Ordinanza n. 25 del 2006

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ORDINANZA N. 25

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                                 BILE                                                  Presidente

-  Giovanni Maria                   FLICK                                              Giudice

-  Francesco                            AMIRANTE                                             “

-  Ugo                                     DE SIERVO                                             “

-  Romano                              VACCARELLA                                       “

-  Paolo                                   MADDALENA                                        “

-  Alfio                                   FINOCCHIARO                                      “

-  Alfonso                               QUARANTA                                            “

-  Franco                                 GALLO                                                     “

-  Luigi                                   MAZZELLA                                             “

-  Gaetano                              SILVESTRI                                              “

-  Sabino                                 CASSESE                                                 “

-  Maria Rita                           SAULLE                                                   “

-  Giuseppe                             TESAURO                                                “

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge 30 gennaio 1999, n. 15 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo equilibrato dell’emittenza televisiva e per evitare la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo), convertito, con modificazioni, nella legge 29 marzo 1999, n. 78 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 gennaio 1999, n. 15, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo equilibrato dell’emittenza televisiva e per evitare la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo), promosso con ordinanza del 12 dicembre 2002 dal Consiglio di Stato, sul ricorso proposto da Pubblikappa s.r.l. contro l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed altra, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2003.

         Visti gli atti di costituzione di Pubblikappa s.r.l., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nell’udienza pubblica del 13 dicembre 2005 il Giudice relatore Romano Vaccarella;

         uditi gli avvocati Claudio Chiola e Patrizio Gagliotti per la Pubblikappa s.r.l. e l’avvocato dello Stato Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

         Ritenuto che il Consiglio di Stato, investito dell’appello proposto dalla società Pubblikappa s.n.c. avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio il 29 maggio 2002, con la quale era stata respinta l’istanza di sospensione della delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 63/02/CONS del 27 febbraio 2002, ha sospeso tale delibera e, con separata ordinanza del 12 dicembre 2002, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge 30 gennaio 1999, n. 15 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo equilibrato dell’emittenza televisiva e per evitare la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo), convertito, con modificazioni, nella legge 29 marzo 1999, n. 78, in riferimento agli articoli 3, 41, 42 e 21 della Costituzione;

         che, in punto di fatto, il giudice rimettente riferisce che la società Pubblikappa s.n.c., avendo acquistato il diritto all’uso del marchio “Kiss Kiss”, per licenza del titolare, gestisce una emittente radiofonica locale, che trasmette limitatamente al territorio della Campania e del Lazio con la denominazione “Radio Kiss Kiss Italia”, in virtù di concessione per l’esercizio della radiodiffusione sonora rilasciata in data 4 marzo 1994;

         che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con l’indicata delibera, ai sensi dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge n. 15 del 1999, ha diffidato la medesima società a cessare l’utilizzo della denominazione “Radio Kiss Kiss Italia”, essendo questa denominazione idonea a richiamare in parte quella dell’emittente nazionale “Radio Kiss Kiss Network”, anch’essa licenziataria del marchio “Kiss Kiss”;

         che la Pubblikappa s.n.c. ha impugnato la delibera dinanzi al TAR per il Lazio e ne ha chiesto la sospensione;

         che avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di sospensione, la ricorrente ha proposto appello, deducendo, fra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge n. 15 del 1999, per violazione degli artt. 3, 41, 42 e 77 Cost.;

         che il giudice a quo rileva che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con l’impugnato provvedimento, ha ritenuto di fare applicazione dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge n. 15 del 1999 (disposizione introdotta dalla legge di conversione), il quale stabilisce: «Le emittenti radiotelevisive locali, comprese quelle che diffondono programmi in contemporanea o programmi comuni non possono utilizzare, né diffondere, un marchio, una denominazione o una testata identificativi che richiamino in tutto o in parte quelli di una emittente nazionale. Per le emittenti locali che alla data del 30 novembre 1993 hanno presentato domanda e successivamente hanno ottenuto il rilascio della concessione con un marchio, una denominazione o una testata identificativi che richiamino in tutto o in parte quelli di una emittente nazionale, il divieto di cui al presente comma si applica dopo un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni vigila sul rispetto del predetto divieto e provvede ai sensi del comma 31 dell’articolo 1 della legge 31 luglio 1997, n. 249»;

         che tale norma – ad avviso del rimettente – non si presta ad essere interpretata (come, invece, sostenuto dalla ricorrente) nel senso che la sua sfera di applicazione è limitata al solo settore televisivo e non si estende a quello radiofonico, dato il chiaro riferimento testuale alle emittenti «radiotelevisive»;

         che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva che la norma denunciata, nella parte in cui impone alle emittenti radiotelevisive locali di non fare più uso di un marchio, di una denominazione o di una testata, di cui erano già titolari prima dell’entrata in vigore della norma stessa, a seguito dell’ingresso nel mercato di un’emittente nazionale avente marchio, denominazione o testata identificativi analoghi, appare in contrasto con i parametri costituzionali a) della ragionevolezza, in quanto deroga ai principi della disciplina generale in tema di marchi d’impresa, sacrificando le posizioni delle preesistenti emittenti locali, col costringerle a dismettere il proprio segno identificativo in base alla sola considerazione della loro specificità territoriale, indipendentemente dalla priorità temporale dell’uso; b) della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), in quanto la tutela del marchio risponde ad un’esigenza insopprimibile per lo svolgimento dell’attività economica, posto che il diritto all’uso esclusivo del segno identificativo contribuisce a determinare la capacità concorrenziale dell’impresa, traducendosi in una componente dell’avviamento commerciale, tanto più importante nel settore radiofonico, in cui solo attraverso il marchio gli ascoltatori sono in grado di identificare le numerose emittenti operanti sul mercato; c) della proprietà privata (art. 42 Cost.), poiché il marchio concorre alla consistenza patrimoniale dell’impresa; d) della libertà di manifestazione del pensiero e del pluralismo informativo (art. 21 Cost.), in quanto, incidendo sulla possibilità dell’emittente locale di utilizzare un segno distintivo «in ipotesi essenziale per conservare la posizione imprenditoriale dalla stessa ritagliata sul mercato dell’informazione», potrebbe sacrificare l’effettivo esercizio della libertà di informare e, indirettamente, il pieno dispiegarsi del principio pluralistico, che difficilmente si accorda con soluzioni rivolte a privilegiare il carattere nazionale, anziché locale, dell’emittente;

 

         che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità, sul rilievo che il giudice rimettente, avendo accolto in sede di gravame la domanda di sospensione del provvedimento impugnato, ha esaurito la propria potestà giurisdizionale in relazione alla fase del giudizio svoltasi davanti a sé;

         che, ancora in via preliminare, l’Avvocatura osserva che il Consiglio di Stato non ha formulato un adeguato giudizio sulla rilevanza della questione, essendosi limitato – come risulta dalla stessa ordinanza di rimessione – ad una «prima delibazione» della vertenza, omettendo di valutare: se sussiste l’asserito contrasto tra la norma denunciata e le direttive comunitarie in materia, dedotto dalla ricorrente quale motivo di impugnativa; se la ricorrente ha acquisito una priorità nell’uso del marchio in contestazione rispetto alla controinteressata emittente nazionale, sì da potersi concretamente giovare di un’eventuale pronuncia di incostituzionalità; se è possibile equiparare, riguardo alle garanzie costituzionali, la posizione di chi ha acquistato a titolo originario, col pre-uso, il diritto su un marchio non registrato e la posizione di chi, come la ricorrente, ha acquistato a titolo derivativo, mediante licenza del titolare, il diritto all’uso non esclusivo di un marchio registrato;

         che, comunque, la questione è infondata, perché, quanto alla censura ex art. 3 Cost., le situazioni poste a confronto non sono comparabili, atteso che la vigente legislazione in materia radiotelevisiva – al fine di evitare distorsioni della concorrenza, assicurare la suddivisione delle risorse pubblicitarie a tutela di ciascun settore e realizzare un bilanciamento volto a preservare il pluralismo dell’informazione – vuole impedire l’uso contemporaneo dello stesso marchio o di marchi similari da parte di operatori dell’uno e dell’altro àmbito, onde evitare ogni confusione fra trasmissioni che vengono a coesistere e sovrapporsi in una medesima zona, e così rispondere, all’esigenza pubblicistica di disciplinare la concorrenza, tutelando non solo le posizioni delle emittenti, ma anche e soprattutto quelle degli utenti e degli inserzionisti pubblicitari;

         che la scelta del legislatore non è manifestamente irrazionale, in quanto la maggiore dimensione dell’emittente nazionale ben può giustificare una tutela privilegiata del marchio della stessa e il pre-uso del marchio in àmbito locale non costituisce l’unico possibile criterio di risoluzione del conflitto, né impedisce di attribuire importanza prevalente ad altri elementi, quale l’àmbito di diffusione dell’emittenza;

         che la norma denunciata non contrasta con i principi costituzionali di libertà dell’iniziativa economica privata e di tutela della proprietà, in quanto, se è vero che, in base alla disciplina vigente, l’uso anteriore del marchio conferisce al pre-utente il diritto di utilizzare il segno distintivo nell’àmbito territoriale e nel settore merceologico in cui se ne è avvalso, è anche vero che dalla sentenza n. 42 del 1986 della Corte costituzionale si desume che deve ritenersi costituzionalmente legittima «una norma che risolva il conflitto in base ad un criterio diverso da quello della priorità, se esso – come nella specie – risulta conforme ai principi di logica e razionalità»;

         che è manifestamente infondato il profilo di incostituzionalità prospettato in riferimento all’art. 21 Cost., giacché l’obbligo di modificare il marchio che possa confondersi con quello di altra emittente non incide in alcun modo sul diritto di manifestare liberamente il pensiero mediante lo strumento di diffusione utilizzato;

         che si è ritualmente costituita la società Pubblikappa s.r.l. (già Pubblikappa s.n.c.), ricorrente nel giudizio a quo, la quale ha concluso per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale;

         che, secondo la deducente, la norma denunciata ha carattere provvedimentale, indirizzandosi a destinatari agevolmente identificabili, sicché pare evidente che il legislatore «è intervenuto allo scopo di promuovere determinati interessi, facenti capo a ben determinate emittenti nazionali, a scapito delle posizioni legittimamente acquisite ed esercitate da altre emittenti»;

         che la stessa norma è, inoltre, del tutto irragionevole riguardo al criterio adottato per risolvere la pretesa «interferenza» fra marchi o denominazioni, in quanto, anziché utilizzare il canone prior in tempore potior in iure, che ha valore di principio generale in materia (come già avrebbe ritenuto la Corte costituzionale nella sentenza n. 42 del 1986), stabilisce che in ogni caso sia la emittente locale a dover cessare l’uso del proprio marchio;

         che, sotto altro profilo, la norma in questione porta una deroga ingiustificata al principio dell’autonomia privata, demandando all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni di identificare i casi di marchi reciprocamente interferenti e di imporre all’emittente locale di dismettere il proprio, comprimendo l’autonomia negoziale delle imprese di radiodiffusione;

         che il marchio o la denominazione costituiscono il principale strumento di identificazione degli operatori commerciali e tale funzione identificatrice assume il massimo rilievo proprio nel settore radiofonico, perché è solo attraverso il marchio o la denominazione che gli ascoltatori sono in grado di distinguere le diverse emittenti; sicché la dismissione forzosa del marchio o della denominazione pone in pericolo la sopravvivenza economica dell’emittente radiofonica, violando la libertà di iniziativa economica, colpita nel presupposto stesso del suo esercizio (la identificazione dell’imprenditore), e la proprietà privata, lesa dalla perdita di cespiti che sono parte costitutiva del patrimonio aziendale (traducendosi, in particolare, nel valore del cosiddetto “avviamento commerciale”);

         che l’impossibilità di individuare una giustificazione ragionevole comporta, altresì, la impossibilità di ritenere che la misura legislativa sia frutto del bilanciamento con ragioni di utilità sociale, dal momento che anche queste restano imperscrutabili;

         che lo scopo di evitare confusioni identificative, senza menomare gli interessi delle emittenti e degli ascoltatori, poteva essere realizzato solo adottando il criterio della priorità temporale nell’uso del nomen, criterio accolto anche dalla Comunità europea per tutti i prodotti commerciali, pur meno “sensibili” di quelli notiziali (artt. 1 e 5 della direttiva 104/89/CEE);

         che, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte privata oppone all’eccezione di inammissibilità fondata sull’esaurimento del potere decisorio del giudice a quo il precedente di questa Corte (sentenza n. 4 del 2000) circa l’idoneità della sede cautelare a sollevare questioni di legittimità costituzionale;

 

         che, quanto al difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione, per aver omesso di verificare se, nel caso concreto, sussiste o meno la priorità nell’uso del nomen da parte dell’emittente locale, la società deducente osserva che, anche se la norma in questione «avesse un significato confermativo del criterio del pre-uso, la sua incriminazione non sarebbe inutile giacché il criterio di priorità sarebbe comunque dalla stessa tutelato unicamente nei confronti dell’emittente nazionale e non anche a favore delle emittenti locali»;

         che, quanto all’esigenza di evitare confusione fra i servizi offerti dalle diverse emittenti, la deducente osserva che tale esigenza può costituire soltanto l’occasio dell’intervento del legislatore, ma non può certo servire a giustificare la soluzione adottata, non essendo il criterio della maggiore dimensione né logico né razionale, giacché contrasta con lo stesso principio di uguaglianza;

         che non è conferente il richiamo al regime generale dei marchi d’impresa, ove si consideri che tale regime è dettato a tutela delle imprese concorrenti, cui è riconosciuta la disponibilità dell’azione a difesa dei rispettivi segni distintivi, mentre la norma denunciata configura un potere di intervento d’ufficio dell’Autorità garante a difesa del marchio dell’emittente più “grande”;

         che, in tale regime, vige la regola della prevalenza del pre-uso o uso di fatto del marchio, in base al principio prior in tempore potior in iure, principio che è stato ritenuto dalla Corte costituzionale conforme ai valori dell’iniziativa e della proprietà privata (sentenza n. 42 del 1986), con la conseguenza che, per portare ad esso una legittima deroga, occorrerebbe una adeguata giustificazione, che non può certo ravvisarsi nella esigenza di evitare la confondibilità dei prodotti o servizi, posto che tale obiettivo è già raggiunto con l’ordinario regime dei marchi e con il relativo criterio cronologico;

         che, comunque, attesi «i particolari valori che l’art. 21 Cost. vuole siano garantiti da qualsiasi disciplina in tema di mezzi radiotelevisivi, all’esigenza di conservare l’identità delle singole voci notiziali va riconosciuta una posizione di assoluta preminenza a causa della stretta correlazione tra la libertà di manifestazione del pensiero riconosciuta al singolo mezzo e il nomen attraverso il quale lo stesso viene riconosciuto dalla comunità degli ascoltatori».

         Considerato che il Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge 30 gennaio 1999, n. 15 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo equilibrato dell’emittenza televisiva e per evitare la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo), convertito, con modificazioni, nella legge 29 marzo 1999, n. 78, in quanto, disponendo che «le emittenti radiotelevisive locali, comprese quelle che diffondono programmi in contemporanea o programmi comuni non possono utilizzare, né diffondere, un marchio, una denominazione o una testata identificativi che richiamino in tutto o in parte quelli di una emittente nazionale», contrasterebbe:

 

a) con il canone della ragionevolezza (art. 3 Cost.), perché, derogando ai principi della disciplina generale in tema di marchi d’impresa, sacrifica le posizioni delle preesistenti emittenti locali, senza tener conto della priorità temporale dell’uso;

 

b) con l’art. 41 Cost., perché, sopprimendo il diritto all’uso esclusivo del marchio, menoma la capacità concorrenziale delle imprese emittenti locali, così comprimendo la libertà di iniziativa economica privata;

 

c) con l’art. 42 Cost., perché, inibendo l’uso del marchio, che concorre alla consistenza patrimoniale dell’impresa, senza tener conto della priorità temporale, comporta lesione della proprietà privata;

 

d) con l’art. 21 Cost., perché, incidendo sulla possibilità dell’emittente locale di utilizzare un segno distintivo «in ipotesi essenziale per conservare la posizione imprenditoriale dalla stessa ritagliata sul mercato dell’informazione», potrebbe sacrificare l’effettivo esercizio della libertà di informare e, indirettamente, il pieno dispiegarsi del principio pluralistico;

 

         che, preliminarmente, deve respingersi l’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato sul presupposto che, avendo emesso il provvedimento cautelare richiestogli con l’appello proposto avverso l’ordinanza di diniego del TAR, il Consiglio di Stato avrebbe esaurito la potestas judicandi, quale ad esso compete nella sede cautelare;

 

         che questa Corte ha più volte statuito che il giudice amministrativo ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare, sia quando non provveda sulla domanda cautelare, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice amministrativo fruisce: con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale è inammissibile – oltre che, ovviamente, se la misura è espressamente negata (ordinanza n. 82 del 2005) – quando essa sia concessa sulla base di ragioni, quanto al fumus boni juris, che prescindono dalla non manifesta infondatezza della questione stessa (sentenza n. 451 del 1993);

 

         che la potestas judicandi non può ritenersi esaurita quando la concessione della misura cautelare è fondata, quanto al fumus boni juris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 444 del 1990; n. 367 del 1991; numeri 24, 30 e 359 del 1995; n. 183 del 1997; n. 4 del 2000);

 

         che la sospensione ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), investe, conseguentemente, la fase cautelare del giudizio amministrativo, dipendendo dall’esito del giudizio di legittimità costituzionale la sorte dell’ordinanza cautelare emessa (come testualmente recita, nel caso di specie, l’ordinanza di sospensione dell’efficacia del provvedimento) «nelle more» del relativo giudizio;

 

         che la questione, peraltro, è manifestamente inammissibile sotto altro profilo;

 

         che il giudice rimettente, infatti, muove alla norma denunciata censure che, da un lato, sembrano investirla nella sua interezza (così, peraltro, il dispositivo dell’ordinanza di rimessione) e, dall’altro lato, sembrano rivolte alla parte di essa che pretenderebbe applicarsi “retroattivamente”;

 

         che la segnalata ambiguità non consente di cogliere se oggetto di censura sia, in sé, il criterio adottato dalla legge per risolvere il conflitto tra emittenti che utilizzano denominazioni tra loro confondibili, ovvero se si contesta il potere del legislatore di introdurre una disciplina atta ad evitare confusione tra denominazioni in precedenza utilizzate, ovvero ancora se, pur riconoscendosi tale potere al legislatore, il criterio di soluzione adottato debba essere sostituito da altro costituzionalmente necessitato, e ciò sia che il diritto all’uso della denominazione sia sorto a titolo originario che a titolo derivativo;

 

         che inoltre il giudice rimettente – il quale pure denuncia il mancato rispetto, da parte del legislatore, del principio della priorità temporale dell’uso del marchio – non precisa quando nella specie l’emittente nazionale abbia cominciato ad utilizzare la sua denominazione, ma si limita a indicare la data in cui l’emittente locale ha ottenuto il rilascio della concessione per l’esercizio della radiodiffusione sonora.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

         dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge 30 gennaio 1999, n. 15 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo equilibrato dell’emittenza televisiva e per evitare la costituzione o il mantenimento di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo), convertito, con modificazioni, nella legge 29 marzo 1999, n. 78, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 41, 42 e 21 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza in epigrafe.

         Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2006.

 

F.to:

 

Franco BILE, Presidente

 

Romano VACCARELLA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2006.