Sentenza n. 37 del 2004

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SENTENZA N.37

ANNO 2004

 

Commento alla decisione di

 

Matteo Barbero

 

Dalla Corte costituzionale un ''vademecum'' per l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione

 

(per gentile concessione della Rivista telematica federalismi.it)

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Riccardo                CHIEPPA                      Presidente

- Gustavo                 ZAGREBELSKY           Giudice

- Valerio                   ONIDA                                  "

- Carlo                      MEZZANOTTE                    "

- Fernanda                CONTRI                                "

- Guido                    NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto         CAPOTOSTI                         "

- Annibale                MARINI                                "

- Franco                    BILE                                      "

- Giovanni Maria      FLICK                                   "

- Francesco               AMIRANTE                          "

- Ugo                        DE SIERVO                          "

- Romano                 VACCARELLA                   "

- Alfio                      FINOCCHIARO                   "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 10, comma 1, lettere a, b e c, 27, commi 8, 9, 10 e 11, e 25, commi 1 e 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002), promossi con ricorsi delle Regioni Basilicata ed Emilia-Romagna, notificati il 26 e il 27 febbraio 2002, depositati in cancelleria il 6 e l’8 marzo successivi ed iscritti ai numeri 20 e 23 del registro ricorsi 2002.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 17 giugno 2003 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Regione Basilicata e Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, e l’avvocato dello Stato Paolo Cosentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ricorso (r.ric. n. 20 del 2002), notificato il 26 febbraio e depositato il 6 marzo 2002, la Regione Basilicata ha impugnato, tra l’altro, l’art. 10, comma 1, lettere a, b, e c e l’art. 27, commi 8, 9, 10 e 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002), lamentando la violazione degli artt. 3, 5, 114, 117 e 119 della Costituzione.

L’art. 10 (Modificazioni all’imposta sulle insegne di esercizio), comma 1, lettere a, b e c, in deroga all’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) – concernente l’efficacia temporale delle norme tributarie, soggetta generalmente a divieto di retroattività –, stabilisce che le tariffe dell’imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni sono deliberate entro il 31 marzo di ogni anno e si applicano a decorrere dal 1° gennaio del medesimo anno (lettera a); estende ai Comuni aventi fino a 30.000 abitanti la facoltà (originariamente prevista per i soli Comuni più popolosi) di suddividere il territorio in due "categorie", applicando a quella "speciale" una maggiorazione della tariffa normale fino al 150% (lett. b, che modifica l’art. 4, comma 1del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, concernente "Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale"); introduce una ulteriore esenzione dall’imposta, rispetto a quelle già contemplate dall’art. 17 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, "per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati", consentendo ai Comuni di estendere con regolamento tale esenzione, in ordine alle insegne di superficie superiore a questo ultimo limite (lettera c, che aggiunge il comma 1-bis all’art. 17 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507).

Ad avviso della ricorrente, siffatte previsioni legislative si connotano tutte per una "evidente analiticità", e costituiscono a tutti gli effetti norme di dettaglio.

Tale profilo ne determinerebbe la illegittimità costituzionale, alla luce degli articoli 3, 5 114 e 117 della Costituzione, poiché, a seguito dell’entrata in vigore della revisione costituzionale del Titolo V, Parte II, della Carta, "la normazione statale di dettaglio nelle materie di competenza regionale non è più consentita".

Premette sul punto la ricorrente che la materia concernente il "sistema tributario degli enti locali", cui essa riconduce la disposizione impugnata, è oggetto di potestà legislativa residuale ed esclusiva della Regione.

Lo Stato, ai sensi del comma terzo dell’art. 117 della Costituzione, in materia di tributi locali dovrebbe perciò limitarsi a determinare i "principi fondamentali" per assicurare il "coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", senza sconfinare nella produzione di norme dettagliate.

Infatti, "nel rispetto di quella paritaria nozione delle componenti della Repubblica che è stata introdotta dall’art. 114 della Costituzione (che impone anche una lettura aggiornata dell’art. 5)", non potrebbe più ammettersi, come invece ritenuto in precedenza, che la legge statale penetri nella sfera di potestà legislativa regionale, neppure tramite disposizioni espressamente cedevoli a fronte della successiva legislazione della Regione.

Il rovesciamento del criterio di attribuzione delle competenze legislative, tramite l’enumerazione delle materie oggetto di potestà legislativa statale, conduce a ritenere, secondo la ricorrente, che oramai lo Stato possa legiferare, senza alcun margine di elasticità, nei soli ambiti espressamente riservatigli.

Tale conclusione rifletterebbe la pari "dignità" acquisita dalla legge regionale nell’ordinamento giuridico: la Regione, si aggiunge, non si limita più a "emanare" delle "norme legislative" che incontrano l’"inevitabile limite" dei principi fondamentali traibili dalla normativa statale, ma è divenuta titolare della funzione legislativa, al pari dello Stato, sicché l’una e l’altro possono legiferare nei soli spazi assegnati dalla Costituzione.

Posto che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione riserva allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali nelle materie oggetto di competenza concorrente, sia che si verta in tale ambito, sia che venga in conto materia riservata alla potestà legislativa residuale della Regione, si dovrebbe in ogni caso concludere per l’illegittimità costituzionale della normativa statale di dettaglio.

Tanto più che essa, aggiunge sul punto la ricorrente, non troverebbe più alcuna ragionevole giustificazione, a fronte del potere sostitutivo attribuito allo Stato dall’art. 120 della Costituzione, cosicché sarebbe leso lo stesso articolo 3 della Costituzione "nel suo rapporto con gli artt. 5, 114 e 117" della Carta (né si sarebbe, in ogni caso, in presenza dei presupposti che giustificano, secondo l’art. 120, comma secondo, della Costituzione, l’attivazione del potere sostitutivo, in primis l’inerzia regionale).

Inoltre, la disposizione impugnata è priva della clausola di cedevolezza dinnanzi a sopravvenuta legge regionale, ciò che, si conclude, ne avrebbe determinato l’illegittimità costituzionale anche nella vigenza dell’originario articolo 117 della Costituzione.

Censura identica alla precedente viene svolta dalla Regione Basilicata, sempre in relazione all’art. 10, comma 1, lettere a, b e c, avuto riguardo alla competenza concorrente della Regione nella materia concernente il "governo del territorio", cui la disciplina delle insegne di esercizio sarebbe "intimamente connessa": il carattere dettagliato della disposizione impugnata costituirebbe motivo di incostituzionalità della stessa, per violazione degli articoli 3, 5, 114, 117 della Costituzione.

L’art. 10, comma 1, lettere a, b e c sarebbe, secondo la Regione Basilicata, altresì lesivo dell’art. 119 della Costituzione, poiché trascurerebbe, nella regolamentazione di imposta il cui gettito è destinato all’ente locale, "l’autonomia comunale".

Tale censura avrebbe particolare evidenza con riguardo all’esenzione dall’imposta recata dalla lettera c, che sarebbe stata introdotta "senza alcuna valutazione in termini di apporto al finanziamento degli enti locali", per di più "scavalcando completamente la legge regionale".

Infine, appare alla Regione Basilicata "del tutto irrazionale" che la lettera c dell’art. 10 introduca un rigido criterio di esenzione dall’imposta, legato alle dimensioni dell’insegna, così precludendo all’ente locale di adottarne di ulteriori o di diversamente modularlo, nel quadro di una politica di incentivazione o disincentivazione della pubblicità degli esercizi commerciali.

Il comma 8 dell’art. 27 (Disposizioni finanziarie per gli enti locali) stabilisce che il comma 16 dell’art. 53 (Regole di bilancio per le regioni, le province e i comuni) della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), è così sostituito: "Il termine per deliberare le aliquote e le tariffe dei tributi locali, compresa l’aliquota dell’addizionale comunale all’IRPEF di cui all’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 28 settembre 1998, n. 360, recante "istituzione di una addizionale comunale all’IRPEF e successive modificazioni", e le tariffe dei servizi pubblici locali, nonché per approvare i regolamenti relativi alle entrate degli enti locali, è stabilito entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. I regolamenti sulle entrate, anche se approvati successivamente all’inizio dell’esercizio purché entro il termine di cui sopra, hanno effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento".

Nel testo originario, il comma 16 dell’art. 53 della legge n. 388 del 2000 stabiliva che "Il termine per deliberare le tariffe, le aliquote d’imposta per i tributi locali e per i servizi locali, compresa l’aliquota di compartecipazione dell’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, prevista dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. 28 settembre 1998, n. 360, e per l’approvazione dei regolamenti relativi ai tributi locali, è stabilito entro la data di approvazione del bilancio di previsione. I regolamenti, anche se adottati successivamente, hanno comunque effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento del bilancio di previsione".

Il comma 9 dell’art. 27, dispone che "In deroga alle disposizioni dell'articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212" – recante "Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente" – "i termini per la liquidazione e l'accertamento dell'imposta comunale sugli immobili, scadenti al 31 dicembre 2001, sono prorogati al 31 dicembre 2002, limitatamente alle annualità d'imposta 1998 e successive. Il termine per l'attività di liquidazione a seguito di attribuzione di rendita da parte degli uffici del territorio competenti di cui all'articolo 11, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, è prorogato al 31 dicembre 2002 per le annualità d'imposta 1997 e successive".

Il comma 10 dell’art. 27 stabilisce che "A decorrere dal 1° gennaio 2002 le basi di calcolo dei sovra-canoni previsti dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 1980, n. 925" – recante "Nuove norme relative ai sovracanoni in tema di concessioni di derivazioni d’acqua per produzioni di forza motrice" – "sono fissate rispettivamente in 13 euro e 3,50 euro, fermo restando per gli anni a seguire l'aggiornamento biennale previsto dall'articolo 3 della medesima legge n. 925 del 1980".

Infine, il comma 11 dell’art. 27 dispone che "Nel caso in cui l'imposta relativa a fabbricati del gruppo catastale D, in precedenza versata ad un unico Comune in base a valori di bilancio unitariamente considerati, sia successivamente da versare a più Comuni a seguito dell'attribuzione di separate rendite catastali per le parti insistenti su territori di Comuni diversi, i Comuni interessati sono tenuti a regolare mediante accordo i rapporti finanziari relativi, delegando il Ministero dell'interno ad effettuare le necessarie variazioni dell'importo a ciascuno spettante a titolo di trasferimenti erariali, senza oneri per lo Stato".

Ad avviso della Regione ricorrente, tali previsioni sono illegittime per più ordini di ragioni.

Anzitutto, le disposizioni impugnate, in una materia come la finanza locale, assegnata alla competenza esclusiva delle Regioni, fatti salvi i principi di coordinamento che la legge dello Stato può stabilire, conterrebbero norme di dettaglio, la cui introduzione è ormai preclusa alla legge dello Stato dagli artt. 117 e 119 della Costituzione. Rispetto ad altre disposizioni censurate della stessa legge finanziaria, quelle ora in esame sarebbero anzi esasperatamente di dettaglio, giungendo a regolare i termini per l’adozione di regolamenti comunali (il comma 8), i termini di accertamento e liquidazione dell’ICI (il comma 9), le basi di calcolo, sino al centesimo di euro, dei sovracanoni per le concessioni di derivazione d’acqua (il comma 10), i rapporti fra Comuni in ordine alla percezione congiunta dell’ICI (il comma 11).

In particolare, la legge impugnata, con la disposizione di cui al comma 8, limita e condiziona la potestà regolamentare dei Comuni, senza considerare che l’art. 117, sesto comma, della Costituzione attribuisce ai Comuni "potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite", potestà che può essere indirizzata e delimitata soltanto dalla legge regionale nell’esercizio della competenza assegnata dall’art. 117 in materia di organizzazione e funzionamento degli enti locali.

In tale ambito, poi, una disciplina uniforme, sul piano nazionale, per tutti i Comuni sarebbe del tutto irragionevole ed in contrasto con gli artt. 3 e 5 della Costituzione, oltre che con le disposizioni del Titolo V, in quanto i principi fondamentali in materia sono quelli della sussidiarietà, della differenziazione e dell’adeguatezza, di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione.

2. – Nel suo atto di costituzione in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per l’infondatezza del ricorso, osserva, in particolare, in ordine all’art. 10, che esso è espressione della potestà legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, disciplinata dal terzo comma dell’art. 117 della Costituzione.

In quest’ottica, le norme impugnate determinerebbero i principi della materia, come si desumerebbe dall’intero disposto dell’art. 10, che al comma 5-bis (recte: alla lettera d, introduttiva del comma 5-bis dell’art. 24 del d.lgs. n. 507 del 1993) disciplina "la repressione dell’abusivismo nell’installazione di impianti pubblicitari", e prevede, al comma terzo,"il rimborso per le minori entrate derivanti dalle esenzioni previste" dalla lettera c.

Quanto alle disposizioni dell’art. 27 che vengono impugnate, osserva la difesa erariale che la materia da esse disciplinata atterrebbe alla perequazione delle risorse finanziarie, rientrante nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato, come si evincerebbe dall’integrale lettura dell’art. 27 medesimo.

3. – In prossimità dell’udienza pubblica la Regione Basilicata ha depositato memoria illustrativa, insistendo per l’accoglimento del ricorso.

In via generale, la ricorrente ribadisce che, a seguito della revisione del Titolo V della Costituzione, il ribaltamento del tradizionale criterio di riparto della potestà legislativa esclude che possa competere allo Stato la introduzione di norme di dettaglio in materie affidate alla potestà legislativa concorrente.

In tal senso, dovrebbero trarsi argomenti dalla sentenza n. 282 del 2002 di questa Corte, ove è affermata la necessità di muovere non già dalla sussistenza di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dall’indagine sulla esistenza di riserve di competenza statale.

Viene altresì ricordata la sentenza n. 96 del 2003, ove, rigettandosi una censura della Regione in base al rilievo per cui la norma impugnata non era di dettaglio, sarebbe stato implicitamente affermato quanto sostenuto dalla odierna ricorrente.

Né, al fine di distinguere norme di principio e di dettaglio, potrebbero recuperarsi i criteri qualificatori adottati dalla Corte anteriormente alla revisione costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione.

Infatti, come emergerebbe ad esempio dalla sentenza n. 171 del 1999, il carattere di principio delle disposizioni allora censurate sarebbe conseguente al collegamento ricorrente tra tali norme e le esigenze di "interesse nazionale", nozione, quest’ultima, non più richiamata dalla Costituzione, e destinata in ogni caso (ove la si potesse rinvenire implicitamente) ad operare diversamente che in passato.

Nello specifico, riguardo all’art. 10, la ricorrente sostiene che le disposizioni oggi impugnate contengono solo prescrizioni di dettaglio, tenuto conto che i principi vanno colti ad un livello di maggiore astrattezza rispetto alla regola positivamente stabilita (sentenza n. 65 del 2001).

A fronte di ciò, la difesa erariale si limiterebbe ad asserzioni apodittiche ed indimostrabili, circa la pretesa natura di "principi" delle norme censurate.

Inoltre, lo Stato nulla avrebbe dedotto per contrastare il motivo di ricorso concernente la lesione della sfera di competenza regionale in materia di governo del territorio, nell’estesa accezione che essa avrebbe assunto nella giurisprudenza costituzionale (viene richiamata, a tale proposito, la sentenza n. 382 del 1999).

In ordine all’art. 27, poi, osserva in particolare che il concetto di "perequazione", scudo dietro il quale l’Avvocatura erariale vorrebbe riparare le disposizioni censurate, può alludere solo al compito, gravante sullo Stato, di compensare le differenze che, in ragione della maggiore o minore ampiezza della base fiscale e del reddito prodotto, gravano sulle singole zone del Paese, e non anche, come preteso, alla regolamentazione in dettaglio delle singole entrate comunali. Né le norme impugnate sarebbero qualificabili come principi di "coordinamento della finanza pubblica", non possedendo, dei principi, la generalità, la struttura e la funzione, ed essendo, al contrario, esasperatamente di dettaglio.

Sarebbe poi irragionevole ed in contrasto con gli artt. 3 e 5 della Costituzione, oltre che con le disposizioni del Titolo V, la scelta di dettare una disciplina uniforme, sul piano nazionale, per tutti i Comuni, in spregio dei principi fondamentali in materia, che sono quelli della sussidiarietà, della differenziazione e dell’adeguatezza, di cui all’art. 118, primo comma, della Costituzione.

4. – Con ricorso notificato il 27 febbraio e depositato l’8 marzo 2002 (r.ric. n. 23 del 2002) la Regione Emilia-Romagna ha impugnato, tra l’altro, l’art. 25 (Finanza decentrata), commi 1 e 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in riferimento all’art. 119 della Costituzione.

La prima delle due disposizioni sostituisce il comma 7 dell’art. 1 del d.lgs. 28 settembre 1998, n. 360 (Istituzione di una addizionale comunale all'IRPEF, a norma dell'articolo 48, comma 10, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, come modificato dall'articolo 1, comma 10, della legge 16 giugno 1998, n. 191), che disciplina il meccanismo di acconto e di conguaglio nella ripartizione annuale ai Comuni e alle Province, da parte del Ministero dell’interno, delle somme versate a titolo di addizionale all’IRPEF. Mentre tale calcolo era effettuato, secondo la disciplina originaria, "sulla base dei dati forniti dal Ministero delle finanze concernenti le risultanze delle dichiarazioni dei redditi e dei sostituti d’imposta presentate", per quel che riguarda gli acconti, "per l’anno precedente a quello cui si riferisce l’addizionale comunale", e, per quel che riguarda i conguagli – effettuati entro l’anno successivo a quello in cui è effettuato il versamento, mediante compensazione con le somme spettanti a titolo di acconto per l’anno successivo –, "per l’anno cui si riferisce l’addizionale comunale", con le modifiche recate dalla norma impugnata, invece, il calcolo dell’acconto è effettuato "sulla base dei dati statistici più recenti forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze entro il 30 giugno di ciascun anno relativi ai redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni." Entro l’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento, poi, il Ministero dell’interno "provvede all’attribuzione definitiva degli importi dovuti sulla base dei dati statistici relativi all’anno precedente, forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze entro il 30 giugno, ed effettua gli eventuali conguagli anche sulle somme dovute per l’esercizio in corso".

Ad avviso della ricorrente, il cambiamento intaccherebbe le certezze degli enti locali per ciò che attiene al computo sia degli acconti che dei conguagli. Nella versione originale della disciplina, infatti, gli acconti andavano calcolati annualmente sulla base dei dati IRPEF dell’anno precedente, ed i conguagli calcolati, e corrisposti l’anno successivo, insieme al nuovo acconto, sulla base delle risultanze dei dati IRPEF – relative dunque all’anno cui si riferisce l’addizionale comunale –; mentre con la nuova gli acconti vanno calcolati in base ai dati statistici più recenti, relativi ai redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni, forniti dal Ministero dell’economia, ed i conguagli, ancora, sulla base dei dati statistici del Ministero dell’economia.

I nuovi meccanismi sarebbero quindi illegittimi, per violazione del principio di certezza delle risorse finanziarie sotteso all’art. 119, secondo comma, della Costituzione, in quanto farebbero perdere la certezza della relazione fra trasferimenti e concrete risultanze fiscali, anche perché il riferimento, senza alcuna ulteriore precisazione, ai dati statistici ministeriali "più recenti" consentirebbe margini di discrezionalità nell’aggiornamento e nella strutturazione dei dati, renderebbe impossibili le verifiche, e rovescerebbe sugli enti locali le conseguenze negative delle eventuali inefficienze delle elaborazioni statistiche ministeriali. Essendo poi tali dati statistici espressamente riferiti "ai redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni", acconti e conguagli perderebbero ogni relazione con i redditi di lavoro dipendente e quelli ad essi assimilati, i quali, ai fini dell’imputazione dell’addizionale, vanno attribuiti, a norma del comma 6 dello stesso art. 1 del d.lgs. n. 360 del 1998, al Comune in cui il sostituto d’imposta ha il domicilio fiscale alla data di effettuazione delle operazioni di conguaglio relative a detti redditi.

L’operatività di tali meccanismi, peraltro, è rinviata dal comma 5 dello stesso art. 27 della legge n. 448 del 2001, comma anch’esso impugnato dalla Regione Emilia-Romagna, al 30 novembre 2002, prorogandosi così il termine, già prorogato dalla legge finanziaria 2001 (art. 67 – Compartecipazione al reddito IRPEF per i comuni per l’anno 2002 , comma 1, della legge n. 388 del 2000), per l’emanazione dei decreti ministeriali cui è rimessa la determinazione dell’ammontare dell’addizionale. Pertanto, secondo quanto stabilito ancora dallo stesso comma 5 dell’art. 25 della legge n. 448 del 2001, in forza della sostituzione, da esso disposta, dei commi 3, 4 e 5 dell’art. 67 della detta legge finanziaria del 2001, si applica ancora, e si applicherà anche nel 2003, un regime transitorio, di compartecipazione dei Comuni al gettito dell’IRPEF, da quest’ultima legge istituito.

Alla disciplina dettata in proposito dall’art. 67 della finanziaria del 2001, tuttavia, con la sostituzione dei commi 3, 4 e 5, vengono introdotte due importanti varianti. In primo luogo, viene stabilito, aggiungendosi una proposizione al comma 3, che per il 2002 il riparto si baserà sui "dati statistici più recenti forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze"; in secondo luogo, fermo il principio, già fissato dal comma 4, per cui i trasferimenti erariali sono ridotti per ciascun Comune in misura pari al gettito spettante per la detta compartecipazione al gettito IRPEF, si stabilisce, aggiungendosi una proposizione a tale comma, che "nel caso in cui il livello dei trasferimenti spettanti ai singoli enti risulti insufficiente a consentire il recupero integrale della compartecipazione, la compartecipazione stessa è corrisposta al singolo ente nei limiti dei trasferimenti spettanti per l'anno".

Entrambe le innovazioni introdotte, secondo la ricorrente, sarebbero costituzionalmente illegittime. La prima in quanto rinnoverebbe, per la disciplina transitoria, la stessa situazione di incertezza e di discrezionalità ministeriale denunciata a proposito dei calcoli basati sui "dati statistici più recenti" nella disciplina a regime; la seconda, in quanto, facendo prevalere la logica dei trasferimenti su quella della compartecipazione al gettito IRPEF, violerebbe lo spirito e la lettera dell’art. 119, secondo comma, della Costituzione, che basa l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali su "tributi ed entrate proprie", nonché sulla "compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio".

Anche il rinvio al 2004 della cessazione del regime transitorio sarebbe lesivo del disposto costituzionale, perché l’entrata in vigore della riforma del Titolo V non sembrerebbe aver inciso affatto sui comportamenti del legislatore ordinario, il quale affronterebbe il tema cruciale dell’autonomia finanziaria come se l’art. 119 non avesse subito alcun mutamento, ed anzi mostrerebbe di voler retrocedere rispetto alle timide innovazioni introdotte dal legislatore precedente alla riforma stessa.

5. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che il ricorso sia rigettato in quanto infondato.

In particolare, in ordine alle questioni aventi ad oggetto l’art. 25, commi 1 e 5, la difesa erariale contesta che le modifiche al sistema di calcolo nel meccanismo di acconto e di conguaglio dell’addizionale comunale IRPEF versata annualmente ai Comuni e alle Province, ed il rinvio dell’operatività di tale meccanismo al 30 novembre 2002, con la previsione dell’applicazione medio tempore di un regime transitorio di compartecipazione al gettito IRPEF si pongano in contrasto con l’art. 119 della Costituzione, che basa l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali su "tributi ed entrate proprie nonché sulla compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio". Ciò in quanto l’art. 25, comma 1, della legge n. 448 del 2001 fa espresso riferimento ai redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni come parametro di base. L’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, osserva poi la difesa erariale, deve essere "in armonia con la Costituzione" e con i "principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", così come previsto dagli artt. 119 e 117 della Costituzione.

6. – Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza la Regione Emilia-Romagna ha osservato che le argomentazioni dell’Avvocatura erariale svolte a difesa delle disposizioni dell’art. 25 censurate non sarebbero pertinenti ai rilievi mossi, non offrendo risposte che entrino nel merito.

Considerato in diritto

 

1. – La Regione Basilicata (r.ric. n. 20 del 2002) ha impugnato, insieme ad altre disposizioni della stessa legge, l’art. 10, comma 1, lettere a, b e c, della legge finanziaria 2002 (legge 28 dicembre 2001, n. 448) in tema di imposta sulla pubblicità, nonché l’art. 27, commi 8, 9, 10 e 11, della medesima legge, in tema di diversi tributi locali. A sua volta la Regione Emilia-Romagna (r.ric. n. 23 del 2002) ha impugnato, tra gli altri, l’articolo 25, commi 1 e 5, della medesima legge, che reca alcune modifiche al d.lgs. n. 360 del 1998 e alla legge n. 388 del 2000 in tema di addizionale comunale e provinciale all’IRPEF e di compartecipazione dei Comuni al gettito dell’IRPEF.

2. – La presente pronunzia riguarda le sole questioni ora indicate, restando riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni sollevate nei medesimi ricorsi delle Regioni Basilicata ed Emilia-Romagna.

3. – Pur nella varietà dei loro contenuti, tutte le disposizioni censurate attengono al regime tributario e delle entrate degli enti locali: è dunque opportuno riunire i giudizi, con riguardo alle questioni ad essi relative, perché siano decisi con unica pronunzia.

4. – La Regione Basilicata solleva, in primo luogo, una censura di ordine generale, che deve essere esaminata in via preliminare.

Le disposizioni impugnate dell’art. 10 della legge finanziaria per il 2002, secondo la ricorrente, conterrebbero norme incidenti nella materia del "sistema tributario degli enti locali", che spetterebbe alla potestà "residuale" delle Regioni (art. 117, quarto comma della Costituzione), salva la sola competenza dello Stato a determinare i principi fondamentali in materia di "coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario" (art. 117, terzo comma). Si tratterebbe invece, nella specie, di norme di dettaglio, che nulla avrebbero a che vedere con il coordinamento.

Anche a proposito dell’art. 27 la Regione ricorrente afferma che la materia della finanza locale sarebbe assegnata alla competenza esclusiva delle Regioni, salvi i principi di coordinamento che la legge dello Stato può stabilire: le disposizioni impugnate sarebbero viceversa "esasperatamente di dettaglio".

5. – Questa impostazione della ricorrente non può essere condivisa.

Il sistema finanziario e tributario degli enti locali è oggetto delle disposizioni dell’art. 119 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

Esso considera, in linea di principio, sullo stesso piano Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, stabilendo che tutti tali enti "hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa" (primo comma); hanno "risorse autonome"e "stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri", sia pure "in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", ed inoltre "dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio" (secondo comma). Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, consentono – vale a dire devono consentire – agli enti di "finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite" (quarto comma), salva la possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma o "per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio" delle funzioni degli enti autonomi (quinto comma).

L’attuazione di questo disegno costituzionale richiede però come necessaria premessa l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali.

E’ evidente come ciò richieda altresì la definizione di una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in non piccola parte "derivata", cioè dipendente dal bilancio statale, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità riconosciute a Regioni ed enti locali di effettuare autonome scelte, ad un nuovo sistema. Così che oggi non si danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo "propri" delle Regioni o degli enti locali (cfr. sentenze n. 296 del 2003 e 297 del 2003), nel senso che essi siano frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possano essere disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto solo di principi di coordinamento, oggi assenti perché "incorporati", per così dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato. Anche i tributi di cui già oggi la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce già spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina – e che perciò la stessa legislazione definiva talora come "tributi propri" delle Regioni, nel senso invalso nella applicazione del previgente art. 119 della Costituzione – sono istituiti dalla legge statale e in essa trovano la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all’autonomia degli enti territoriali.

Per quanto poi riguarda i tributi locali, si deve aggiungere che, stante la riserva di legge che copre tutto l’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 della Costituzione), e che comporta la necessità di disciplinare a livello legislativo quanto meno gli aspetti fondamentali dell’imposizione, e data l’assenza di poteri legislativi in capo agli enti sub-regionali, dovrà altresì essere definito, da un lato, l’ambito (sempre necessariamente delimitato in forza appunto della riserva di legge) in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti medesimi; dall’altro lato, il rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario dei tributi locali: potendosi in astratto concepire situazioni di disciplina normativa sia a tre livelli (legislativa statale, legislativa regionale, e regolamentare locale), sia a due soli livelli (statale e locale, ovvero regionale e locale).

Da ciò consegue che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, poiché non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale, si deve tuttora ritenere preclusa alle Regioni (se non nei limiti ad esse già espressamente riconosciuti dalla legge statale) la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali (cfr. ancora sentenze n. 296 del 2003 e 297 del 2003); e per converso si deve ritenere tuttora spettante al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti. In proposito vale ovviamente il limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’art. 119 della Costituzione, e così di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119.

6. – Dalle premesse enunciate discende pianamente l’impossibilità sia di accedere alla tesi della Regione Basilicata, secondo cui la materia del "sistema tributario degli enti locali" spetterebbe già oggi alla potestà legislativa "residuale" delle Regioni; sia di accogliere le censure della stessa ricorrente basate sul carattere dettagliato e non di principio delle disposizioni impugnate in materia di tributi locali o devoluti agli enti locali (che si tratti dell’imposta sulla pubblicità o dell’ICI o dell’addizionale all’IRPEF). Le norme impugnate, infatti, recano modifiche particolari ad aspetti di tali tributi che già erano oggetto di specifica disciplina in preesistenti leggi statali, e sui quali quindi il legislatore statale, come si è detto, conserva potere di intervento, fino alla definizione delle premesse del nuovo sistema impositivo delle Regioni e degli enti locali.

7. – Si possono ora esaminare le specifiche censure che investono le impugnate disposizioni della legge finanziaria per il 2002.

Non sono fondate, in primo luogo, le questioni sollevate sull’art. 10, comma 1, lettere a, b e c, che recano alcune modifiche al decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale – articoli 1-57).

La lettera a sostituisce il comma 5 dell’art. 3 di tale decreto legislativo, concernente i termini per deliberare le tariffe dell’imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, stabilendo che "in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 [recante "Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente": l’art. 3 stabilisce il principio di irretroattività delle disposizioni tributarie, salvo il caso di quelle di interpretazione autentica], le tariffe dell’imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni sono deliberate entro il 31 marzo di ogni anno e si applicano a decorrere dal 1° gennaio del medesimo anno. In caso di mancata adozione della deliberazione, si intendono prorogate di anno in anno".

La novità legislativa concerne dunque la modifica (non la statuizione ex novo) del termine per deliberare le variazioni delle tariffe. A parte quanto si è detto sulla perdurante competenza statale in materia, si può osservare che lo spostamento del termine al 31 marzo di ogni anno, con la previsione di una efficacia retroattiva delle deliberazioni a decorrere dal 1° gennaio dello stesso anno, comporta altresì la deroga – espressamente disposta dalla norma impugnata – al principio generale sancito dalla legge statale sul c.d. statuto del contribuente, che esclude di regola l’efficacia retroattiva delle modifiche introdotte nella disciplina dei tributi.

8. – La lettera b, sopprimendo le parole "delle prime tre classi" nell’art. 4, comma 1 del decreto legislativo n. 507 del 1993, estende a tutti i Comuni, anziché a quelli delle sole prime tre classi (con popolazione di oltre 30.000 abitanti), la facoltà di suddividere, agli effetti dell’applicazione dell’imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, le località del proprio territorio in due categorie in relazione alla loro importanza, applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino al centocinquanta per cento della tariffa normale.

Si tratta di una norma meramente facoltizzante, che allarga, e non restringe, l’autonomia dei Comuni.

9. – La lettera c aggiunge un comma 1-bis all’art. 17, concernente le esenzioni dall’imposta sulla pubblicità, in cui si stabilisce che "l’imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati. I Comuni, con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 [riguardante la potestà regolamentare generale delle Province e dei Comuni in materia di entrate, anche tributarie], possono prevedere l’esenzione dal pagamento dell’imposta per le insegne di esercizio anche di superficie complessiva superiore al limite di cui al periodo precedente".

In proposito la Regione Basilicata, alla censura di carattere generale già esaminata, aggiunge che la disposizione riguarderebbe anche la materia connessa del "governo del territorio", di competenza concorrente delle Regioni, sarebbe irragionevole e lederebbe l’autonomia comunale, disponendo senz’altro una esenzione, cui i Comuni possono derogare solo nella direzione obbligata di una esenzione più ampia.

In realtà, la norma in questione non riguarda il "governo del territorio", ma la disciplina dell’imposta sulla pubblicità. Essa non rappresenta una novità assoluta nell’ordinamento, ma va ad integrare la disciplina di altre esenzioni affini, già previste per la pubblicità all’interno o all’ingresso di locali adibiti alla vendita di beni o alla prestazione di servizi (cfr. art. 17, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 446 del 1997): esenzioni la cui disciplina, per quanto si è detto, fa ancora capo alla legislazione statale.

10. – L’art. 27 (Disposizioni finanziarie per gli enti locali) della legge n. 448 del 2001 è impugnato nei suoi commi 8, 9, 10 e 11, che dispongono modifiche o integrazioni particolari ad alcuni aspetti della disciplina di diversi tributi locali, già contenuta nelle leggi statali.

Il comma 8 reca una disposizione sostitutiva dell’art. 53, comma 16, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in tema di regole di bilancio per le Regioni, le Province e i Comuni, statuendo che il termine per deliberare le aliquote e le tariffe dei tributi locali, compresa l’aliquota dell’addizionale comunale all’IRPEF, e le tariffe dei servizi pubblici locali, nonché per approvare i regolamenti relativi alle entrate degli enti locali, è stabilito entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione, anziché entro la data di effettiva approvazione del bilancio; e che i regolamenti sulle entrate, anche se approvati successivamente all’inizio dell’esercizio, purché entro il termine di cui sopra, hanno effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento.

Le censure della ricorrente (a parte quella di ordine generale già esaminata) si sostanziano nel rilievo secondo cui sarebbe limitata e condizionata la potestà regolamentare dei Comuni, e sarebbe del tutto irragionevole la disciplina uniforme dettata sul piano nazionale per tutti i Comuni, in relazione, in particolare, ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, della Costituzione.

La questione non è fondata, per ragioni analoghe a quelle esposte a proposito dell’art. 10, comma 1, lettera a, anch’esso relativo a modifica di termini per deliberare le tariffe di tributi locali.

Quanto all’ultimo periodo del comma, relativo alla decorrenza dell’efficacia dei regolamenti locali, esso ha lo scopo di consentire la deroga, che sarebbe preclusa alla fonte regolamentare, al principio di irretroattività sancito dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, e ribadito, quanto alle norme tributarie, dall’art. 3, comma 1, della legge n. 212 sullo statuto dei diritti del contribuente.

11. – Per le stesse ragioni, è infondata la questione relativa al comma 9, che differisce – in espressa deroga, ancora una volta, al principio, espresso nell’art. 3, comma 3, dello statuto dei diritti del contribuente, secondo cui non possono essere prorogati i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta – i termini, fissati dalla legge statale (cfr. art. 11, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504), per la liquidazione e l’accertamento dell’ICI limitatamente alle annualità d’imposta successive al 1998 (primo periodo del comma 9) o al 1997 (secondo periodo).

12. – Il comma 10 prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2002 le basi di calcolo dei sovracanoni dovuti ai Comuni, o ai consorzi obbligatori tra essi costituiti, compresi nel relativo bacino imbrifero montano, dai concessionari delle derivazioni d’acqua per produzioni di forza motrice con potenza nominale media superiore a 220 chilowatt e dei sovracanoni dovuti dagli stessi concessionari, ai sensi dell’art. 53 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, a favore dei Comuni rivieraschi e delle rispettive Province "sono fissate rispettivamente in 13 euro e 3,50 euro, fermo restando per gli anni a seguire l’aggiornamento biennale previsto", attraverso decreti del Ministro dei lavori pubblici o di quello delle finanze, dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980, n. 925.

Neppure tale questione è fondata.

La misura dei sovracanoni in questione è stabilita dalla legge statale (artt. 1 e 2 della legge n. 925 del 1980), che prevede altresì un procedimento per il loro aggiornamento biennale sulla base dei dati ISTAT sull’andamento del costo della vita (art. 3). La norma impugnata fissa ex novo le basi di calcolo dei sovracanoni, salva per gli anni a venire l’applicazione del predetto meccanismo di aggiornamento.

La norma interviene dunque su una materia già interamente regolata dalla legge dello Stato, la cui competenza, fino all’attuazione del nuovo art. 119 della Costituzione, resta ferma per i motivi già esposti.

13. – Il comma 11 dispone che "nel caso in cui l’imposta relativa a fabbricati del gruppo catastale D, in precedenza versata ad un unico Comune in base a valori di bilancio unitariamente considerati, sia successivamente da versare a più Comuni a seguito dell’attribuzione di separate rendite catastali per le parti insistenti su territori di Comuni diversi, i Comuni interessati sono tenuti a regolare mediante accordo i rapporti finanziari relativi, delegando il Ministero dell’interno ad effettuare le necessarie variazioni dell’importo a ciascuno spettante a titolo di trasferimenti erariali, senza oneri per lo Stato".

La questione relativa a tale norma non è fondata.

Il sistema catastale, compresi i criteri e le procedure per la determinazione delle relative rendite, che costituiscono anche la base imponibile a cui è commisurata, per i fabbricati iscritti o iscrivibili in catasto, l’imposta comunale sugli immobili (cfr. art. 5, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 504 del 1992) è e resta tuttora di competenza del legislatore statale. Nella specie, l’art. 64, commi 1 e 2, della legge n. 388 del 2000 ha previsto che, in correlazione con il procedimento di autodeterminazione provvisoria delle rendite catastali dei fabbricati di categoria D, cioè degli immobili "a destinazione speciale", industriale o commerciale, i minori introiti relativi all’ICI conseguiti dai Comuni per effetto dei minori imponibili derivanti da tale autodeterminazione siano compensati da un corrispondente aumento dei trasferimenti statali se di importo superiore a lire 3 milioni e allo 0,5 per cento della spesa corrente prevista per ciascun anno; e che tali trasferimenti siano invece ridotti qualora ai Comuni che ne beneficiano derivino, per effetto della determinazione definitiva delle rendite catastali, introiti superiori del 30 per cento o più rispetto a quelli conseguiti prima dell’autodeterminazione provvisoria.

La disposizione qui impugnata non fa che regolare l’ipotesi particolare in cui l’ICI relativa a detti fabbricati, in precedenza versata ad un unico Comune, sia successivamente da versare a più Comuni, a seguito della attribuzione di separate rendite per le parti insistenti sui rispettivi territori. La previsione di un accordo fra i Comuni interessati e di una delega da parte degli stessi al Ministero dell’interno per effettuare le necessarie variazioni degli importi spettanti a titolo di trasferimenti erariali non può che far capo alla legislazione dello Stato, andando ad incidere su una disciplina che è di stretta pertinenza statale.

14. – L’addizionale comunale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, istituita dall’art. 1 del d.lgs. 28 settembre 1998, n. 360, e poi trasformata in addizionale provinciale e comunale (art. 12 della legge 13 maggio 1999, n. 133), costituisce un’entrata tributaria istituita e fondamentalmente disciplinata dalla legge statale, anche se devoluta, quanto al gettito, agli enti locali con riguardo ai redditi prodotti nei rispettivi territori. L’art. 1, comma 2, del decreto legislativo istitutivo prevede che l’aliquota dell’addizionale (successivamente definita "di compartecipazione dell’addizionale": art. 12 della legge n. 133 del 1999) sia stabilita con decreti del Ministro delle finanze, conseguentemente determinando la equivalente riduzione delle aliquote del tributo erariale. Il comma 7 dell’art. 1 del medesimo decreto legislativo disciplinava le modalità di attribuzione delle somme agli enti locali, in acconto sulla base dei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi dell’anno precedente, e in sede di conguaglio in base ai dati sulle dichiarazioni dell’anno di riferimento.

A quest’ultima disciplina l’art. 25, comma 1, impugnato dalla Regione Emilia-Romagna, reca modifiche intese a stabilire che i versamenti agli enti locali sono effettuati "sulla base dei dati statistici più recenti forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze", quanto ai versamenti in acconto, e "sulla base dei dati statistici relativi all’anno precedente, forniti dal Ministero dell’economia e delle finanze", quanto all’attribuzione definitiva e a conguaglio.

Di queste modifiche si duole la Regione ricorrente, lamentando che il riferimento, nel nuovo comma 7 dell’art. 1 del d.lgs. n. 360 del 1998, anziché ai dati reali, ai dati statistici relativi ai redditi imponibili dei soggetti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni, violi il "principio di certezza delle risorse finanziarie sotteso all’art. 119, secondo comma, della Costituzione", in quanto farebbe perdere la certezza della relazione fra attribuzioni di somme e concrete risultanze fiscali, consentirebbe margini di discrezionalità nell’aggiornamento e nella strutturazione dei dati, ed inoltre, avendo riguardo ai redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio fiscale nei singoli Comuni, farebbe perdere ogni relazione con i redditi di lavoro dipendente o assimilati, che sono attribuiti per legge, ai fini dell’imputazione dell’addizionale, al Comune in cui il sostituto d’imposta ha il domicilio fiscale alla data di effettuazione delle operazioni di conguaglio relative a detti redditi.

15. – La questione non è fondata.

Trattandosi di un’addizionale istituita e regolata dalla legge dello Stato, resta, in linea di principio, nella disponibilità del legislatore statale disciplinare le modalità della attribuzione del gettito.

E’ vero che la istituzione e la disciplina dell’addizionale sono state finalizzate sia a fornire agli enti locali una risorsa aggiuntiva atta a finanziare nuovi compiti e funzioni trasferiti, sia ad attribuire loro una forma di potestà impositiva autonoma, con una sia pure limitata possibilità di accrescere l’aliquota, per finanziare la generalità delle loro funzioni, in sostituzione di trasferimenti dal bilancio dello Stato (cfr. art. 48, comma 10, lettere b e d, e comma 11, della legge 27 dicembre 1997, n. 449; art. 1, commi 2 e 3, e art. 2, comma 3-bis, del d.lgs. n. 360 del 1998). In tal modo la logica di una compartecipazione degli enti locali al gettito (sia pure "riferibile al loro territorio": art. 119, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione) di un tributo erariale viene a sovrapporsi e in parte a confondersi con quella di una forma di potestà impositiva autonoma, che per sua natura non può che esercitarsi sulla base imponibile esistente nel territorio di ciascun ente.

Il riferimento della norma impugnata ai dati statistici finisce per allontanare ulteriormente la disciplina concreta dell’addizionale dal modello di un tributo riscosso da ciascun ente nel proprio territorio, spostandolo verso quello di un riparto fra gli enti del gettito del tributo. Tuttavia, ciò non è sufficiente a determinare una sostanziale alterazione in pejus dell’autonomia finanziaria di cui gli enti locali già fruivano. Né viene compromessa in maniera significativa la certezza delle entrate, anche tenendo conto che la stessa disposizione censurata aggiunge che "con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, possono essere stabilite ulteriori modalità per eseguire la ripartizione".

16. – L’art. 67, comma 1, della legge n. 388 del 2000 prevedeva che i decreti ministeriali destinati a stabilire l’aliquota di compartecipazione all’addizionale IRPEF, per la parte non connessa all’effettivo trasferimento di nuovi compiti e funzioni, e compensata da una corrispondente riduzione dei trasferimenti ordinari ai Comuni (art. 2, comma 3-bis, del d.lgs. n. 360 del 1998, aggiunto dall’art. 12 della legge n. 133 del 1999), fossero emanati entro il 30 novembre 2001. Il successivo comma 3 del medesimo art. 67 istituiva per l’anno 2002, per i Comuni delle Regioni a statuto ordinario, una compartecipazione al gettito dell’IRPEF nella misura del 4,5 per cento del riscosso in conto competenza affluente al bilancio dello Stato per il 2001, ripartita tra i Comuni dal Ministero delle finanze in proporzione all’ammontare, risultante sulla base dei dati disponibili, dell’imposta netta dovuta dai contribuenti, distribuito territorialmente in funzione del domicilio fiscale. I trasferimenti erariali a ciascun Comune erano ridotti in misura pari al gettito spettante della compartecipazione (comma 4). Il comma 5 regolava le modalità di erogazione della compartecipazione, in quattro rate di cui le due prime sulla base dei dati previsionali e le altre sulla base dei dati di consuntivo del 2001, con i relativi conguagli.

Le modifiche che la disposizione impugnata dell’art. 25, comma 5, della legge n. 448 del 2001 apporta a tale disciplina sono le seguenti.

Anzitutto si differisce dal 30 novembre 2001 al 30 novembre 2002 il termine, stabilito dall’art. 67, comma 1, della legge n. 388 del 2000, per l’emanazione dei decreti relativi all’aliquota di compartecipazione all’addizionale (comma 5, lettera a).

In secondo luogo (comma 5, lettera b), si estende al 2003 il regime transitorio già previsto per il 2002 dall’art. 67 della legge n. 388 del 2000. Inoltre, in particolare, le nuove norme stabiliscono che per il 2002 il gettito è ripartito tra i Comuni "sulla base dei dati statistici più recenti" forniti dal Ministero dell’economia (nuovo comma 3, ultimo periodo, dell’art. 67 della legge n. 388 del 2000); e che nel caso in cui il livello dei trasferimenti spettanti ai singoli enti risulti insufficiente a consentire il recupero integrale della compartecipazione, questa "è corrisposta al singolo ente nei limiti dei trasferimenti spettanti per l&rsqu