Sentenza n. 140 del 2009

SENTENZA N. 140

ANNO 2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Francesco          AMIRANTE                      Presidente

- Ugo                  DE SIERVO                        Giudice

- Paolo                MADDALENA                         “

- Alfio                 FINOCCHIARO                       “

- Alfonso             QUARANTA                            “

- Franco              GALLO                                   “

- Luigi                 MAZZELLA                             “

- Gaetano            SILVESTRI                              “

- Sabino              CASSESE                                “

- Maria Rita         SAULLE                                  “

- Giuseppe           TESAURO                               “

- Paolo Maria       NAPOLITANO                        “

- Giuseppe           FRIGO                                    “

- Alessandro        CRISCUOLO                           “

- Paolo                GROSSI                                  “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 384, primo comma, del codice penale promosso dal Tribunale di Como nel procedimento penale a carico di C. C., con ordinanza del 26 settembre 2007, iscritta al n. 843 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1 — Il Tribunale di Como, in composizione monocratica, con ordinanza del 27 settembre 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, dell’art. 384, primo comma, del codice penale «nella parte in cui non contempla tra i soggetti che possono beneficiare della scriminante anche il convivente more uxorio».

Il rimettente premette di essere chiamato a decidere in un procedimento penale a carico di C. C., imputato del delitto di cui all’art. 378 cod. pen., «per avere offerto ospitalità presso la propria abitazione a M. D., aiutandola, così, a sottrarsi alle ricerche dell’autorità poiché colpita da provvedimento di unificazione di pene concorrenti emesso dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Milano del 15.12.2004 (fatto accertato in data 10.5.2006)».

Il giudice a quo aggiunge che «l’imputato intenderebbe invocare l’esimente di cui all’art. 384 cod. pen. per essere stata, con tutta evidenza, la sua condotta determinata dalla necessità di evitare alla convivente more uxorio le gravi e inevitabili conseguenze in tema di libertà, che sarebbero derivate dall’esecuzione dell’ordine di carcerazione emesso a suo carico con il provvedimento di unificazione di pene della Procura». Però tale causa di non punibilità, in base al testuale tenore dell’art. 384, primo comma, cod. pen., sarebbe applicabile soltanto a chi ha agito per salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, ed ai fini della legge penale – art. 307, quarto comma, cod. pen. – in questa nozione rientrerebbe il coniuge, ma non il convivente more uxorio.

Né sarebbe possibile un’interpretazione adeguatrice della norma invocata, al fine di ritenerla applicabile anche nel caso concreto mediante un procedimento analogico in bonam partem, perché il dato letterale desumibile dal combinato disposto degli artt. 384, primo comma, e 307, quarto comma, cod. pen. sarebbe esplicito sul punto, elencando casi tassativi tra i quali non rientrerebbe quello in esame.

In tal modo, però, si determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni (quella del coniuge e quella del convivente more uxorio) «assolutamente identiche nella sostanza».

Invero, la ratio dell’esimente contemplata dall’art. 384, primo comma, cod. pen. sarebbe quella «di evitare, per motivi etici, che un soggetto sia obbligato ad arrecare un nocumento grave ad una persona a cui è legato da un profondo vincolo affettivo perché parente o perché legato da una convivenza stabile consacrata con il vincolo del matrimonio: non v’è ragione perché tali motivi etici non debbano essere considerati anche all’interno della famiglia di fatto». Il citato art. 384, nella sua ratio, sicuramente porrebbe l’accento sulla realtà sociale della stabile convivenza cui sono connessi vincoli affettivi, non sull’unione formalizzata tra due persone conviventi, ovvero si fonderebbe, oltre che sul principio del nemo tenetur se detegere, sul riconoscimento della forza degli affetti e dei legami di solidarietà familiare che si basano sulle caratteristiche di quei vincoli interpersonali e non sull’esistenza dell’atto di matrimonio.

Il carattere ufficiale del matrimonio, nel caso di specie, avrebbe «il solo scopo di offrire una migliore garanzia in ordine alla effettiva esistenza della situazione di fatto sottesa che la norma intende tutelare», cioè la «stabile relazione affettiva ormai instauratasi: e nel caso in cui, come nel caso di specie, pure in assenza di un contratto di matrimonio tale stabile relazione affettiva sia ampiamente comprovata, ogni disparità di trattamento tra le due situazioni assolutamente comparabili appare irragionevole e irrazionale».

Né gioverebbe obiettare che gli interessi del coniuge e del convivente non sarebbero equiparabili, ai sensi dell’art 3 Cost., perché il rapporto di fatto sarebbe privo della certezza e stabilità che, invece, caratterizzano il matrimonio. In realtà nella famiglia legittima si potrebbe parlare soltanto di certezza nel senso della rilevanza pubblica del rapporto ma non certo di garanzia di stabilità; ed anche il matrimonio, come la convivenza di fatto, si baserebbe sul costante rinnovarsi dell’accordo dei coniugi. Se così non fosse non esisterebbe il divorzio e il matrimonio sarebbe indissolubile.

In sostanza sarebbe irragionevole che tale vincolo “formale” costituisca il discrimine e che si debba escludere dalla tutela «una relazione interpersonale tra due soggetti che presenti i caratteri di tendenziale stabilità, natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza materiale e morale sol perché tale relazione non è stata mai ufficializzata con un matrimonio» .

Nella specie i documenti acquisiti consentirebbero di ritenere accertato che l’imputato da anni, almeno dal 1999, convivrebbe in modo stabile con M. D. e con il figlio di lei, avendo instaurato con entrambi una stabile e consolidata relazione affettiva. Sul punto le affermazioni dell’imputato troverebbero piena conferma nelle dichiarazioni di sette testimoni, nonché negli esiti di una perquisizione domiciliare disposta dalla Guardia di finanza, che già il 26 febbraio 2001 attestava la presenza del C. presso l’abitazione della M.

Si sarebbe in presenza, dunque, di una stabile relazione, costituzionalmente tutelata (art. 2 Cost.), trattandosi di formazione sociale nel cui ambito può svolgersi la personalità dell’individuo.

Tale norma costituzionale, come sottolineato da questa Corte, è stata  dettata per garantire un livello di tutela “minimo”, uno “statuto leggero”, caratterizzato dal riconoscimento dei diritti inviolabili e dall’individuazione di doveri strumentali allo sviluppo della persona in seno alla convivenza: un livello, dunque, di tutela minima delle coppie di fatto che dovrebbe trovare attuazione in sede legislativa e giurisprudenziale. Tra il livello minimo di tutela, garantito dall’art. 2 Cost. per le coppie di fatto, e il livello “massimo premiale” previsto dall’art. 29 Cost. esisterebbe uno «spazio vuoto in cui il legislatore e il giurista possono e debbono operare dando corpo e contenuto alla tutela delle forme di convivenza con l’unico limite che si fonda sulla diversità strutturale tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio che preclude una completa assimilazione».

Il rimettente precisa che intende invocare l’art. 3 Cost. «non tanto per la sua portata uguagliatrice, perché non vi è dubbio che la condizione del coniuge è diversa da quella del convivente more uxorio, ma per la irrazionalità e la contraddittorietà logica della scelta discrezionale operata dal legislatore, nel caso di specie: la situazione del marito o della moglie e del convivente more uxorio che abbia instaurato uno stabile e durevole regime di convivenza sono in fatto assolutamente equiparabili, quando si tratti di evitare che, per motivi etici, si sia obbligati ad arrecare grave nocumento alla persona a cui si è affettivamente legati».

Del resto questa Corte ha già affermato che «…la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude affatto la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altra, che possono presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione» (sentenza n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004). In queste pronunzie si è ribadito che «fuori dal controllo di ragionevolezza sulla diversità del trattamento tra la famiglia di fatto e quella di diritto in casi specifici, che possano rendere necessaria una identità di disciplina, ogni intervento volto a parificare la famiglia di fatto e quella di diritto rientra nella sfera discrezionale del legislatore». Nel caso di specie non vi sarebbe razionalità nel tenere distinta la posizione del convivente more uxorio da quella del convivente coniugato.

Rimarcato ancora questo concetto, il rimettente sostiene che la presente questione di legittimità costituzionale, già in passato respinta da questa Corte, andrebbe riesaminata alla luce della realtà sociale, del mutamento della coscienza e dei costumi sociali in punto di convivenza e matrimonio, dei vincoli di solidarietà insiti nella famiglia di fatto e degli adeguamenti normativi che si sono seguiti nel corso degli anni i quali hanno indotto il legislatore e il giudice, anche nel settore penale, ad offrire tutela ad interessi che ne erano sprovvisti; e conclude richiamando alcuni di tali interventi, dopo aver segnalato che la questione sarebbe rilevante, «perché deve trovare concreta applicazione nel presente giudizio» e non manifestamente infondata, alla luce delle argomentazioni svolte.

Con atto in data 12 febbraio 2008 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito la manifesta infondatezza della questione, richiamando i precedenti sul punto della Corte di cassazione e di questa Corte.

La parte privata non ha svolto attività difensiva.

Considerato in diritto

 

1.— Il Tribunale di Como, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione – dell’art. 384, primo comma, del codice penale, «nella parte in cui non contempla tra i soggetti che possono beneficiare della scriminante anche il convivente more uxorio».

Il rimettente, chiamato a giudicare un imputato del delitto di cui all’art. 378 cod. pen., per avere offerto ospitalità presso la propria abitazione a M. D., aiutandola così a sottrarsi alle ricerche dell’autorità, perché colpita da provvedimento di unificazione di pene concorrenti, emesso dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Milano, osserva che l’imputato stesso intenderebbe invocare l’esimente prevista dalla norma denunziata, perché la sua condotta sarebbe stata determinata dalla necessità di evitare alla convivente more uxorio le gravi conseguenze in tema di libertà, derivanti dall’esecuzione dell’ordine di carcerazione emesso a suo carico. A ciò, tuttavia, sarebbe di ostacolo la specifica previsione normativa contemplata dall’art. 384, primo comma, cod. pen. (non suscettibile d’interpretazione adeguatrice), perché la causa di non punibilità ivi prevista sarebbe applicabile soltanto all’agente o ad un prossimo congiunto ed in tale nozione – ex art. 307, quarto comma, cod. pen. – rientrerebbe soltanto il coniuge, non il convivente more uxorio.

Sussisterebbe, dunque, una irragionevole disparità di trattamento tra due situazioni – quella del coniuge e quella del convivente more uxorio – assolutamente identiche nella sostanza. Infatti, la ratio dell’esimente di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen. sarebbe quella di evitare, per motivi etici, che un soggetto sia obbligato ad arrecare grave nocumento ad una persona alla quale sia legato da un profondo vincolo affettivo, perché parente o perché unito alla medesima da una convivenza stabile consacrata con il matrimonio, e non vi sarebbe ragione per escludere che detti motivi etici debbano essere considerati anche all’interno della famiglia di fatto.

L’art. 384, primo comma, cod. pen. intenderebbe valorizzare la stabile convivenza, cui sono connessi vincoli affettivi, e non l’unione formalizzata tra due persone, ovvero l’esistenza dell’atto di matrimonio. Sarebbe quindi irragionevole che il vincolo formale «di per sé costituisca il discrimine», escludendo dalla tutela una relazione tra due persone caratterizzata da tendenziale stabilità, natura affettiva e parafamiliare, comunanza di vita e di interessi.

Dopo aver richiamato gli elementi che, nel caso di specie, confermano l’attualità di un rapporto di convivenza basato su una stabile e consolidata relazione affettiva, il giudice a quo afferma che tale relazione sarebbe tutelata dall’art. 2 Cost. Osserva che, per quanto la famiglia fondata sul matrimonio e la famiglia di fatto non possano formare oggetto di completa assimilazione, tuttavia nel caso di specie la situazione del coniuge e quella del convivente more uxorio che abbia instaurato uno stabile e durevole rapporto di convivenza sarebbero del tutto equiparabili «quando si tratti di evitare che per motivi etici si sia obbligati ad arrecare grave nocumento alla persona cui si è affettivamente legati». Pone quindi l’accento sulle precedenti pronunzie di questa Corte e rileva che le trasformazioni intervenute nella realtà sociale, il mutamento della coscienza e dei costumi sociali in punto di convivenza e di matrimonio, le modifiche normative sopravvenute nel corso degli anni, la tutela accordata dal legislatore e dal giudice ad interessi che prima ne erano sprovvisti, giustificherebbero un riesame della fattispecie, non essendo ravvisabile una ragione per la quale il convivente non debba avvalersi dell’esimente di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen.

2.— La questione è ammissibile, perché il giudice a quo ha motivato, in modo conciso ma plausibile, sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.

3 — Essa, nel merito, non è fondata.

Si deve premettere che, come lo stesso rimettente non ignora, questa Corte è stata già chiamata a decidere sul tema (sentenze n. 8 del 1996 e n. 237 del 1986; ordinanze n. 121 del 2004 e n. 352 del 1989).

In tali pronunzie si è posto in luce che, senza dubbio, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale; ma si è anche aggiunto che questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente (sentenza n. 8 del 1996, in motivazione), non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.

Al riguardo, si deve ribadire quanto già più volte affermato, cioè che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale e non può essere assimilata a questo per desumerne l’esigenza costituzionale di una parità di trattamento. La stessa Costituzione ha valutato le due situazioni in modo diverso, ed il dato assume rilievo determinante in un giudizio di legittimità costituzionale. Infatti il matrimonio forma oggetto della specifica previsione contenuta nell’art. 29 Cost., che lo riconosce elemento fondante della famiglia come società naturale, mentre il rapporto di convivenza assume anch’esso rilevanza costituzionale, ma nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantita dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 237 del 1986).

Come questa Corte ha rilevato, «Tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata, e non si innesca alcuna “impropria” rincorsa verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale – fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – tenga presenti e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale» (sentenza n. 8 del 1996).

Quest’ultimo profilo, che richiama il connotato istituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, il quale non può essere ridotto al rango di elemento meramente formale, (come si legge nella prima parte dell’ordinanza di rimessione), giova a sottolineare un ulteriore elemento differenziale tra la convivenza di fatto, basata sull’affectio di ciascuna delle parti, e il rapporto coniugale, caratterizzato anche dalla maggiore stabilità.

In questo quadro, l’aspetto dei comuni sentimenti affettivi, che ben possono essere presenti in un rapporto di coniugio come in uno stabile rapporto di convivenza, non è idoneo a superare le diversità tra le due situazioni poste in luce dalla giurisprudenza di questa Corte. Tali diversità, senza escludere la riconosciuta rilevanza giuridica della convivenza di fatto, valgono però a giustificare che la legge possa riservare in linea di principio all’una e all’altra situazione un trattamento non omogeneo.

E’ ben vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che questa Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost. e che, in presenza di determinati presupposti, ha in concreto realizzato (sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988, nelle quali l’elemento unificante tra le due situazioni è stato ravvisato nell’esigenza di tutelare il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.).

Ma, nel caso in esame, il rimettente individua il dato, che dovrebbe porre sullo stesso piano la posizione del convivente e quella del coniuge, negli stabili vincoli affettivi comuni ad entrambe le situazioni, trascurando di verificare se i risultati, cui l’assimilazione così postulata conduce, siano compatibili con i poteri di questa Corte in relazione alla discrezionalità riservata al legislatore.

Innanzitutto, l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi, ed è stato riconosciuto da questa Corte, appartenere primariamente al legislatore (sentenze n. 385 del 1992, n. 267 del 1992, n. 32 del 1992, quest’ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988 e n. 241 del 1983; ordinanza n. 475 del 1987).

Come questa Corte ha già affermato nella sentenza n. 8 del 1996, «nel caso di specie si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro. Ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la famiglia legittima non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel settore dell’ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi paesi.

In più, una eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che – come si è detto – non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative consequenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale».

Nell’ordinanza di rimessione non si trovano persuasivi argomenti, idonei a superare le considerazioni sopra richiamate, che devono qui essere ribadite, sicché la norma denunziata si sottrae alle censure mosse sotto il profilo della ragionevolezza.

Non può condurre a diverse conclusioni l’assunto del rimettente, che pone l’accento, a sostegno della sua tesi, sull’art. 199 del codice di procedura penale, evidentemente per desumerne una sorta di favor evolutivo del legislatore verso la parità di trattamento dei due rapporti (benché il punto non sia sviluppato in modo esplicito). Invero, detta norma, nel terzo comma, lettera a), estende la facoltà di astensione dei prossimi congiunti dall’obbligo di deporre a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con lui, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato medesimo durante la convivenza. Ma essa, richiamata anche negli articoli 362 e 351 cod. proc. pen., contrariamente a quanto opinato dal giudice a quo, dimostra che, quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto di operare scelte selettive e mirate a casi determinati. In sostanza, come questa Corte ha rilevato (sentenza n. 352 del 2000, riferita alla fattispecie ex art. 649 cod. pen.), il legislatore penale – nell’ambito del suo apprezzamento discrezionale non censurabile perché esercitato in modo non irragionevole – ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate, invece di procedere ad un “allineamento” generale ed indiscriminato dei due rapporti.

Alla stregua delle precedenti considerazioni restano escluse, pertanto, non solo la violazione del parametro costituzionale individuato nell’art. 3, ma anche la violazione degli articoli 2 e 29 Cost., perché, per quanto sopra esposto, la tutela costituzionale in essi prevista opera su piani diversi e non sovrapponibili.

Conclusivamente, la questione di legittimità costituzionale, sollevata con l’ordinanza indicata in epigrafe, deve essere dichiarata non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384, primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, dal Tribunale di Como, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2009.