Sentenza n. 65/2001

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SENTENZA N. 65

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 22 della legge della Regione Lombardia 29 aprile 1980, n. 44 (Disciplina della ricerca, coltivazione e utilizzo delle acque minerali e termali), come modificato dall’articolo 4, comma 21, lettera c), della legge regionale 27 gennaio 1998, n. 1 (Legge di programmazione economico-finanziaria ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31 marzo 1978, n. 34 «Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della regione» e successive modificazioni e integrazioni), promosso con ordinanza emessa il 26 gennaio 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visti gli atti di costituzione delle parti ricorrenti e della Regione Lombardia resistente nel giudizio principale;

udito nell’udienza pubblica del 28 novembre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;

uditi gli avvocati Alberto Romano ed Emilio Zecca per le ricorrenti e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia resistente nel giudizio principale.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con ordinanza in data 26 gennaio 1999, solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 21, lettera c), della legge della Regione Lombardia 27 gennaio 1998, n. 1 (Legge di programmazione economico-finanziaria ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31 marzo 1978, n. 34 «Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della regione» e successive modificazioni e integrazioni), nella parte in cui, modificando l’art. 22 della legge della Regione Lombardia 29 aprile 1980, n. 44 (Disciplina della ricerca, coltivazione e utilizzo delle acque minerali e termali), stabilisce una indennità accessoria per lo sfruttamento in concessione di acque minerali.

Il remittente lamenta la violazione dell’art. 117 della Costituzione, in riferimento all’art. 25 del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), all’art. 5 del d.P.R. 28 giugno 1955, n. 620 (Decentramento dei servizi del Ministero dell’industria e del commercio), al Titolo VI, artt. 32-161 (recte: artt. 32-169), del decreto legislativo 22 giugno 1991, n. 230 (Approvazione della tariffa delle tasse sulle concessioni regionali ai sensi dell’art. 3 della legge 16 maggio 1970, n. 281, come sostituito dall’art. 4 della legge 14 giugno 1990, n. 158), agli artt. 1, secondo comma, lettera a), e 7 del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 2 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di acque minerali e termali, di cave e torbiere e di artigianato e del relativo personale), in collegamento, questi ultimi, anche con l’art. 61, primo comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382).

Nel giudizio principale, la Federazione delle industrie delle acque minerali e alcune industrie alla stessa associate hanno proposto ricorso contro una deliberazione della Giunta regionale della Lombardia, adottata in base alla norma impugnata, che definisce gli ammontari e le modalità per la corresponsione dell’ulteriore importo indennitario da versarsi alla Regione in aggiunta al già esistente canone concessorio per lo sfruttamento dei giacimenti acquiferi.

Esclusa la natura tributaria della prestazione, il remittente dubita della legittimità costituzionale della disposizione suindicata in riferimento all’art. 117 della Costituzione, rilevando che la normativa statale di principio in materia di acque minerali non consentirebbe alle Regioni di aggiungere al canone di concessione, determinato sulla base del criterio della superficie del giacimento acquifero, esplicitamente previsto dalla legge mineraria n. 1443 del 1927, ulteriori oneri a carico del concessionario. Del resto, prosegue il remittente, che la competenza legislativa delle Regioni in materia non consenta di introdurre siffatte misure conseguirebbe alla retta applicazione dei principî di libera concorrenza e di circolazione dei beni e delle merci vigenti in Europa, e risulterebbe confermato, nel diritto interno, dall’art. 86, terzo comma, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), il quale demanderebbe alle Regioni la sola riscossione dei diritti patrimoniali relativi ai beni idrici pubblici.

2. — Si sono costituite nel giudizio innanzi a questa Corte le parti del processo principale.

2.1. — Alcune industrie delle acque minerali insieme alla loro Federazione chiedono che la questione di legittimità costituzionale sia accolta.

Dopo aver ricostruito il quadro della normativa in materia, le parti private in aggiunta alle argomentazioni del remittente, ricordano la sentenza di questa Corte n. 295 del 1993, che ha respinto le censure rivolte proprio dalla Regione Lombardia al d.lgs. n. 230 del 22 giugno 1991, là dove questo, in riferimento al canone di concessione dei giacimenti di acque minerali, limiterebbe il potere normativo delle Regioni a quanto previsto dalla normativa statale.

2.2. — La Regione Lombardia, nella propria memoria, dopo avere escluso anch’essa la natura tributaria del canone di concessione, affronta il problema dell’individuazione dei principî della legislazione statale vigente in materia di acque minerali e termali che, in forza dell’art. 117 Cost., devono essere osservati come limite della competenza legislativa regionale, ed esprime il proprio convincimento nel senso che, a seguito delle modificazioni introdotte dal d.lgs. n. 112 del 1998, tali principî vadano oggi ricercati nella legislazione statale in materia di demanio idrico piuttosto che in quella relativa alle miniere.

In ogni caso, ad avviso della difesa regionale, quale che sia la soluzione cui si ritenga di aderire, la questione sarebbe infondata. Infatti, osserva la Regione, il principio fondamentale della legislazione statale non sarebbe, come invece ritenuto dal remittente, la parametrazione del canone alla superficie da sfruttare, ma la necessaria riscossione di un diritto commisurato al beneficio ricavabile dal concessionario. La disposizione censurata si sarebbe quindi attenuta a tale principio, in considerazione, fra l’altro, della specificità del settore delle acque minerali nel contesto della disciplina delle miniere. D’altra parte, prosegue la difesa regionale, gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 112 del 1998, attribuirebbero espressamente alle Regioni il potere di determinare canoni, diritti, contributi dovuti dai titolari di permessi e concessioni minerarie, con l’unico limite del rispetto dei livelli massimi stabiliti dallo Stato.

L’introduzione di un ulteriore parametro per la determinazione dei canoni di concessione sarebbe poi giustificata, sempre ad avviso della Regione, dalla necessità di rispettare i principî fondamentali stabiliti dalle leggi statali in materia di ambiente e di rifiuti dettati dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti da imballaggio); e tali principî richiederebbero la responsabilizzazione e la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti e demanderebbero alle Regioni, nell’ambito delle loro competenze, ogni opportuna azione a questo fine.

3. — In prossimità dell’udienza le parti costituite hanno depositato memoria.

3.1. — Le parti private contestano l’assunto della Regione Lombardia, secondo cui i limiti alla competenza legislativa regionale andrebbero ricercati nella disciplina del demanio idrico piuttosto che in quella delle miniere e ribadiscono che, in tale ambito, il principio fondamentale della disciplina statale in relazione allo sfruttamento di giacimenti di acque minerali sarebbe costituito dalla applicazione di un canone rapportato alla superficie dell’area oggetto di concessione.

Corollario di tale principio sarebbe poi l’assoluta irrilevanza, ai fini della determinazione degli oneri da porre a carico del concessionario, della utilità economica da questi ricavata con lo sfruttamento del giacimento. L’appartenenza di beni pubblici al demanio o al patrimonio indisponibile li renderebbe infatti inidonei ad essere oggetto di commercio, e li farebbe suscettibili di sfruttamento economico solo attraverso concessioni all’industria privata, capaci di generare per l’ente pubblico entrate di natura pubblicistica (tasse di concessione), ma non ricavi imputabili ad una sorta di loro “vendita”.

La difesa delle parti private ritiene poi che dalla giurisprudenza costituzionale relativa al rapporto tra principî fondamentali e leggi regionali, siano desumibili alcune massime che avrebbero una capacità di orientamento interpretativo anche nel caso di specie: la legge regionale non dovrebbe discostarsi dal tipo di disciplina dato dalle leggi statali intervenute nella stessa materia; essa dovrebbe attenersi alle regole generali e distaccarsene solo con discipline derogatorie identiche a quelle dettate dalla legge dello Stato ovvero riconducibili alla medesima ratio; ancor più specificamente, un’imposizione patrimoniale della Regione, diversa dal tributo, non eccederebbe i poteri di autonomia quando traesse fondamento dalla stessa normazione dello Stato, rimanendo nell’ambito da questa fissato; la disciplina regionale, infine, sarebbe in linea con la Costituzione allorché non pretendesse, come nella specie, di incidere sul metodo di calcolo stabilito dalla legge statale ma si limitasse a precisarlo.

Questi principî giurisprudenziali, osserva la difesa delle parti private, sarebbero stati disattesi dal legislatore lombardo e le violazioni assumerebbero un rilievo ancora maggiore alla luce dei principî comunitari di libera concorrenza e circolazione delle merci e alla luce dell’interesse dello Stato e delle altre Regioni. Il prelievo regionale all’esame della Corte non avrebbe, d’altronde, secondo la difesa delle parti private, nulla a che vedere con il canone concessorio, sia perché la sua misura non sarebbe in alcun modo ad esso collegata, sia perché la sua base imponibile (quantitativa) sarebbe determinato sulla base di criteri diversi da quelli definiti dalla legge statale.

Le parti private contestano infine l’assunto regionale, secondo cui il sovracanone imposto dalla Regione Lombardia sarebbe riconducibile alla normativa in materia di gestione dei rifiuti, sia perché il riferimento agli oneri ambientali non sarebbe previsto dalla normativa regionale bensì dalla delibera di Giunta, sia perché il d.lgs. n. 22 del 1997 già prevederebbe un ingente onere ai medesimi fini.

3.2. — La Regione Lombardia, nella propria memoria, rileva che dalla sentenza n. 295 del 1993 di questa Corte potrebbe desumersi che la disposizione impugnata violi non già l’art. 117 Cost., bensì l’art. 119. In tal caso si concretizzerebbe un’ipotesi di erronea indicazione del parametro e quindi di inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione sollevata dal tribunale amministrativo regionale remittente. La Regione insiste, peraltro, nell’affermare che il diritto patrimoniale contestato non potrebbe essere configurato come un tributo ed auspica che questa Corte definisca la portata e i limiti della potestà legislativa regionale in materia.

La difesa regionale ribadisce poi la sua tesi che principio fondamentale della materia sarebbe la parametrazione del diritto sul beneficio ricavabile dal concessionario. In ogni caso, poiché il legislatore statale non avrebbe provveduto ad aggiornare i livelli massimi dei diritti dovuti dai titolari di concessioni, tali livelli non potrebbero più costituire, dal punto di vista quantitativo, un limite alla potestà legislativa regionale. A conforto di tale conclusione, ricorda che la legge della Regione Lombardia n. 1 del 2000, non contestata dal Governo in sede di controllo, all’art. 2, comma 26, lettera a), stabilisce che la Regione, in materia di acque minerali e termali, esercita le funzioni amministrative riguardanti la “definizione” dei canoni di concessione, senza fare alcun riferimento ai limiti e ai principî della legislazione statale e riconoscendo quindi l’autonoma potestà regionale in questo campo.

Se poi, invece, conclude la difesa regionale, si accedesse alla tesi, già prospettata in sede di costituzione, della riconducibilità della disciplina delle acque minerali a quella delle risorse idriche e della difesa del suolo, le Regioni sarebbero ormai divenute titolari del potere di determinare i canoni di concessione e quindi non sussisterebbe la denunciata violazione di un principio fondamentale della materia.

Considerato in diritto

1. — Viene all’esame di questa Corte l’articolo 22 della legge della Regione Lombardia 29 aprile 1980, n. 44 (Disciplina della ricerca, coltivazione e utilizzo delle acque minerali e termali), come modificato dall’articolo 4, comma 21, lettera c), della legge regionale 27 gennaio 1998, n. 1 (Legge di programmazione economico-finanziaria ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31 marzo 1978, n. 34 «Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della regione» e successive modificazioni e integrazioni), secondo il quale, per la concessione di coltivazione delle acque minerali con annesso stabilimento di imbottigliamento, il concessionario deve corrispondere alla Regione, con cadenza semestrale, a titolo integrativo delle condizioni in essere, un diritto proporzionale alla quantità di acqua imbottigliata. Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ne denuncia l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 della Costituzione, in quanto contrasterebbe con la disciplina statale in materia di miniere, e in particolare con l’art. 25 del regio decreto 27 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), che, ad avviso del remittente, configurerebbe come principio fondamentale della materia l’obbligo per il concessionario di corrispondere esclusivamente un diritto proporzionale per ogni ettaro di superficie compreso entro i limiti della concessione.

2. — La questione non è fondata.

Il regio decreto 27 luglio 1927, n. 1443, tratta unitariamente la materia delle miniere e delle risorse geotermiche e quella delle acque minerali, disciplinandole con norme indistintamente riferibili a tutti i beni minerari.

Tale unitario regime è venuto meno con la previsione dell’art. 117 della Costituzione, il quale, nell’attribuire alle Regioni la competenza legislativa solo in relazione alle acque minerali e termali, ha provocato la scissione della materia “miniere” in due distinti ambiti di attribuzioni: quello delle acque minerali e termali, che forma oggetto di competenza legislativa concorrente, soggetta al limite dei principî fondamentali risultanti, in assenza di apposita legge cornice, dalla legislazione statale vigente, e quello delle miniere e delle risorse geotermiche, oggetto di competenza dello Stato, in relazione al quale le Regioni esercitano oggi funzioni delegate. La distinzione, imposta dall’art. 117 della Costituzione, trova riscontro, da un lato, nei trasferimenti alle Regioni di funzioni amministrative riguardanti le acque minerali e termali che si sono succeduti nel tempo, e segnatamente nell’art. 1 del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 2, nell’art. 61 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e, più recentemente, nell’art. 22 della legge 15 marzo 1997, n. 59, a contenuto sostanzialmente confermativo dei già intervenuti trasferimenti; e dall’altro, nelle deleghe di funzioni che hanno investito la materia “miniere” insieme a quella delle risorse geotermiche, funzioni attualmente enumerate nell’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.

La diversità dei due tipi di competenza, desumibile dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato, si riflette nella legislazione della Regione Lombardia. Nella recente legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1, contenente norme attuative del decreto legislativo n. 112 del 1998, destinate a subentrare alle norme “cedevoli” poste, nell’esercizio di poteri sostitutivi, dal decreto legislativo 30 marzo 1999, n. 96 (Intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione di funzioni amministrative tra Regioni ed enti locali, a norma dell’art. 4, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e successive modificazioni), è netta la differenza tra la materia, di competenza propria, delle acque minerali e termali (art. 2, comma 26) e la materia, di competenza delegata, e in parte sub-delegata alle Province, delle miniere e delle risorse geotermiche (art. 2, commi 90-93).

3. — Ora, la diversità delle due competenze, propria nell’un caso e delegata nell’altro, comporta un differente ordine di limiti a carico della legislazione regionale. Nella materia “miniere e risorse geotermiche”, oggetto di una mera delega di funzioni, l’art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 112 del 1998 prevede che i canoni dovuti dai titolari dei permessi e delle concessioni sono devoluti alle Regioni territorialmente interessate, le quali provvedono altresì alla loro determinazione entro i limiti massimi fissati dallo Stato, ove non siano stabiliti con legge [art. 33, comma 1, lettera c)]. Se ne argomenta, proprio in considerazione del tipo di competenza di cui si tratta, che il canone stabilito per le concessioni minerarie dall’art. 25 del r.d. n. 1443 del 1927, peraltro più volte aggiornato (cfr. art. 14, secondo comma, del d.l. 2 ottobre 1981, n. 546, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 1981, n. 692, e art. 4 del d.m. 2 marzo 1998, n. 258), può subire variazioni in aumento solo ad opera della legge statale e non anche della legge regionale, che deve invece assumerlo come regola inderogabile, senza che sia consentito ad essa risalire in via interpretativa al principio del quale tale regola è espressione.

4. — Nella materia delle acque minerali e termali il principio fondamentale, che funge da limite alla potestà legislativa concorrente della Regione, deve essere colto ad un livello di maggiore astrattezza rispetto alla regola positivamente stabilita nel citato art. 25 in riferimento ai beni minerari in genere, tenuto anche conto delle intrinseche peculiarità delle coltivazioni di acque minerali, per le quali il solo criterio superficiario può in concreto risultare sproporzionato per difetto rispetto al beneficio economico che il concessionario trae dallo sfruttamento della risorsa pubblica. Ad una non estesa superficie assentita in concessione può corrispondere infatti un bacino imbrifero di grandi dimensioni, e, viceversa, una grande estensione territoriale può offrire risorse sorgive in quantità modesta. Ne consegue che il canone di proporzionalità alla superficie da coltivare, di cui parla l’art. 25, deve essere considerato nulla più che una norma nella quale si concretizza, senza che in essa se ne esaurisca il contenuto, il principio di più ampia potenzialità qualificatoria – da assumere, questo sì, come fondamentale – di onerosità della concessione e di proporzionalità del canone all’effettiva entità dello sfruttamento delle risorse pubbliche che la concessione comporta e all’utilità economica che il concessionario ne ricava (per una analoga impostazione, in materia di cave, cfr. la sentenza n. 488 del 1995, che ha già escluso che il criterio di calcolo di cui all’art. 25 della legge mineraria sia coessenziale al principio dell’onerosità e possa pertanto ritenersi un principio fondamentale della legge dello Stato ai sensi dell’art. 117 della Costituzione).

5. — Così individuato il principio fondamentale della legislazione statale in materia di acque minerali e termali, da esso non può dirsi difforme la previsione della legge regionale censurata secondo cui il canone di concessione deve essere commisurato anche alla quantità di acque prelevate e imbottigliate dal concessionario.

Né infine può essere condiviso l’ulteriore rilievo del remittente secondo il quale la materia delle acque minerali e termali richiederebbe uniformità di regime economico a livello nazionale e sovranazionale, onde impedire che autonomi interventi regionali producano sfasature nella libera concorrenza e nella circolazione dei beni e delle merci nel mercato europeo. Il principio del libero scambio è, infatti, mal invocato di fronte a linee di indirizzo, di cui anche le Regioni possono essere interpreti nelle materie di loro competenza, intese a non deprimere il valore delle risorse naturali che costituiscono patrimonio pubblico.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 22 della legge della Regione Lombardia 29 aprile 1980, n. 44 (Disciplina della ricerca, coltivazione e utilizzo delle acque minerali e termali), come modificato dall’articolo 4, comma 21, lettera c), della legge regionale 27 gennaio 1998, n. 1 (Legge di programmazione economico-finanziaria ai sensi dell’art. 9-ter della l.r. 31 marzo 1978, n. 34 «Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della regione» e successive modificazioni e integrazioni), sollevata, in riferimento all’articolo 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2001.