Sentenza n. 263 del 2017

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SENTENZA N. 263

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                       Giudice

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale ordinario di Lecce, con una ordinanza del 19 giugno e due ordinanze del 29 agosto 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 341, 342 e 343 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti l’atto di costituzione di D. V., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica e nella camera di consiglio del 24 ottobre 2017 il giudice relatore Franco Modugno;

uditi l’avvocato Ladislao Massari per D. V. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse il 19 giugno 2015 (r.o. n. 341 del 2015) e il 29 agosto 2015 (r.o. n. 342 e n. 343 del 2015), il Tribunale ordinario di Lecce, sezione per il riesame, solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari si svolga, su richiesta dell’indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza», denunciando la violazione degli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti, CEDU).Il giudice a quo premette di essere investito delle richieste di riesame delle ordinanze con le quali è stata applicata ai ricorrenti la misura della custodia cautelare in carcere per i reati di furto e ricettazione aggravata in concorso (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 341 del 2015), di associazione di stampo mafioso (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 342 del 2015) e di cessione illecita di sostanze stupefacenti (nel caso di cui all’ordinanza r.o. n. 343 del 2015).

Riferisce, altresì, che in ciascuno dei casi il difensore dell’interessato ha chiesto preliminarmente che il procedimento sia trattato nelle forme dell’udienza pubblica.

L’istanza – ad avviso del rimettente – non potrebbe essere accolta, ostandovi l’univoco disposto dell’art. 309, comma 8, cod. proc. pen., a mente del quale il procedimento davanti al tribunale del riesame si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen., e dunque – in forza del comma 6 di tale articolo – senza la presenza del pubblico.

Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disciplina.

Essa violerebbe, anzitutto, l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Quest’ultima ha ritenuto, infatti, incompatibili con l’indicata garanzia convenzionale taluni procedimenti giurisdizionali dei quali la legge italiana prevedeva la trattazione in forma camerale, senza consentire la partecipazione del pubblico, e in specie i procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia). A tale conclusione la Corte europea è pervenuta richiamando la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette a giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, ossia l’equo processo. La Corte ha escluso, altresì, che nel caso esaminato ricorresse alcuna circostanza eccezionale atta a giustificare una deroga generale e assoluta al principio di pubblicità dei giudizi. In particolare, ha osservato che – pur a fronte dell’elevato grado di tecnicismo che le procedure di prevenzione possono presentare e delle esigenze di protezione della vita privata di terze persone, in esse spesso riscontrabili – l’entità della «posta in gioco» e gli effetti che le procedure stesse possono produrre sulle persone coinvolte non consentono di affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale», ai fini del rispetto del citato art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che i soggetti coinvolti nelle procedure in questione «si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

Alla luce di tali affermazioni, la Corte costituzionale ha dichiarato quindi illegittime, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., le norme regolative del procedimento di prevenzione nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, la procedura si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica, quanto ai gradi di merito (sentenza n. 93 del 2010). Nell’occasione, la Corte costituzionale ha escluso che la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. Pur in assenza di un’espressa menzione nella Carta costituzionale, il principio di pubblicità delle udienze – specie per quanto attiene al giudizio penale – deve ritenersi, infatti, connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la propria legittimazione.

Alle medesime conclusioni la Corte è successivamente pervenuta anche in rapporto al procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza (sentenza n. 135 del 2014), al procedimento davanti al tribunale di sorveglianza (sentenza n. 97 del 2015) e al procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca in sede esecutiva (sentenza n. 109 del 2015).

Secondo il giudice a quo, analoga declaratoria di illegittimità costituzionale si imporrebbe anche con riguardo al procedimento di riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva, disciplinato dall’art. 309 cod. proc. pen. Tale procedimento – al pari di quello di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. e di quello di riesame delle misure cautelari reali (art. 324 cod. proc. pen.) – non presenterebbe, infatti, almeno di regola, un «rilevante tasso di tecnicismo giuridico», attenendo ad un fatto storico concreto. La valutazione affidata al giudice non differirebbe – se non per una minore ampiezza – da quella insita in ogni giudizio di merito, dovendosi verificare la fondatezza dell’addebito cautelare – sotto il profilo della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, quanto alle misure personali, e della giuridica plausibilità, quanto a quelle reali – nella prospettiva di applicare, in caso di positiva delibazione e di accertata sussistenza di esigenze cautelari, provvedimenti che possono avere effetti sostanzialmente coincidenti con quelli della pena irrogata con la sentenza definitiva. La «posta in gioco» sarebbe inoltre altissima, trattandosi di procedimento idoneo ad incidere in modo rilevante sulla libertà personale, sull’onorabilità e (nel caso delle misure reali) sul patrimonio del soggetto in esso coinvolto.

«Sotto l’aspetto mediatico», d’altronde, l’esecuzione di una misura cautelare rappresenterebbe, per comune esperienza, il «momento […] traumatico di emersione del procedimento» penale. Tale circostanza solleciterebbe l’attenzione dell’opinione pubblica sull’esito del procedimento di riesame, che offre al sottoposto alla misura la prima possibilità di confrontarsi in contraddittorio con il materiale indiziario raccolto nei suoi confronti, rendendo così «quanto mai opportuna» la pubblicità delle udienze al fine di assicurare la trasparenza dell’attività giudiziaria.

Alla partecipazione del pubblico alla trattazione del ricorso di cui all’art. 309 cod. proc. pen. non osterebbe, per altro verso, alcuna delle circostanze indicate nel secondo periodo del paragrafo 1 dell’art. 6 della CEDU (secondo il quale «l’accesso nella sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia»). Nei giudizi a quibus, si discute dell’applicazione della misura cautelare carceraria nei confronti di soggetti indagati per reati che non coinvolgono né l’interesse alla morale, né quello all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale, né gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa.

Neppure potrebbe venire in rilievo l’esigenza di evitare una lesione degli interessi della giustizia, in considerazione del fatto che la misura cautelare viene applicata, di regola, in una fase del procedimento – quella delle indagini preliminari – governata dal principio di segretezza per non compromettere la genuina acquisizione delle prove e quindi il compiuto accertamento dei fatti. Di là dal fatto che non sempre la misura cautelare è disposta in detta fase, varrebbe osservare che proprio la proposizione della richiesta di riesame fa cadere il segreto sugli atti di indagine, dovendo l’autorità procedente trasmettere gli atti presentati dal pubblico ministero a sostegno della richiesta della misura, nonché quelli successivi favorevoli alla persona sottoposta alle indagini. Il segreto cadrebbe, anzi, ancor prima, con la consegna all’indagato di copia del provvedimento in sede di esecuzione della misura (art. 293 cod. proc. pen.), posto che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza (art. 329 cod. proc. pen.).

Quello di riesame è certamente un giudizio di natura sommaria e provvisoria, che si inserisce nel procedimento principale solo al fine di verificare la legittimità dell’applicazione di una misura cautelare e che è destinato ad essere superato dalla sentenza dibattimentale. Il carattere incidentale del procedimento non basterebbe, tuttavia, a renderlo compatibile, in parte qua, con il dettato convenzionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha escluso, bensì, l’applicabilità dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU al procedimento in materia di ricusazione, sul rilievo che esso costituisce una procedura incidentale non finalizzata ad una «decisione» sulla «fondatezza» di una «accusa penale» – come richiede la citata norma convenzionale – ma solo a determinare l’autorità competente a trattare la causa ratione loci (sentenza 9 febbraio 2006, Celot contro Italia). Tale conclusione non riguarderebbe, tuttavia, il procedimento di riesame, nel quale il tribunale – in sede di verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza – esprime un giudizio che costituisce una sorta di anticipazione della sentenza dibattimentale, rappresentato dalla elevata probabilità che, sulla scorta degli elementi offerti, la responsabilità penale dell’indagato sarà poi affermata nel processo. Quel che rileverebbe, ai fini dell’applicazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, è che si è a fronte di un giudizio sull’accusa penale – ipotesi senz’altro riscontrabile nel caso in esame – e non anche la circostanza che tale decisione vale a definire la «causa». Il giudizio del tribunale del riesame, d’altro canto, inciderebbe in modo definitivo – salve circostanze sopravvenute – sulla libertà personale e sul diritto di proprietà dell’interessato, sia pure ai soli fini cautelari.

La disciplina censurata violerebbe anche l’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con i principi del «giusto processo», ai quali, per quanto già detto, non potrebbe ritenersi estraneo – pur in difetto di enunciazione espressa – il principio di pubblicità delle udienze giudiziarie.

Risulterebbe violato, infine, l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento di riesame sia rispetto ai soggetti coinvolti nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza – ai quali, per effetto dei ricordati interventi della Corte costituzionale, è ora riconosciuto il diritto di chiedere la trattazione in udienza pubblica della procedura – sia rispetto ai soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario.

2.– È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

L’interveniente rileva preliminarmente che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, nei casi di specie la richiesta di trattazione del procedimento in udienza pubblica è stata formulata dal difensore. Trattandosi di far valere un diritto personalissimo, non afferente alla sfera della difesa tecnica e potenzialmente confliggente con il diritto alla riservatezza, proprio della condizione dell’indagato detenuto in base a titolo precario, la richiesta avrebbe dovuto essere avanzata, per contro, personalmente da quest’ultimo o a mezzo di difensore munito di procura speciale, il che non si evince dall’ordinanza di rimessione. Di conseguenza, non essendo possibile verificare se la richiesta di trattazione in udienza pubblica corrisponda effettivamente alla volontà e all’interesse dell’indagato, resterebbe inibito il necessario scrutinio circa la rilevanza delle questioni.

Nel merito, le questioni sarebbero in ogni caso infondate.

La procedura incidentale di riesame non è volta, infatti, a decidere sul merito della responsabilità penale e la pronuncia che la conclude non è destinata ad assumere il connotato della irrevocabilità. La decisione ha luogo allo stato degli atti, e anche quello che la giurisprudenza definisce come giudicato cautelare presenta «una stabilità piuttosto effimera». Conseguentemente, la procedura non ricadrebbe nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della CEDU, che attiene unicamente ai procedimenti finalizzati a verificare la fondatezza sostanziale dell’accusa.

Neppure, d’altro canto, potrebbe ritenersi conculcato il diritto di difesa, risultando in ogni caso garantita la partecipazione dell’interessato e non essendo previsti meccanismi di acquisizione delle prove connotati dal regime della pubblicità.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Lecce, con tre ordinanze di analogo tenore, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari si svolga, su richiesta dell’indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza».

Ad avviso del rimettente, le norme censurate violerebbero l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto non rispettose del principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti, CEDU), così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Risulterebbe violato, altresì, l’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con il principio del «giusto processo», al quale non potrebbe ritenersi estraneo, pure in difetto di espressa menzione, quello di pubblicità delle udienze giudiziarie.

Le disposizioni censurate lederebbero, infine, l’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento di riesame sia rispetto ai soggetti coinvolti nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza – ai quali, per effetto delle sentenze n. 93 del 2010 e n. 135 del 2014 di questa Corte, è riconosciuto il diritto di chiedere la trattazione in udienza pubblica della procedura – sia rispetto ai soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario.

2.– Le tre ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3.– In via preliminare, va rilevato che – malgrado i ripetuti riferimenti al procedimento di appello in materia cautelare (art. 310 cod. proc. pen.) e a quello di riesame delle misure cautelari reali (art. 324 cod. proc. pen.) rinvenibili nella motivazione delle ordinanze di rimessione – il dispositivo e le premesse delle ordinanze stesse rendono palese come le questioni sottoposte alla Corte attengano al solo procedimento di riesame delle misure cautelari coercitive, regolato dall’art. 309 cod. proc. pen. (strumento di impugnazione sui generis, inteso a realizzare un controllo, anche di merito, in tempi ristretti e perentori sui provvedimenti “genetici” delle predette misure). Le doglianze investono segnatamente la previsione del comma 8 del citato art. 309, secondo la quale detto procedimento «si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall’articolo 127», e dunque, ai sensi del parimente censurato comma 6 della disposizione richiamata, «senza la presenza del pubblico».

4.– Ciò premesso, l’eccezione di inammissibilità delle questioni formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri non è fondata.

L’interveniente rileva che, per quanto riferito dal rimettente, la richiesta di trattazione in udienza pubblica dei procedimenti a quibus – richiesta che condiziona la rilevanza delle questioni (sentenza n. 214 del 2013) – è stata formulata dal difensore del ricorrente e, dunque, da un soggetto – in assunto – non legittimato. Trattandosi dell’esercizio di un diritto personalissimo, non afferente alla difesa tecnica e potenzialmente confliggente con il diritto alla riservatezza del soggetto in vinculis, l’istanza avrebbe dovuto essere, infatti, proposta personalmente dall’indagato o da difensore munito di procura speciale.

In senso contrario, va osservato che l’art. 99, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce, come regola generale, che «[a]l difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo». In assenza di una disposizione che configuri la richiesta di udienza pubblica come atto personale dell’imputato, la tesi per cui essa può promanare anche dal difensore appare, dunque, quantomeno non implausibile. È questa, del resto, l’opinione corrente con riguardo alla richiesta di svolgimento in pubblica udienza del giudizio abbreviato (altrimenti trattato in forma camerale), prevista dall’art. 441, comma 3, cod. proc. pen.

5.– Nel merito, le questioni sono, tuttavia, non fondate.

5.1.– Un rilievo preminente assume, nella prospettazione del rimettente, la censura di violazione della garanzia della pubblicità dei procedimenti giudiziari, stabilita dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: violazione cui consegue, di riflesso, quella dell’art. 117, primo comma, Cost. Ciò, alla luce del noto indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – inaugurato dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – secondo il quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito (con giurisprudenza consolidata: sentenza n. 49 del 2015) dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il citato parametro costituzionale, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

A sostegno della censura, il rimettente evoca, in particolare, la sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto incompatibile con l’indicata garanzia convenzionale il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, del quale la legge italiana all’epoca vigente prevedeva la trattazione in forma camerale.

La Corte europea è pervenuta a tale conclusione richiamando la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l’equo processo.

Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità delle udienze. La stessa Corte europea ha, d’altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica. In ogni caso, però, l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa».

Con particolare riguardo al procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte di Strasburgo non ha negato che detta procedura possa presentare «un elevato grado di tecnicità» e far emergere, altresì, esigenze di protezione della vita privata di terze persone. Ma ha rilevato che l’entità della «posta in gioco» – rappresentata (nel caso delle misure patrimoniali) dalla confisca di «beni e capitali» – e gli effetti che la procedura stessa può produrre sulle persone non consentono di affermare «che il controllo del pubblico» – almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto – «non sia una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato». Di conseguenza, ha ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

Tali principi, enunciati avendo specificamente di mira il procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione reali, sono stati ribaditi dai giudici europei in plurime pronunce successive ed estesi recentemente anche al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione personali (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia).

Il giudice a quo ricorda, per altro verso, come gli arresti della giurisprudenza europea – ritenuti pienamente compatibili «con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione» – siano stati posti da questa Corte a base di declaratorie di illegittimità costituzionale attinenti non soltanto al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione (sentenza n. 93 del 2010), ma anche a procedimenti ulteriori e distinti rispetto a quelli presi in esame in sede europea: procedimenti ai quali le conclusioni raggiunte dalla Corte di Strasburgo sono apparse estensibili, in ragione del carattere non prettamente «tecnico» delle questioni in essi affrontate e della rilevanza della «posta in gioco» (sentenza n. 135 del 2014, con riguardo al procedimento per l’applicazione di misure di sicurezza; sentenza n. 97 del 2015, in relazione al procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza; sentenza n. 109 del 2015, in ordine al procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca in sede esecutiva). In ognuna di tali circostanze, le norme censurate sono state dichiarate costituzionalmente illegittime – in linea con le indicazioni della Corte di Strasburgo – «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati», i procedimenti considerati si svolgano «nelle forme dell’udienza pubblica», quanto ai gradi di merito.

Secondo il Tribunale leccese, una pronuncia similare si imporrebbe anche in rapporto al procedimento di riesame delle misure cautelari personali. Anche in questo caso, non si sarebbe di fronte a un procedimento connotato da un elevato tasso di tecnicismo, trattandosi di giudizio volto a verificare «la fondatezza dell’addebito cautelare», sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. La «posta in gioco» sarebbe, inoltre, altissima, discutendosi dell’applicazione di provvedimenti restrittivi della libertà personale che possono avere effetti coincidenti con quelli della pena irrogata con la sentenza definitiva e che incidono, altresì, sull’«onorabilità» del soggetto attinto. L’esclusione assoluta del pubblico dall’udienza di trattazione del ricorso non sarebbe, d’altra parte, giustificabile con alcuna delle esigenze indicate nella seconda parte dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU (ivi compresa quella della tutela degli interessi della giustizia, connessa alla salvaguardia del segreto sugli atti di indagine, il quale cadrebbe, a norma dell’art. 329 cod. proc. pen., già con la consegna dell’indagato di copia del provvedimento cautelare in sede di esecuzione della misura). Da ultimo, l’opinione pubblica avrebbe un particolare interesse a seguire lo svolgimento della procedura di riesame, posto che l’applicazione della misura cautelare rappresenta, di solito, il momento «traumatico» di emersione del procedimento penale.

5.2.– Nel formulare la doglianza, il giudice a quo non tiene conto, tuttavia, della giurisprudenza della Corte di Strasburgo attinente, in modo specifico, al procedimento di verifica della legittimità della detenzione ante iudicium della persona indiziata di un reato: giurisprudenza secondo la quale la Convenzione non richiede, in via di principio, che le relative udienze siano aperte al pubblico.

Tale indirizzo trova il suo caposaldo nella sentenza 15 novembre 2005, Reinprecht contro Austria. Con tale pronuncia, la Corte ha anzitutto escluso che l’esigenza della pubblicità sia desumibile dalla norma della Convenzione che si occupa specificamente del procedimento considerato: vale a dire l’art. 5, paragrafo 4, secondo il quale «[o]gni persona privata della libertà con un arresto o una detenzione ha il diritto di presentare un ricorso davanti ad un tribunale, affinché decida in breve tempo sulla legittimità della sua detenzione e ordini la sua liberazione se la detenzione è illegittima».

Richiamando la propria precedente giurisprudenza, la Corte europea ha osservato che detto procedimento deve avere carattere giudiziale, assicurando il rispetto dei principi del contraddittorio e della «parità delle armi», in quanto «fondamentali garanzie di procedura». Nel caso in cui la detenzione ricada nella previsione dell’art. 5, paragrafo 1, lettera c) – ossia quando si tratti di detenzione preventiva della persona indiziata di un reato – è inoltre necessario che si tenga un’udienza.

Nessun supporto trova, tuttavia, la tesi in base alla quale detta udienza dovrebbe essere pubblica. In particolare, tale requisito non può essere ritenuto implicito nella previsione dell’art. 5, paragrafo 4, in quanto finalizzata alla protezione contro l’arbitrio, ovvero desunto dallo stretto collegamento esistente, nella sfera dei procedimenti penali, tra tale previsione e l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione. L’applicabilità di quest’ultima disposizione nella fase anteriore al giudizio resta, infatti, limitata alle garanzie che, se non applicate in questa fase, pregiudicherebbero l’«equità» dei processi «nella loro interezza»: pregiudizio che il difetto di pubblicità dell’udienza di riesame della legalità della detenzione, durante la quale l’interessato sia stato assistito da un difensore, non appare invece idoneo a produrre.

Occorre considerare, altresì, che le disposizioni degli artt. 5, paragrafo 4, e 6, paragrafo 1, della CEDU, malgrado la loro connessione, perseguono diverse finalità. La prima mira a proteggere l’individuo contro l’arbitraria detenzione, garantendo un rapido riesame della legalità di ogni forma di privazione della libertà personale. L’art. 6, paragrafo 1, si occupa invece della verifica della fondatezza di un’accusa penale ed è volto a garantire che il merito della causa – ossia la questione se l’accusato sia o no colpevole dei fatti contestatigli – fruisca di una «equa e pubblica udienza». Tale diversità di obiettivi spiega perché l’art. 5, paragrafo 4, preveda requisiti procedurali più flessibili di quelli dell’art. 6, mentre sia molto più stringente con riguardo alla rapidità della decisione: esigenza con la quale la pubblicità delle udienze potrebbe collidere.

Di qui la conclusione che l’art. 5, paragrafo 4, della CEDU, «pur richiedendo un’udienza per il riesame della legittimità della detenzione anteriore al giudizio, non richiede come regola generale che detta udienza sia pubblica».

La Corte di Strasburgo si è anche chiesta, peraltro, se l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU possa essere applicato ai procedimenti in discorso sotto il profilo civile, ossia nella parte in cui riferisce le garanzie ivi enunciate – compresa quella della pubblicità – alle controversie sui diritti e sulle obbligazioni «di natura civile» (così come è poi avvenuto in rapporto al procedimento di prevenzione, ritenuto dalla Corte europea di natura non penale agli effetti della Convenzione): ciò, sul presupposto che la libertà personale costituisce essa stessa, comunque sia, un «diritto civile». La risposta è stata, tuttavia, negativa.

La Corte ha, infatti, osservato che le norme della Convenzione debbono essere interpretate in modo armonico. Con riguardo alla carcerazione preventiva, contrasterebbe con tale principio derivare dal profilo civile dell’art. 6 requisiti più stringenti di quelli imposti dallo specifico sistema di protezione relativo ai procedimenti penali prefigurato dall’art. 5, paragrafo 4, e dal profilo penale dello stesso art. 6. In tale prospettiva, si deve quindi riconoscere che la prima di dette norme si pone come lex specialis rispetto alla seconda, prevedendo specifiche garanzie procedurali per le questioni in materia di privazione della libertà distinte da quelle dell’art. 6.

5.3.– Le conclusioni ora ricordate sono state confermate dalla giurisprudenza successiva, così da potersi ritenere consolidate.

I giudici europei hanno ribadito, infatti, in più occasioni che l’art. 5, paragrafo 4, della CEDU, mentre esige che il ricorso a un tribunale avverso una detenzione presenti le garanzie fondamentali inerenti ad una istanza di carattere giudiziario, dando luogo ad un procedimento in contraddittorio che assicuri la «parità delle armi» tra le parti, non richiede invece, come regola generale, che l’udienza di riesame della legalità della carcerazione preventiva sia pubblica, pur non potendosi escludere che la pubblicità sia richiesta in determinate circostanze (Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 ottobre 2012, Pichugin contro Russia; 21 giugno 2011, Fruni contro Slovacchia; 16 dicembre 2010, Trepashkin contro Russia). Ciò, in quanto il requisito in parola non rientra nel “nocciolo duro” delle garanzie inerenti alla nozione di «equità», nello specifico contesto dei procedimenti in materia di detenzione (Corte europea dei diritti dell’uomo, 31 maggio 2011, Khodorkovskiy contro Russia).

Costante, per altro verso, è l’affermazione per cui, in rapporto agli anzidetti procedimenti, il citato art. 5, paragrafo 4, costituisce lex specialis rispetto all’art. 6 (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 febbraio 2013, Amie e altri contro Bulgaria; 10 gennaio 2013, Claes contro Belgio); come pure l’altra che la procedura prevista dall’art. 5, paragrafo 4, non deve sempre accompagnarsi a garanzie identiche a quelle pretese dall’art. 6, posto che le due disposizioni perseguono obiettivi differenti (tra le ultime, Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 maggio 2017, Mustafa Avci contro Turchia; 13 dicembre 2016, Kolomenskiy contro Russia).

A fronte di ciò, in fattispecie nelle quali il difetto di pubblicità delle udienze dei procedimenti in questione era stata censurata in rapporto tanto all’art. 5 quanto all’art. 6 della CEDU, la Corte ha rigettato la censura ai sensi dell’art. 35, paragrafi 3 e 4, della Convenzione, reputandola manifestamente infondata (Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 dicembre 2011, Rafig Aliyev contro Azerbaigian; 9 novembre 2010, Farhad Aliyev contro Azerbaigian).

5.4.– Alla luce di quanto precede, la questione di legittimità costituzionale sollevata dall’odierno rimettente in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. si rivela dunque non fondata, per la dirimente ragione che la «norma interposta» ricavabile dalla CEDU, come interpretata dalla “sua” Corte, destinata ad integrare il parametro costituzionale evocato, risulta essere di segno diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo.

6.– Egualmente infondata è la censura di violazione dell’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con i principi del «giusto processo».

6.1.– Al riguardo, giova ricordare come, anteriormente alla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), la giurisprudenza di questa Corte fosse costante nel ritenere che, pur in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, il principio di pubblicità delle udienze giudiziarie assumesse una indubbia valenza costituzionale, in particolare quale corollario della previsione dell’art. 101, primo comma, Cost. (secondo la quale «[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo»). La regola della pubblicità del giudizio – si era osservato – risulta, infatti, connaturata ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale, in forza del citato art. 101, primo comma, Cost., trova in quella sovranità la sua legittimazione (sentenze n. 235 del 1993, n. 373 del 1992, n. 50 del 1989, n. 212 del 1986 e n. 12 del 1971). E ciò particolarmente in rapporto ai giudizi penali, tenuto conto della qualità degli interessi da proteggere e dei riflessi sociali della violazione delle norme penali (sentenza n. 69 del 1991).

Al tempo stesso, tuttavia, si era precisato come quella regola non avesse valore assoluto, potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicità in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali (n. 50 del 1989 e n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). Entro tali limiti, il bilanciamento dei vari interessi in gioco rimaneva, comunque sia, affidato alla discrezionalità legislativa (sentenze n. 235 del 1993 e n. 373 del 1992).

6.2.– Alla costituzionalizzazione espressa del principio di pubblicità non si è pervenuti neppure in occasione dell’inserimento in Costituzione dei principi del «giusto processo» ad opera della legge cost. n. 2 del 1999: ciò, quantunque il nuovo testo dell’art. 111 Cost. ricalchi, in parte qua, le corrispondenti previsioni della CEDU.

Nondimeno, proprio nel pronunciarsi sulla tematica oggi in esame – quella del diritto alla pubblicità delle udienze nei procedimenti camerali – questa Corte ha ritenuto di poter ravvisare nella previsione del novellato primo comma dell’art. 111 Cost. (secondo la quale «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge») il referente primario cui agganciare, nell’attuale panorama normativo, la rilevanza costituzionale del principio di pubblicità. Ciò, sull’implicito presupposto che – anche alla luce di quanto disposto dall’art. 6 della CEDU – detto principio rappresenti, comunque sia, una componente naturale e coessenziale del processo «equo». La dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta in volta censurate è stata, infatti, pronunciata non solo per la riscontrata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., conseguente al loro contrasto con la disciplina convenzionale, ma anche per quella dell’art. 111, primo comma, Cost. (sentenze n. 109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014).

6.3.– Nel caso odierno, peraltro – escluso, per quanto detto, che l’esigenza di estendere il meccanismo della “pubblicità a richiesta” al procedimento di riesame possa essere desunta dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU – deve parimente escludersi che l’intervento auspicato dal giudice a quo possa ritenersi imposto dalla norma costituzionale interna sul «giusto processo».

La presenza di una ulteriore base normativa atta a fondare la rilevanza costituzionale del principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari si presta a conferire a quest’ultimo un maggior risalto, accrescendone la “forza di resistenza” nei confronti di sollecitazioni di segno contrastante. Essa non intacca, tuttavia, la conclusione cui era già pervenuta questa Corte, riguardo al carattere non assoluto del principio e alla configurabilità di legittime eccezioni, dovendosi tuttora escludere che la Costituzione imponga in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario e di ogni fase di esso.

Nella specie, non si può non considerare il fatto che il riesame costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco di un più ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente), ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tempi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presupposti della misura cautelare applicata.

Non si tratta, inoltre, di una sedes deputata all’acquisizione della prova (e, in particolare, della prova orale-rappresentativa): attività in rapporto alla quale, come posto in evidenza da questa Corte, soprattutto si apprezza l’esigenza di un controllo diretto del pubblico sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso di chiunque nella sala di udienza (sentenza n. 80 del 2011). Il perimetro cognitivo del tribunale del riesame è, infatti, segnato dagli atti trasmessigli dall’autorità giudiziaria procedente ai sensi dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., nonché dagli «elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza» (art. 309, comma 9, primo periodo, cod. proc. pen.). Si tratta, quindi, di un giudizio preminentemente cartolare, condotto sulla base di dati raccolti fuori dal contraddittorio. Per giurisprudenza unanime, il tribunale del riesame è privo di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate, né la disciplina dell’art. 127 cod. proc. pen., richiamata per regolamentare lo svolgimento della procedura, autorizza – incentrata, com’è, sulla mera “audizione” delle parti – a ritenere ammissibile un’attività di elaborazione probatoria nel corso dell’udienza, con particolare riferimento all’assunzione in forma orale dei contenuti informativi.

Ancora, la decisione assunta in sede di riesame è intrinsecamente provvisoria, essendo destinata a rimanere superata dagli esiti del successivo giudizio. Il cosiddetto giudicato cautelare, suscettibile di formarsi all’esito della decisione del tribunale del riesame – figura elaborata dalla giurisprudenza nella prospettiva di evitare una defatigante reiterazione delle medesime istanze – non è, notoriamente, un giudicato vero e proprio, esaurendosi nel mero impedimento alla riproposizione, rebus sic stantibus, di richieste al ‘giudice della cautela’ basate su motivi già dedotti. Di contro, questa Corte, nelle citate sentenze n. 135 del 2014 e n. 93 del 2010, ha identificato proprio nella idoneità ad incidere in modo definitivo su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati uno degli elementi che valgono a differenziare i procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione e di sicurezza «da un complesso di altre procedure camerali», conferendo «specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato».

A ciò si aggiunga che il procedimento di riesame – ove esperito nel corso della fase delle indagini preliminari, come avviene il più delle volte (e anche nei casi oggetto dei giudizi a quibus) – pone anche problemi di tutela della segretezza cosiddetta esterna degli atti di indagine. È ben vero che, come afferma il giudice a quo, l’ostensione all’imputato degli atti di indagine nell’ambito del procedimento di riesame determina la caduta del segreto sugli stessi, a mente dell’art. 329, comma 1, cod. proc. pen. Resta fermo, tuttavia, il divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti fino alla conclusione delle indagini preliminari (ovvero fino al termine dell’udienza preliminare) sancito dall’art. 114, comma 2, cod. proc. pen. (essendo possibile unicamente la divulgazione del loro contenuto, ossia delle informazioni che se ne possono trarre: comma 7 dell’art. 114). Divieto che rischierebbe di essere travolto ove il pubblico fosse ammesso ad assistere direttamente all’udienza di riesame.

Tali considerazioni inducono a concludere che, malgrado l’entità della «posta in gioco», la scelta di escludere la pubblicità delle udienze di riesame costituisce frutto di un ragionevole esercizio della discrezionalità che al legislatore compete in materia. Si è, infatti, di fronte ad un incidente che si inserisce in un impianto processuale più ampio, entro il quale il principio di pubblicità trova il suo “naturale” sbocco, satisfattivo della relativa esigenza costituzionale, nella fase dibattimentale.

7.– Nelle considerazioni che precedono è già insita l’infondatezza della restante censura del Tribunale salentino: quella di violazione dell’art. 3 Cost., connessa all’asserita irragionevole disparità di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento di riesame rispetto a quelli coinvolti nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza (i quali, grazie all’intervento di questa Corte – recepito poi dal legislatore, quanto al procedimento di prevenzione – sono abilitati a chiedere l’udienza pubblica), nonché ai soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario.

I tertia comparationis appaiono, infatti, disomogenei.

Diversamente dal procedimento di riesame, i procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza sono procedimenti autonomi, nei quali il giudice di merito è chiamato ad esprimere – all’esito di un’attività di acquisizione probatoria – giudizi definitivi in ordine al thema decidendum. Con riguardo a quest’ultimo, non vi è, dunque, altra sede nella quale il controllo diretto del pubblico sull’amministrazione della giustizia può trovare attuazione. In detti procedimenti non si pongono, d’altronde, esigenze di speditezza paragonabili a quelle che connotano il riesame.

Ancora più evidente è la non omologabilità – quanto all’esigenza di rispetto del principio di pubblicità – del procedimento di riesame al giudizio abbreviato e al giudizio ordinario. Posto che il rimettente intende evidentemente far riferimento, rispettivamente, alla facoltà di richiedere la trattazione in udienza pubblica del giudizio abbreviato, prevista dall’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., e alla pubblicità istituzionalmente propria dell’udienza dibattimentale (art. 471 cod. proc. pen.), è agevole osservare che in questi casi si discute della sede elettiva di esplicazione del principio di pubblicità, rappresentata dalla decisione sul merito dell’accusa penale.

8.– In rapporto a ognuno dei parametri evocati, le questioni vanno dichiarate, pertanto, non fondate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 24 ottobre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.