n. 354 del 1975 – degli artt. 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 3, primo comma, della Costituzione.

5. – Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale, riguardanti la medesima norma, contenuti nell’ordinanza di rimessione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 374 (rectius 354: cfr. GU n. 44 del 8-11-2006, 1° Serie spec. )  (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2006.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 ottobre 2006.