Sentenza n. 297 del 2008

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SENTENZA N. 297

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-                Franco                                     BILE                              Presidente

-                Giovanni Maria                         FLICK                           Giudice

-                Francesco                                AMIRANTE                        "

-                Ugo                                         DE SIERVO                        "

-                Paolo                                      MADDALENA                     "

-                Alfio                                        FINOCCHIARO                   "

-                Alfonso                                    QUARANTA                        "

-                Franco                                     GALLO                               "

-                Luigi                                        MAZZELLA                        "

-                Gaetano                                   SILVESTRI                          "

-                Sabino                                     CASSESE                            "

-                Maria Rita                                SAULLE                             "

-                Giuseppe                                  TESAURO                           "

-                Paolo Maria                             NAPOLITANO                    "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 10 luglio 2007 dalla Corte d’appello di Venezia nel procedimento civile vertente tra l’Azienda Ospedaliera di Padova e Cavatton Gianni, iscritta al n. 794 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti l’atto di costituzione dell’Azienda Ospedaliera di Padova nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi gli avvocati Giovanni Sala e Luigi Manzi per l’Azienda Ospedaliera di Padova e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte d’appello di Venezia – in sede di gravame avverso sentenza del Tribunale di Padova, giudice del lavoro, pronunciata nella controversia fra G. C. e l’Azienda Ospedaliera di Padova, depositata il 18 ottobre 2005, proposto con riserva dei motivi ex art. 433, secondo comma, del codice di procedura civile, presentati il 29 novembre 2006 – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 327 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 24 della Costituzione.

Secondo il giudice rimettente, il citato art. 327, facendo decorrere il termine per la proposizione dell’impugnazione dalla data del deposito e non da quella della comunicazione della sentenza, non garantisce il diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto alle parti costituite, non essendo per le stesse certo il godimento per intero del termine decadenziale.

L’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell’art. 327 cod. proc. civ., in relazione all’art. 430 cod. proc. civ., non incide, secondo il giudice a quo, sulla coerenza del sistema delle impugnazioni, posto che la decorrenza del termine suddetto dalla comunicazione della sentenza invece che dalla sua pubblicazione, non appare lesiva del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza, importando tale soluzione unicamente un modestissimo differimento temporale di entità predeterminata, (non più di cinque giorni ai sensi dell’art. 133, secondo comma, cod. proc. civ.), del passaggio in giudicato della sentenza.

Tale soluzione assicurerebbe poi – prosegue il collegio rimettente – il pieno diritto di difesa delle parti, garantito costituzionalmente dall’art. 24 Cost., ponendole in condizione di utilizzare per intero il tempo normativamente assegnato, a pena di decadenza, per l’impugnazione della sentenza, concretizzando il presupposto processuale della conoscenza della stessa, innegabilmente necessario per la sua reale definitività entro l’anno dalla pubblicazione, ed ancora assicurando il pieno diritto di difesa ove la parte poi materialmente voglia effettivamente avvalersene.

Né l’accoglimento della questione sollevata creerebbe disparità di trattamento rispetto alle parti contumaci, per le quali la decorrenza del termine dalla comunicazione della sentenza non potrebbe trovare applicazione, considerata la peculiare loro posizione, frutto di una libera scelta, che comporta che in caso di comprovata non
conoscenza del processo (nullità della citazione o della notificazione della stessa), siano posti specifici rimedi proprio relativamente al termine lungo di impugnazione (art. 327, secondo comma, cod. proc. civ.).

La prospettata questione di costituzionalità è rilevante – osserva la Corte rimettente – nel procedimento a quo, per il carattere preliminare ed eventualmente assorbente della eccezione di tardività dell’appello, proposta dall’appellato.

2. – Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita l’Azienda ospedaliera di Padova, appellante nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione sulla base dei motivi addotti dal giudice rimettente.

L’esigenza cui sovrintende l’art. 327 cod. proc. civ., di evitare che il passaggio in giudicato della sentenza possa essere protratto indefinitamente ad arbitrio delle parti, non può far obliterare l’altra esigenza a tutela del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, che comporta, nel caso in cui le parti debbano rispettare termini previsti a pena di decadenza, che il tempo assegnato dalla norma sia utilizzato nella sua interezza.

Il giudice potrebbe contemperare le esigenze citate sulla base di una diversa lettura che risulti aderente ai principi costituzionali asseritamente violati, e, dunque, ritenere che il termine per l’impugnazione decorra dalla comunicazione del dispositivo da parte della cancelleria. La comunicazione conclude il procedimento, a formazione progressiva, del deposito della sentenza, tanto più che, nel processo del lavoro, la legge non ne concepisce un momento distinto, imponendo al cancelliere di darne “immediata comunicazione alle parti”.

La previsione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, in ogni stato e grado del procedimento, non si realizza ove il termine per l’impugnazione decorra da un momento anteriore a quello in cui la parte abbia avuto possibilità di conoscere la sentenza da impugnare.

A sostegno della incostituzionalità, la parte privata richiama una serie di interventi manipolativi della Corte, soprattutto in materia fallimentare, in cui il termine per reclami e impugnazioni è stato fatto decorrere dal momento della effettiva conoscenza dell’atto.

Il diritto di difesa deve essere assicurato in modo effettivo ed adeguato, indipendentemente dal fatto che la parte voglia valersene, giacché non si tratta – come pare doversi cogliere dalla pregressa giurisprudenza della Corte – di discrezionalità nella fissazione del termine, ma di decorrenza, ove questa cominci da un evento di cui il soggetto non è in grado di conoscere l’avverarsi.

Non sembra motivo di discriminazione far decorrere il termine dalla comunicazione, per la parte rimasta contumace, attesa la diversità della posizione del contumace, alla quale il termine lungo non si applica, quando essa dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione degli atti. Al di fuori di tali ipotesi, le conseguenze sfavorevoli di una decorrenza del termine dalla comunicazione, che al contumace non è dovuta, deriverebbero unicamente da una sua libera scelta. E comunque, una sentenza additiva potrebbe far decorrere il termine dell’impugnazione dalla comunicazione della sentenza, anche per la parte rimasta contumace.

3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza della questione, sostenendo che la rimozione della norma denunciata non comporterebbe automaticamente l’applicabilità del diverso meccanismo opinato dalla Corte d’appello, non essendo nei poteri della Corte costituzionale sostituirla con altra disposizione.

Il diverso regime, da sostituire all’esistente – si tratterebbe solo di una diversa possibile soluzione, comunque rimessa alla discrezionalità del legislatore – sarebbe tutt’altro che conforme a Costituzione, discriminando la parte rimasta contumace, e rendendo assolutamente incerta per la controparte e i terzi la data del passaggio in giudicato della sentenza non notificata, e così vulnerando il fondamentale principio della certezza delle situazioni giuridiche.

Nel merito, non sarebbe ravvisabile lesione del diritto di difesa, poiché l’individuazione del termine annuale opera un equo bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa. La soluzione sarebbe ragionevole e non graverebbe di oneri eccessivi il difensore, che deve recarsi saltuariamente in cancelleria per aver notizia della decisione. Il lasso di tempo di un anno consentirebbe di adottare ogni determinazione in merito all’eventuale impugnazione.

Ancorare il dies a quo del termine di impugnazione ad un unico momento certo, costituisce elemento irrinunciabile per la certezza dei rapporti giuridici: la soluzione prospettata dalla Corte d’appello di Venezia, di far decorrere il termine dalla comunicazione di cancelleria, determinerebbe un passaggio in giudicato differenziato per le parti presenti e per quelle non costituite, a parte l’eventualità che, per disguido, l’incombente di cancelleria non venga effettuato, con la conseguenza che la sentenza non passerebbe mai in giudicato.

La congruità del termine annuale porrebbe al riparo la disposizione in esame da dubbi in ordine alla conoscibilità della pronuncia, riferendosi gli interventi demolitivi della Corte solo alla ristrettezza di particolari termini, ad esempio in materia fallimentare.

4. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica l’Avvocatura generale dello Stato e l’Azienda ospedaliera di Padova hanno depositato memorie.

La difesa erariale, nel confermare le conclusioni esposte, deduce che l’inammissibilità della questione deriva: a) dall’erronea indicazione della norma oggetto di censura conseguendo la prospettata lesione del diritto di difesa non dall’art. 327 cod. proc. civ., ma dall’art. 133 dello stesso codice; b) dalla richiesta di un provvedimento rimesso alla discrezionalità del legislatore.

Con riferimento alla infondatezza si osserva: a) che il deposito della sentenza non è evento imprevedibile per la parte costituita tramite un difensore tecnico; b) che in materia fallimentare le pronunce di incostituzionalità si giustificavano per l’estrema brevità dei termini.

La difesa dell’Azienda ospedaliera di Padova deduce: a) che si potrebbe giungere ad una interpretazione adeguata ai principi costituzionali; b) che la giurisprudenza in tema di incostituzionalità delle norme in materia fallimentare può applicarsi anche con riferimento all’art. 327 cod. proc. civ.; c) che la dichiarazione d’incostituzionalità richiesta dal giudice remittente non inciderebbe sulla certezza dei rapporti giuridici; d) che la previsione di un termine lungo è adeguata ove sussista la conoscibilità del deposito; e) che è irrilevante la posizione del contumace.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’appello di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 327 del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede la decorrenza del termine annuale per l’impugnazione dalla pubblicazione della sentenza, anziché dalla sua comunicazione a cura della cancelleria, per violazione dell’art. 24 della Costituzione, in quanto non sarebbe assicurato alle parti il diritto di difesa costituzionalmente garantito, per non essere alle stesse assicurato il godimento per intero del termine per impugnare.

2. – La questione non è fondata.

3. – Questa Corte ha già scrutinato identica questione dichiarandola, una prima volta, inammissibile (sentenza n. 584 del 1990) e, una seconda volta, manifestamente inammissibile (ordinanza n. 129 del 1991). Le ragioni per cui la questione fu disattesa in passato risiedevano nel considerare il termine annuale di decadenza ex art. 327 cod. proc. civ. logico corollario del principio di formazione del giudicato indipendentemente dalla notificazione della sentenza, e che lo spostamento della decorrenza del termine annuale alla data di comunicazione della sentenza avrebbe sconvolto la coerenza del sistema delle impugnazioni e postulato modifiche del sistema normativo, riguardo alla posizione del contumace, non consentite alla Corte.

Preliminarmente all’individuazione delle conseguenze che una pronuncia di illegittimità determinerebbe sulla legge processuale, occorre interrogarsi se nella norma denunciata sia ravvisabile un contrasto con il diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 Cost..

L’art. 327, primo comma, cod. proc. civ., - il quale prevede la decadenza dalla impugnazione dopo il decorso di un anno dalla pubblicazione della sentenza, indipendentemente dalla notificazione di questa - opera un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa. L’ampiezza del termine annuale consente al soccombente di informarsi tempestivamente della decisione che lo riguarda, facendo uso della diligenza dovuta in rebus suis. La decorrenza fissata con riferimento alla pubblicazione, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è un corollario del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte: sicché lo spostamento del dies a quo dalla data di pubblicazione a quella di comunicazione non solo sarebbe contraddittorio con la logica del processo, ma restringerebbe irrazionalmente il campo di applicazione del termine lungo di impugnazione alle parti costituite in giudizio, alle quali soltanto la sentenza è comunicata ex officio.

E’ bensì vero che questa Corte, con molteplici decisioni, emesse in materia fallimentare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme sulla decorrenza di termini processuali per l’impugnazione di un atto da un determinato evento (ex plurimis: sentenza n. 201 del 1993; n. 881 del 1988; nn. 156 e 102 del 1986; n. 303 del 1985) o dall’affissione (ex plurimis: sentenze n. 224 del 2004; n. 211 del 2001; nn. 152 e 151 del 1980) anziché dalla comunicazione dello stesso. Tuttavia, il principio è stato enunciato in riferimento ad ipotesi, in cui i termini fissati dal legislatore, a parte l’incertezza e inconoscibilità della loro decorrenza, erano oggettivamente esigui: si trattava comunque di ipotesi ontologicamente diverse da quella prevista dall’art. 327 cod. proc. civ., dal momento che solamente per quest’ultima ipotesi – e non anche per le altre di cui alle richiamate pronunce – l’interessato è posto in condizione di conoscere la decorrenza iniziale del termine decadenziale, senza l’imposizione di oneri eccedenti la normale diligenza (ordinanza n. 56 del 2005).

Da quanto precede deriva che il principio di cui all’art. 327 cod. proc. civ. non è in contrasto con l’art. 24 Cost. e, quindi, la questione proposta non è fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.