Sentenza n. 8 del 1996

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SENTENZA N. 8

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 384, 378 e 307 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 16 febbraio 1995 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Brussolo Anna Maria, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Torino ha sollevato, con ordinanza del 16 febbraio 1995, questione di legittimità costituzionale degli artt. 384, 378 e 307 del codice penale "nella parte in cui non prevedono che la causa di non punibilità prevista a favore dei prossimi congiunti sia estesa al convivente more uxorio", in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione.

Il giudizio penale a quo riguarda, tra l'altro, un'imputata di reato di favoreggiamento personale in favore del convivente; la questione, osserva il Tribunale, è dunque rilevante: l'imputata non può giovarsi della causa di non punibilità stabilita nell'art. 384, primo comma, del codice penale, che esonera dalla pena per diversi illeciti, tra cui appunto il favoreggiamento personale, chi sia costretto al fatto-reato dalla necessità di salvare un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, giacché, agli effetti della legge penale, l'art. 307, quarto comma, dello stesso codice fornisce una indicazione tassativa dei "prossimi congiunti", ricomprendendovi il coniuge ma non anche il convivente di fatto.

2.- Posto che la "ratio dell'esimente di cui all'art. 384 va individuata nell'esistenza di un profondo vincolo affettivo, coltivato quotidianamente, e non certo nella sanzione legale di tale vincolo", il giudice a quo ritiene che l'esclusione del convivente dall'ambito di applicazione della speciale causa di non punibilità non sia giustificata, perché la situazione della convivenza in nulla si distingue da quella del coniugio se non per la mancanza, appunto, di una "sanzione legale" del vincolo; la relazione coniugale, infatti, si fonda su taluni elementi essenziali, rappresentati da un legame affettivo stabile, con disponibilità reciproca ai rapporti sessuali, e da una base di reciproca assistenza e solidarietà, elementi questi che danno fondamento anche al rapporto di convivenza, improntato pure esso ai principi della "società naturale" cui ha riguardo l'art. 29 della Costituzione. D'altra parte, un consolidato rapporto di fatto non può dirsi costituzionalmente irrilevante, specialmente alla luce della crescente diffusione sociale del fenomeno, come è stato riconosciuto anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale con riguardo al rilievo delle formazioni sociali (art. 2 della Costituzione).

Se quindi relazione matrimoniale e convivenza di fatto rivestono identiche connotazioni, la diversa disciplina delle rispettive "garanzie" comporta una violazione del principio di eguaglianza.

"Non si ignora" - prosegue il rimettente - che la Corte ha già affrontato e risolto in senso negativo la questione, con la sentenza n. 237 del 1986 e con l'ordinanza n. 352 del 1989; ma, rispetto all'emanazione di quelle pronunce, il quadro normativo è mutato. Il nuovo codice di procedura penale, infatti, stabilisce, nell'art. 199, comma 3, lettera a), il rilievo della relazione - attuale o anche pregressa - di convivenza di fatto sul piano della facoltà di astenersi dal testimoniare (limitatamente ai fatti vericatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza). Questa previsione, che implica il relativo avviso da parte del giudice circa la facoltà di avvalersene (assistito dalla sanzione di nullità dell'atto, in caso di omissione), comporta altresì effetti sul piano sostanziale: l'art. 384, secondo comma, del codice penale esclude la punibilità per i reati di falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero in caso di omesso avviso, da parte del giudice, della facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza o le informazioni.

La citata nuova previsione processuale enuclea, ad avviso del giudice a quo, un ulteriore profilo di "incongruenza" e di disparità di trattamento a svantaggio della posizione del convivente imputato di favoreggiamento personale, rispetto all'imputato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero. Se è infatti vero che diversa è l'obiettività giuridica dei reati di favoreggiamento e di falsa testimonianza, perché quest'ultima tutela la giusta definizione del processo, mentre il primo tutela le investigazioni anche pre-processuali, questa differenza risulta ben più "sfumata" quando il raffronto sia istituito tra favoreggiamento (a mezzo dichiarazioni alla polizia giudiziaria) e reato di false informazioni al pubblico ministero, essendosi in tutti e due i casi in presenza di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari.

Osserva il Tribunale che tutte le ipotesi riconducibili all'art. 384 del codice penale si fondano, oltre che sul principio nemo tenetur se detegere, sul riconoscimento della forza degli affetti e dei legami di solidarietà familiare, che si basano sulle caratteristiche proprie di quei vincoli interpersonali e non sull'esistenza dell'atto di matrimonio; questa stessa ratio ha trovato emersione, sia pure parziale, nella richiamata disposizione del nuovo codice di procedura penale dalla cui applicazione, peraltro, discende - conclude il rimettente - un ulteriore sostegno alla fondatezza della questione, per la ingiustificata disparità di trattamento che al medesimo soggetto (convivente di fatto) viene accordata a seconda che si abbia riguardo alle dichiarazioni da lui rese alla polizia giudiziaria - come è nel caso del processo a quo - ovvero a quelle rese al pubblico ministero, essendo ricomprese queste ultime e non le prime nell'ambito di applicabilità dell'art. 384, secondo comma, del codice penale, in virtù della detta regola processuale.

3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

L'Avvocatura ricorda i precedenti della Corte costituzionale (sentenza n. 237 del 1986 e ordinanza n. 352 del 1989) che avevano escluso il contrasto con la Costituzione della normativa impugnata, anche con riguardo all'art. 2 della Costituzione, affermando che la eventuale parificazione della convivenza al coniugio è compito, articolato e complesso, proprio del legislatore. Questo quadro non può dirsi ora cambiato solo in virtù dell'intervento, specifico e mirato, sulla facoltà di astensione del convivente di fatto dal rendere testimonianza, sia pure con riverberi sulla punibilità del testimone assunto senza osservare le regole; l'accennato intervento è indice di una scelta selettiva e ragionevole del legislatore, mentre la parificazione generalizzata delle situazioni poste a raffronto dal Tribunale propone una richiesta additiva in materia penale, che contrasta con gli enunciati delle decisioni già citate.

L'interveniente conclude quindi per una declaratoria di non fondatezza della questione.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Torino ritiene incostituzionale la mancata estensione al convivente della causa di non punibilità prevista nel caso di favoreggiamento personale quando il fatto sia stato commesso essendo costretti dalla necessità di salvare il coniuge da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore. In effetti, l'art. 384, primo comma, del codice penale prevede la menzionata causa di non punibilità per una serie di delitti contro l'amministrazione della giustizia, tra i quali il favoreggiamento personale di cui all'art. 378 del medesimo codice, quando essi siano stati commessi, nelle condizioni sopra dette di necessità, a favore di un "prossimo congiunto" e questa nozione è determinata in generale, ai fini della legge penale, dall'art. 307, quarto comma, del codice penale, con una definizione che include il coniuge ma esclude il convivente. Da questa mancata equiparazione del convivente al coniuge, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione.

La sollevata questione non può essere accolta in riferimento ad alcuno dei parametri invocati, per i concorrenti motivi di infondatezza e di inammissibilità esposti qui di seguito.

2.- Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento all'art. 29 della Costituzione, a ragione l'ordinanza del Tribunale rimettente sottolinea la notevole diffusione della convivenza di fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell'uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente, non autorizza peraltro la perdita dei contorni caratteristici delle due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla radicale ed eccessiva affermazione, contenuta nell'ordinanza di rimessione, secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla differirebbero, se non per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo. Questa Corte, al contrario, in diverse decisioni il cui orientamento non può che essere qui confermato (sentenze nn. 310 del 1989, 423 e 404 del 1988 e 45 del 1980), ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, "fondata sull'affectio quotidiana - liberamente e in ogni istante revocabile - di ciascuna delle parti" rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da "stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri ... che nascono soltanto dal matrimonio".

Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta è che la Costituzione stessa ha dato delle due situazioni una valutazione differenziatrice. Tale valutazione esclude l'ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico-costituzionale, di affermazioni omologanti, del tipo di quella sopra riferita. Questa Corte, nella sentenza n. 237 del 1986 - che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame -, riconosciuta la rilevanza costituzionale del "consolidato rapporto" di convivenza, ancorché rapporto di fatto, lo ha tuttavia distinto dal rapporto coniugale, secondo quanto impongono il dettato della Costituzione e gli orientamenti emergenti dai lavori preparatori. Conseguentemente, ha ricondotto il primo all'ambito della protezione, offerta dall'art. 2, dei diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali e il secondo a quello dell'art. 29 della Costituzione. Tenendo distinta l'una dall'altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria "rincorsa" verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale - fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi - tenga presente e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale.

Questa valutazione costituzionale del rapporto di convivenza rispetto al vincolo coniugale non può essere contraddetta da opposte visioni dell'interprete. I punti di vista di principio assunti dalla Costituzione valgono innanzitutto come criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione o differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.

La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le situazioni sotto la medesima protezione dell'art. 29 della Costituzione, risulta così infondata.

3.- La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell'una e dell'altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'invocato art. 3 della Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l'essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia condotto talora a censurare l'ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia di fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e dal coniugio (sentenze nn. 559 del 1989, 404 del 1988 e 179 del 1976).

Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative, il Tribunale rimettente fonda la sua richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall'art. 384 del codice penale - in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati - a favore dei prossimi congiunti, ratio di tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del sentimento che li unisce. Poiché tale sentimento e tale legame possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti della famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole motivo - ad avviso del Tribunale rimettente - per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.

Ma neppure sotto questo profilo - che pur si basa innegabilmente su un dato di fatto incontestabile - la questione può essere accolta. Essa infatti mira, come risultato, a una decisione additiva che manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.

Innanzitutto, l'estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore (sentenze nn. 385, 267 e 32 del 1992, quest'ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988; ordinanza n. 475 del 1987; sentenza n. 241 del 1983).

Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l'esigenza della repressione di delitti contro l'amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall'altro. Ma non è detto che i beni di quest'ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la famiglia legittima, non esiste soltanto un'esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza, può sommarsi quella di tutela dell'istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel settore dell'ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.

In più, un'eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all'altro convivente o all'altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che - come si è detto - non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale che trascendono l'ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Non ci sarebbe motivo, infatti, per limitare l'equiparazione del convivente al coniuge, nell'ambito del primo comma dell'art. 384 del codice penale, al solo caso del favoreggiamento personale, anche perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori problemi di costituzionalità, sotto il profilo dell'irrazionalità, all'interno delle stesse fattispecie previste dal medesimo articolo. Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell'equiparazione in tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem (ad es. articoli 570, 577, ultimo comma, 605 del codice penale), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all'esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare.

Sotto il profilo dell'irragionevolezza, la dedotta questione di costituzionalità è dunque inammissibile.

4.- Le sopra esposte ragioni di infondatezza e di inammissibilità conducono così a confermare gli orientamenti espressi nella precedente sentenza n. 237 del 1986 di questa Corte. Senonché, il Tribunale rimettente rileva la novità dell'ordine normativo nel quale la questione ora riproposta viene a collocarsi. Tale novità è rappresentata dalla norma del vigente codice di procedura penale (art. 199) che estende la facoltà di astensione dal prestare testimonianza (facoltà cui corrisponde il dovere del giudice, a pena di nullità, di darne avviso all'interessato), dai prossimi congiunti (comma 1) a chi (comma 3, lettera a)), "pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso...", sia pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza: una disciplina applicabile altresì alle informazioni assunte da parte del pubblico ministero nelle indagini preliminari (art. 362 del codice di procedura penale, come novellato dall'art. 5 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356) e alle sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria (art. 351, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 4 della predetta novella). Da tale nuova disciplina processuale, che prevede dunque un'ampia, anche se non totale, assimilazione del convivente al coniuge rispetto alle dichiarazioni rese all'autorità, discendono poi conseguenze sostanziali per entrambi. L'art. 384, secondo comma, del codice penale prevede una causa di non punibilità relativamente ai reati di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) - ma non anche relativamente alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria: comportamento non previsto come reato specifico ma suscettibile di integrare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, la fattispecie del favoreggiamento personale - quando il soggetto richiesto di fornire informazioni o assunto come teste avrebbe dovuto essere avvertito della sua facoltà di astenersi; ipotesi, quest'ultima, che oggi, a causa della suddetta estensione operata dall'art. 199 del nuovo codice di procedura penale, riguarda, oltre che il coniuge, anche il convivente.

Dalla descritta evoluzione dell'ordinamento nel senso dell'avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge rispetto alla facoltà di astensione, nonché rispetto all'obbligo del relativo avviso e alla causa di non punibilità prevista nel caso di omesso avviso, il Tribunale rimettente trae ragione per ribadire l'incongruenza della disciplina riguardante le dichiarazioni rese dal convivente in sede di sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria. Il fatto materiale, infatti, potrebbe essere il medesimo,consistendo in false dichiarazioni, dichiarazioni rilevanti però a titolo di favoreggiamento personale davanti alla polizia giudiziaria e a titolo di false informazioni o di falsa testimonianza davanti al pubblico ministero o al giudice. Ma solo in questi due ultimi casi e non nel primo valendo la causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell'art. 384 del codice penale, analogo comportamento - le false dichiarazioni nel caso di omesso avviso della facoltà di astensione - può andare esente da pena se tenuto davanti al pubblico ministero o al giudice, ma non se tenuto davanti alla polizia giudiziaria, pur nell'identità delle norme processuali presupposte.

Affinché tali rilievi critici del giudice rimettente, in ordine all'accennato motivo di irrazionalità della normativa vigente, possano avere accesso all'esame di questa Corte, dovrebbero tuttavia essere formulati nell'ambito di una questione di costituzionalità essenzialmente diversa da quella presente, l'ipotizzata discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il coniuge e il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente), a seconda dell'autorità ricevente le sue dichiarazioni, e riguardando una diversa causa di non punibilità: non quella prevista nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma dell'art. 384 del codice penale. Pertanto, se tale era l'intento del giudice rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente percorsa della richiesta equiparazione del convivente al coniuge sotto il profilo del primo comma dell'art. 384 del codice penale: una via, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti, anche artificiosa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 29 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 gennaio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 18 gennaio 1996.