Ordinanza n. 455/2002

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ORDINANZA N.455

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare                         RUPERTO                 Presidente

- Riccardo                     CHIEPPA                  Giudice

- Gustavo                      ZAGREBELSKY      "

- Valerio                        ONIDA                      "

- Fernanda                    CONTRI                    "

- Guido                         NEPPI MODONA    "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI             "

- Annibale                     MARINI                    "

- Franco                         BILE                          "

- Giovanni Maria          FLICK                                    "

- Francesco                    AMIRANTE              "

- Ugo                             DE SIERVO              "

- Romano                      VACCARELLA        "

- Paolo                           MADDALENA         "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle sentenze emesse dalla Corte di cassazione, sezione III civile, n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, con le quali è stato disposto l’annullamento di due decisioni della Corte d’appello di Roma relative alla insindacabilità delle opinioni espresse dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nei confronti dei senatori Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, promosso dal senatore Francesco Cossiga, con ricorso depositato l’11 febbraio 2002 e iscritto al n. 211 del registro ammissibilità conflitti.

  Udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

  Ritenuto che, con atto dell’11 febbraio 2002, il senatore a vita – quale ex Presidente della Repubblica – Francesco Cossiga ha promosso ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, per domandare l’annullamento di due sentenze della Corte di cassazione, sezione III civile, n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, rese nell’ambito di due distinti giudizi civili per risarcimento dei danni intentati nei suoi confronti, rispettivamente, dai senatori Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, a causa di dichiarazioni pronunciate nel corso del mandato presidenziale e che questi ultimi assumono essere ingiuriose e diffamatorie nei loro riguardi;

  che nel ricorso si precisa in via preliminare che le decisioni della Corte di cassazione – depositate in allegato all’atto introduttivo – hanno disposto l’annullamento con rinvio di due sentenze della Corte d’appello di Roma, del 16 marzo 1998 e del 21 aprile 1997, che avevano a loro volta riformato due pronunce di condanna dell’odierno ricorrente, emesse (rispettivamente il 14 maggio 1994 e il 23 giugno 1993) dal Tribunale di Roma adìto per le azioni di risarcimento dei danni dai due citati parlamentari;

  che nell’atto introduttivo il ricorrente dà conto dei passaggi centrali delle diverse pronunce della giurisdizione, da quelle di primo grado – basate su una lettura restrittiva della disciplina dell’immunità del Presidente della Repubblica (art. 90 della Costituzione) –, a quelle di appello – viceversa fondate su una concezione ampia della prerogativa, anche alla stregua della prassi costituzionale –, fino a quelle della Corte di cassazione, che hanno delineato ambito e contenuti della responsabilità del Capo dello Stato;

  che, secondo l’esposizione del ricorrente, i contenuti essenziali delle due ultime decisioni (tra loro corrispondenti, quanto a motivazione), di annullamento con rinvio ai giudici di merito, sono da ravvisare: (a) in una lettura ampia dei poteri del Presidente della Repubblica, titolare non solo delle funzioni elencate nell’art. 87 della Costituzione ma anche legittimato al compimento di dichiarazioni e atti non tipizzati, correlati a dette funzioni, tra cui il potere di "esternazione", convalidato dalla prassi costituzionale e dal "diritto vivente"; (b) per converso, e in contrario avviso rispetto all’impostazione dei giudici d’appello, nell’esigenza di collegare comunque l’irresponsabilità (che è piena: penale, civile, amministrativa) alla sussistenza di un nesso funzionale tra l’illecito commesso e i poteri propri del Presidente, dovendosi ammettere la possibilità di "esternazioni" solo se strumentali rispetto a un compito presidenziale, dunque con un criterio di collegamento ratione materiae e non – come era nella forma di Stato monarchico - ratione personae; (c) nell’affermazione che l’irresponsabilità giuridica del Capo dello Stato può essere riconosciuta solo in presenza di atti e comportamenti che siano diretto esercizio delle funzioni o che trovino la loro causa in queste, escludendosi in tal modo le attività "extrafunzionali"; (d) nell’affermazione che spetta al giudice comune accertare l’esistenza di detto nesso, salva la facoltà del Presidente della Repubblica di promuovere il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale; (e) nell’assunto, infine, che le dichiarazioni eventualmente diffamatorie pronunciate dal Capo dello Stato, se connesse nel senso detto alla funzione, non hanno riguardo al diritto di libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione, al quale si riconnette la critica politica, che è facoltà comune ma che deve comunque essere contenuta in limiti espressivi, comuni anch’essi alla generalità dei cittadini;

  che il ricorrente si sofferma quindi sul profilo della propria legittimazione a ricorrere, richiamando – nella perdurante elasticità della nozione di "potere" ai fini del promovimento del conflitto, e nella necessità di valutare caso per caso l’individuazione del potere configgente – alcune recenti decisioni nella giurisprudenza costituzionale resa in materia di insindacabilità ex art. 68 della Costituzione a fronte di ricorsi proposti da singoli parlamentari, nelle quali la Corte avrebbe mostrato talune aperture alla possibilità che in concreto possano darsi ipotesi in cui si configuri una attribuzione costituzionale di potere individuale, per la cui tutela pertanto sia legittimato a ricorrere un singolo individuo (ordinanze n. 177 del 1998 e n. 101 del 2000);

  che, sviluppando questi rilievi, il fatto che il ricorrente non rivesta più la carica di Presidente della Repubblica non escluderebbe, secondo la prospettazione, la legittimazione dello stesso, tanto più considerando che egli è stato citato in giudizio durante il mandato e per fatti che riguardavano l’ufficio presidenziale ma che attualmente, pur pendendo i giudizi civili, non potrebbe far valere in altro modo le garanzie che gli spettano qualora si adottasse una nozione formalistica di "potere": a tale scopo, il ricorrente valorizza in particolare l’art. 59 della Costituzione, che, nello stabilire che sia senatore di diritto e a vita chi sia stato Presidente della Repubblica, testimonia esplicitamente che anche dopo la scadenza del mandato presidenziale il titolare conserva una posizione giuridicamente rilevante sul piano costituzionale, essendo tra l’altro tenuto al segreto d’ufficio sui fatti appresi durante il settennato;

  che il ricorso affronta quindi il profilo oggettivo del conflitto, in particolare quanto alla sussistenza del "tono" costituzionale di esso, rilevando che non potrebbe negarsi tale requisito, poiché si tratta di un conflitto da menomazione, che ha origine da "eccedenze" del potere giudiziario e in particolare dall’attribuzione di responsabilità civile per condotte di "esternazione", che sono viceversa da ricollegare alla funzione presidenziale e dunque non ammettono in radice che possa derivarne una qualche responsabilità, secondo la disciplina dell’immunità del Capo dello Stato quale delineata in Costituzione (art. 90);

  che, per questo aspetto, il ricorrente assume l’esigenza di garantire la prerogativa costituzionale da un esercizio della funzione giurisdizionale che spezza l’equilibrio tra le due opposte esigenze – garanzia del Presidente della Repubblica e tutela comune dei diritti – considerate dal Costituente, e afferma che lo strumento per il ripristino della ripartizione delle competenze non può essere altro che il giudizio per conflitto, ciò che del resto le stesse pronunce della Cassazione sembrano auspicare, riconoscendo senz’altro la legittimazione a ricorrere dell’ex Capo dello Stato;

  che nell’atto introduttivo viene poi analizzato, anche attraverso un’ampia esposizione di orientamenti della dottrina, il tema della responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica, tema sul quale – si sottolinea – regna tuttora una notevole incertezza interpretativa, avendo questa materia ricevuto nel testo costituzionale una disciplina "ambigua" – anche in ragione della coesistenza, nella figura del Presidente della Repubblica, di aspetti di organo "governante" accanto a quelli di organo "garante" – sulla quale la Corte costituzionale è sollecitata a rendere un definitivo chiarimento;

  che, inoltre, il ricorrente formula una disamina del tema, particolarmente controverso, del potere di "esternazione" del Presidente della Repubblica, potere che, con maggiore o minore ampiezza, anche alla luce della prassi costituzionale, deve oramai essere riconosciuto in via di principio – quale facoltà del titolare della carica di svolgere e chiarire le proprie valutazioni e i propri orientamenti, se reputati indispensabili per lo svolgimento delle funzioni attribuite dalla Costituzione, tra cui in primo luogo l’indirizzo volto a garantire il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali che appartengono all’intera comunità – e che per questo non può formare oggetto di alcun sindacato da parte dell’autorità giudiziaria;

  che, sotto altro aspetto, il ricorrente osserva come sia artificiosa la distinzione tra le manifestazioni del pensiero uti singulus e le enunciazioni riconducibili alla funzione, in particolare quando, nel circuito comunicativo proprio della società pluralista, le "esternazioni" si sottraggono alla dimensione formale dello scritto, con ciò prospettando una linea di interpretazione della disciplina costituzionale, quale quella fatta propria dai giudici d’appello, che prescinda del tutto dal formalistico collegamento – istituito invece dai giudici di primo grado – tra irresponsabilità e controfirma ministeriale, e ciò, sempre secondo l’atto introduttivo, per "superare l’anacronistica concezione dei poteri e delle prerogative presidenziali dei Costituenti, costantemente smentita nella prassi recente e non più compatibile con la logica del sistema costituzionale";

  che, alla stregua degli anzidetti rilievi, le dichiarazioni rese dall’allora Presidente della Repubblica nei confronti dei senatori Flamigni e Onorato non potrebbero essere qualificate come atti privati, trattandosi della reazione del titolare della più elevata carica della Repubblica agli attacchi a questa rivolti tramite quello, ed essendo una mera "finzione" la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica nelle comunicazioni di valore e contenuto politico da parte di un organo monocratico, il cui titolare è investito del munus in modo permanente, non a date e orari prestabiliti;

  che, in rapporto ai casi di specie oggetto delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorrente afferma: (a) che talune delle frasi pronunciate nei confronti del senatore Onorato costituivano la reazione – "franca e senza ipocrisie", ma non gratuitamente denigratoria – nei riguardi di posizioni espresse dal medesimo su temi di particolare rilievo istituzionale, come la collocazione dell’Italia nel sistema di alleanze internazionali in occasione della guerra del Golfo e come la vicenda "Gladio" (in relazione alla quale il parlamentare, con altri, aveva sollecitato una messa in stato di accusa del Presidente), mentre altre frasi rivolte sempre al senatore Onorato – quali quelle circa la "faziosità", cioè l’essere di parte, o quelle circa il senso dello Stato e della Patria, oltretutto reciproche - dovevano reputarsi perfino prive di contenuto offensivo; (b) che le frasi pronunciate nei riguardi del senatore Flamigni costituivano a loro volta la reazione alle posizioni da questi espresse, sia in sede di commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, sia in un libro ("La tela del ragno"), relativamente a vicende anch’esse di indubbia rilevanza politico-costituzionale, come il presunto coinvolgimento del senatore Cossiga, allora Ministro dell’interno, in trame legate alla loggia massonica P2, a Licio Gelli e ai servizi segreti deviati, nell’ambito della vicenda Moro;

  che il ricorrente afferma quindi la riconducibilità di tutte le "esternazioni" in questione all’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione, anche alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nel contiguo settore dell’insindacabilità dei parlamentari di cui all’art. 68 della Costituzione, attraverso il criterio del nesso funzionale tra opinioni e attività parlamentare;

  che, infine, il ricorrente, anche attraverso richiami ai lavori dell’Assemblea Costituente e alle posizioni della dottrina, affronta l’aspetto del regime degli atti "extrafunzionali" del Presidente della Repubblica, non disciplinati nel testo costituzionale, partendo dalla identificazione tra carica monocratica e soggetto a essa preposto, per concludere nel senso che l’integrità della persona vale, proprio per questa identificazione, anche a tutela dell’istituzione: in tale modo, la lacuna del testo costituzionale nella disciplina dell’irresponsabilità del Presidente della Repubblica verrebbe colmata, con l’adesione alla tesi secondo cui l’immunità preserva da ogni procedimento giudiziario che possa limitare la libertà d’azione del titolare della carica o che possa porlo in condizione di soggezione o subalternità di fronte a un potere diverso, con la conseguenza che la residua responsabilità comune, certo sussistente, non potrebbe comunque essere fatta valere durante l’esercizio del mandato;

  che in data 8 ottobre 2002 il ricorrente ha depositato una memoria, insistendo in particolare per la declaratoria di ammissibilità del ricorso sotto il profilo della propria legittimazione a promuovere il giudizio per conflitto costituzionale di attribuzione.

Considerato che in questa fase la Corte è chiamata, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a svolgere senza contraddittorio una delibazione circa l’ammissibilità del ricorso che concerne l’esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, con riferimento ai requisiti oggettivi e soggettivi di cui al primo comma del medesimo art. 37, e che questa valutazione preliminare e interlocutoria lascia impregiudicata ogni ulteriore determinazione, anche relativamente alla stessa ammissibilità del ricorso;

che, innanzitutto, dal ricorso è dato ricavare le ragioni del conflitto e le norme costituzionali che regolano la materia, come prescritto dall’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

che, sotto l’aspetto oggettivo, il conflitto appare ammissibile, risultando dall’atto introduttivo (a) che esso è proposto per la salvaguardia della sfera di attribuzioni del Presidente della Repubblica, quali risulterebbero dall’immunità riconosciuta dall’art. 90 della Costituzione; (b) che viene in contestazione il potere della Corte di cassazione di adottare le due decisioni indicate nell’esposizione dei fatti, dalle quali deriverebbe la lesione dell’anzidetta sfera di attribuzioni presidenziali, e (c) che se ne chiede conseguentemente l’annullamento;

che, quanto all’aspetto soggettivo del conflitto, la Corte di cassazione è legittimata a resistere nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, quale organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, poiché, come ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, ordinanze n. 126, n. 84, n. 37 e n. 6 del 2002), ciascun organo giurisdizionale è legittimato a essere parte nei conflitti costituzionali di attribuzione, in quanto la titolarità delle funzioni giurisdizionali da parte della magistratura e l’indipendenza, nel loro esercizio, di ciascuna autorità giurisdizionale sono garantite dalla Costituzione;

che, ancora sotto l’aspetto soggettivo, il ricorrente, già Presidente della Repubblica, agisce ora, quale titolare di una carica non più in atto, per la tutela di attribuzioni presidenziali che, in ipotesi, gli spettavano allora, in relazione a comportamenti da lui tenuti durante il suo mandato presidenziale e oggetto di pronunce dell’autorità giudiziaria successive alla scadenza del medesimo;

che i complessi problemi costituzionali che, anche con riguardo alla sua ammissibilità, il presente ricorso pone per la prima volta all’esame di questa Corte non si prestano a essere decisi definitivamente nella presente sede di sommaria delibazione e che appare necessario affrontarli nel contraddittorio tra le parti che solo lo svolgimento ulteriore del giudizio può assicurare;

che, per l’integrazione del contraddittorio, a norma dell’art. 37, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, deve disporsi la notificazione del presente ricorso anche al Presidente della Repubblica la cui posizione costituzionale, in relazione alle questioni di principio circa l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione, è oggetto delle due decisioni della Corte di cassazione e del ricorso per conflitto di attribuzione che, in relazione a esse, è stato proposto:

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

  riservato ogni definitivo giudizio,

  dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dal senatore Francesco Cossiga nei confronti della Corte di cassazione, sezione III civile, con l’atto indicato in epigrafe;

  dispone:

  a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente;

  b) che, a cura del ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati alla Corte di cassazione, sezione III civile, e al Presidente della Repubblica, entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati nella cancelleria di questa Corte entro il termine di venti giorni dalla notificazione, a norma dell’art. 26, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

  Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2002.