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Tatiana Guarnier

 

Un ulteriore passo verso l’integrazione CEDU: il giudice nazionale come giudice comune della Convenzione?*

 

1. L’antefatto: la sentenza n. 129 del 2008 ed il quadro giurisprudenziale di riferimento.

È noto come l’apertura all’integrazione del tessuto normativo nazionale ad opera del sistema CEDU sia stata oggetto di numerose ed importanti pronunce costituzionali, a partire dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007[1]. Nel solco di questa giurisprudenza si inscrive anche la decisione in commento, pur in maniera peculiare, non essendo la prima volta che la Corte affronta il tema sottopostole dalla quaestio legitimitatis in esame. Per studiare la sentenza abbiamo scelto allora di muovere dal suo precedente specifico, la sent. n. 129 del 2008.

La questione oggetto della decisione n. 113 del 2011 costituisce l’ultimo tassello del controverso caso Dorigo; caso che solleva numerose problematiche di primissimo rilievo, da quelle relative al rapporto tra ordinamenti, al delicato tema del superamento del giudicato, al bilanciamento tra princìpi nel sistema integrato, sino ai limiti delle possibilità additive della Corte costituzionale.

Come oramai noto, la controversia riguarda un cittadino italiano condannato a pena detentiva sulla base di un processo ritenuto iniquo dalla Corte EDU[2], poiché conclusosi sulla base di dichiarazioni lette ma non ripetute in dibattimento (essendosi i tre coimputati avvalsi della facoltà di non rispondere) e senza che, dunque, si fosse formato intorno ad esse un regolare e pieno contraddittorio. Sulla scorta della decisione europea, il Comitato dei Ministri e l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa avevano a più riprese sollecitato lo Stato italiano ad adottare misure che garantissero l'osservanza della pronuncia[3]; raccomandazioni che sono rimaste inevase nel corso degli anni ed, anzi, sono state eluse dal giudice dell'esecuzione, il quale aveva rigettato l'istanza di sospensione dell'esecuzione della pena avanzata dall'imputato a seguito della sentenza della Corte europea[4]. La pronuncia era stata poi ribaltata dalla Corte di Cassazione, la quale aveva tentato di percorrere un’altra strada, promuovendo la possibilità di dichiarare l’ineseguibilità del giudicato[5], ma medio tempore l'imputato aveva proposto istanza di revisione del processo alla Corte d’appello di Bologna.

È stato proprio quest’ultimo Giudice a sollevare le questioni di nostro interesse. La prima, antecedente alle pronunce nn. 348 e 349 del 2007, era architettata intorno ad una serie di poco “felici” parametri[6]. La seconda è stata invece costruita alla luce della riformulazione del rapporto tra ordinamenti e di alcuni “suggerimenti” forniti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 129 del 2008.

Pur nella – potremmo dire – quasi obbligata decisione della Corte di non ritenere fondate le questioni proposte dalla Corte d’appello con la prima ordinanza, la Consulta aveva infatti scelto di “andare oltre” la decisione di infondatezza, lanciando un monito al legislatore affinché rispondesse alla «improrogabile necessità che l'ordinamento predisponga adeguate misure atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di “processo equo”, accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo»[7] e, nel farlo, indicava puntualmente gli elementi del “bilanciamento” di rilevanza costituzionale e di rilevanza convenzionale che avrebbero dovuto essere considerati al fine di addivenire alla «problematica individuazione di un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare meccanismi riparatori, a fronte di sempre possibili errori del giudice; e quella – contrapposta alla prima – di preservare la certezza e la stabilità della res iudicata».

Sono tre gli elementi della decisione sui quali vogliamo appuntare la nostra attenzione ai fini delle analisi che ci prospettiamo in questo scritto.

Innanzitutto, l’approccio della Corte costituzionale, molto attento alle implicazioni sistemiche dell’integrazione: nel demandare il bilanciamento concreto al legislatore, essa pare aver tentato di assicurare che l'equilibrio tra i poteri dello Stato non venisse compromesso dall'integrazione di Strasburgo e che, anzi, ciascuno di essi venisse responsabilizzato, nell'ambito delle proprie competenze, nell'opera di attuazione e concretizzazione del disposto convenzionale. Riteniamo sia importante sottolineare questo punto perché analogo atteggiamento può rinvenirsi nella decisione in commento e sembra fare da sfondo a tutta la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti con la Convenzione europea[8].

Per quanto attiene al caso ora oggetto del nostro studio, poi, il rispetto del ruolo del legislatore nell’opera integrativa del tessuto nazionale acquisisce un rilievo centrale per, almeno, due ulteriori ordini di ragioni: innanzitutto, per la “riserva di discrezionalità legislativa” accordata dalla Corte al legislatore in tema di regolamentazione del processo, in generale, e dell’istituto della revisione, in particolare[9]; in secondo luogo, perché l’intervento che avrebbe potuto sanare la mancata integrazione era in questo caso un intervento additivo e – in quanto tale – particolarmente delicato per la Corte costituzionale, specie nelle aree di consolidato self restraint.

Infine, vorremmo concentrare la nostra attenzione anche sulla piena utilizzazione, in occasione della pronuncia n. 129, di un valore di matrice convenzionale ai fini dell'operazione di bilanciamento (pur passando per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost.): si interveniva così, da una parte, ad arricchire i termini di cui il bilanciamento si compone e, dall'altra, a ristrutturarlo per consentirne un utilizzo a fini “integrativi” del diritto interno.

 

2. Lo svolgimento: la sentenza n. 113 del 2011.

Questo l’antefatto della pronuncia n. 113 del 2011. Un antefatto che era un invito, rivolto in particolar modo al legislatore, ad intervenire per ripristinare il mancato adempimento di un obbligo assunto dallo Stato in sede sopranazionale o, di più, una proposta di condivisione della creazione normativa alla luce delle istanze dell’integrazione.

È, però, con la mancata risposta a quell’invito che la Corte è costretta a tornare sul punto[10]. Con l’ordinanza del 23 dicembre 2008, infatti, la Corte d’appello di Bologna, sulla scorta della rinnovata giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti col sistema CEDU ed, in particolare, della sent. n. 129 del 2008, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede tra le ipotesi di riapertura del processo la necessità di conformarsi ad una decisione di Strasburgo, per violazione indiretta dell’art. 117, primo comma, Cost., e diretta dell’art. 46, par. 1, CEDU (ossia dell’obbligo degli Stati membri di conformarsi alle sentenze Cedu).

Il parametro, stavolta, è “felice”, nel senso che consente alla Corte di pronunciarsi sulla questione nel senso desiderato dal rimettente. Meno “felice” sembra invece essere la Corte, che mostra di non svolgere di buon grado un ruolo di supplenza del legislatore in un settore delicato quale quello della revisione del processo.

Ma procediamo per gradi.

Nella sent. n. 113 la Corte conferma quanto costantemente ribadito nel corso di questi anni circa i rapporti con il sistema CEDU[11] e percorre ogni step del controllo di conformità della norma interna a quella convenzionale, per come elaborato nella propria giurisprudenza: per prima cosa, valuta se esistano “controlimiti” convenzionali; una volta esclusa questa evenienza, valuta la possibilità di pervenire ad una soluzione ermeneutica del dissidio; infine, esclusa anche questa possibilità, dichiara l’illegittimità costituzionale della normativa nazionale (rectius, nel caso di specie, della lacuna normativa nazionale) per via della violazione della norma convenzionale.

Quanto al primo step, la Consulta analizza la giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa all’adempimento delle sentenze Cedu da parte degli Stati membri; giurisprudenza dalla quale emerge che, in casi quale quello pendente nel giudizio principale, l’art. 46, par. 1, CEDU ed il conseguente obbligo di restitutio in integrum in favore del soggetto vittima della violazione della Convenzione, si traduce in un impegno degli Stati membri a permettere la riapertura o la revisione dei processi[12]. La mancanza di una siffatta previsione all’interno dello Stato italiano si traduce allora in una violazione “sistemica” della Carta europea, cui lo Stato è tenuto a porre rimedio e di fronte alla quale il sistema convenzionale prevede meccanismi di intervento più aspri rispetto a quelli relativi a violazioni “occasionali”[13]. Di più, qui la Corte fa notare come la violazione non sia meramente sistemica, ma potremmo dire addirittura “ontologica”: «l’avvenuto esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile di legittimazione per il ricorso alla Corte di Strasburgo: con la conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di principio, su vicende già definite a livello interno con decisione irrevocabile»[14].

Ciò premesso, pur nella constatazione che l’istituto della revisione processuale conosce tradizionalmente nel nostro ordinamento una funzione ed un ruolo nettamente differenti da quelli ravvisati a Strasburgo, la Consulta ritiene che gli obblighi dedotti in quella sede dal disposto CEDU non siano in contrasto con la Costituzione perché, «pur nell’indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata», le decisioni di Strasburgo mirano alla garanzia di diritti fondamentali della persona, che trovano ampio riscontro anche nel nostro testo costituzionale (in primis, nell’art. 111). Anzi, si precisa che la sedes dell’intervento additivo richiesto dal giudice è correttamente individuata dal giudice a quo, essendo l’istituto della revisione del processo il più consono a garantire l’adempimento dell’obbligo convenzionale da parte dello Stato.

Ciò verificato, la Corte ribadisce quanto già nella precedente occasione affermato, ossia l’impossibilità di sanare il vulnus costituzionale in via interpretativa. Erano state infatti prospettate diverse possibili soluzioni ermeneutiche del problema, tutte scartate dalla Corte stessa o dal giudice a quo, in sede di sollevazione della questione di legittimità[15]. Posta l’insanabilità in via interpretativa, si arriva a quello che ci pare essere il cuore della decisione: il vulnus convenzionale necessita di un rimedio che, non essendo stato offerto dal legislatore, più volte invitato ad intervenire tanto dagli organi di Strasburgo, quanto dalla Consulta, deve essere allora introdotto dalla Corte stessa.

Di fronte a questa situazione, la Corte fa intendere di trovarsi, per così dire, “spalle al muro”, non potendo più prorogarsi ad libitum una situazione di grave violazione statale di obblighi convenzionali. Essa, allora, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. “nella parte in cui non prevede” un “diverso” caso di revisione della sentenza e di riapertura del processo che consenta di rispondere alla violazione dell’art. 46, par. 1, CEDU. Strana addizione, questa, che non chiarisce molto, né sembra voler guidare il legislatore nella sua futura attività di disciplina del dettaglio del rimedio.

Riservandoci di chiarire meglio questo punto più avanti, vogliamo per il momento fermarci ad una considerazione che ci riporta all’orientamento del Giudice costituzionale nella decisione n. 129 del 2008. Nonostante, infatti, in questo caso la soluzione sia diversa e la Corte addivenga ad una pronuncia additiva, essa però persiste nella proposizione di un atteggiamento accorto, ribadendo la propria volontà di “contestualizzare” questa decisione e promuovendo l’idea che essa costituisca solo uno dei tasselli di un onere di adempimento ai doveri sopranazionali che incombe in capo ad ogni organo dello Stato e che, in questo caso specialmente, avrebbe potuto essere molto meglio soddisfatto da un intervento legislativo[16]. Molti sono i punti della sentenza ove si può scorgere questa attenzione al ruolo da essa rivestito nel sistema integrato ed ove si delineano i correlativi doveri/poteri dei giudici e del legislatore nell’adempimento dell’obbligo di adeguare l’ordinamento statale alle decisioni di Strasburgo.

In particolare, per quel che ci interessa ora, la Corte ribadisce a chiare lettere che il proprio intervento non esaurisce le potenzialità normative dell’introduzione di una nuova fattispecie all’interno dell’art. 630 c.p.p. e che – di più – questo intervento additivo non implica una pregiudiziale opzione di favore per l’istituto della revisione, essendo la declaratoria di incostituzionalità «giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e più idonea sedes dell’intervento additivo». Al legislatore viene dunque restituita ogni discrezionalità in ordine alla futura disciplina dei rimedi interni per adeguarsi ad una sentenza CEDU di condanna; egli rimarrà libero di prevedere un autonomo e distinto istituto a tal fine precipuamente preposto[17] o, se sceglierà di operare nel solco di questa decisione, di «dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali».

 

3. L’epilogo, prefigurando il sequel: il giudice nazionale come “giudice comune” della Convenzione?

Quanto sin qui detto sembra essere nient’altro, o poco più, che la logica continuazione del discorso avviato dalla Corte nella sentenza n. 129 del 2008. Se da questo punto di vista, dunque, la decisione non sembra far sorgere nuove questioni rispetto a quelle già affiorate e studiate dalla dottrina in occasione delle precedenti ricordate pronunce, melius re perpensa, essa si presta a qualche osservazione ulteriore.

In primo luogo occorre riflettere, a nostro parere, sulle numerose ragioni che avrebbero suggerito un intervento del legislatore; ragioni a più riprese ricordate dalla Corte costituzionale. Si paventava, in particolare, la possibilità che l’introduzione del meccanismo di revisione ipotizzato dal rimettente potesse creare un «improvvido quarto grado di giudizio, atto a minare la coerenza dell’intero sistema processuale penale», nonché l’inconciliabilità di tale ipotesi di revisione con la configurazione interna dell’istituto, tradizionalmente rivolto alla sopravvenienza di fatti oggettivi, esterni all’iter processuale, che rendano logicamente ed eticamente doveroso rimuoverne gli effetti. Venivano sollevate, poi, delicate questioni di equilibrio tra le ragioni della difesa dei diritti processuali vantati in sede europea e le ragioni del “giudicato”, istituto a tutela e garanzia della certezza del diritto[18]. Di fronte a tutte queste difficoltà, particolarmente complessa si è dimostrata la possibilità di intervenire in sede legislativa per riformare l’istituto della revisione al fine di consentire uno svolgimento del processo penale conforme ai dettami europei.

Se questo è il dato, allora, anche la conseguente – potremmo dire parallela – attività “additiva” richiesta al giudice costituzionale per sanare l’incostituzionalità presenta notevoli tratti di difficoltà[19]. Tanto più che, in questo caso, l’addizione non potrebbe a rigore considerarsi “a rime obbligate” o, quantomeno, potrebbe esserlo solo ove si ritenesse che il disposto CEDU entri a far parte della nostra Costituzione a pieno titolo. Ciò che, a stare alle argomentazioni della Corte, non è.

Le aporie della ricostruzione in termini dualistici dei rapporti tra ordinamento costituzionale ed ordinamento CEDU emergono allora qui in tutta la loro concretezza ed in tutta la loro forza[20]. Se da una parte, infatti, la Corte ribadisce che l’ingresso delle disposizioni e delle norme CEDU nell’ordinamento italiano si fonda – tradizionalmente – sull’ordine di esecuzione e da esso mutua il rango legislativo, dall’altra postula una sub-costituzionalità di quelle norme ed utilizza gli strumenti specifici dell’ermeneutica costituzionale per sciogliere i conflitti tra esse e quelle interne[21]. Nel caso di specie, poi, la Corte ricava dal bilanciamento tra le istanze CEDU (dietro la formale copertura costituzionale) e quelle costituzionali la necessità di introdurre nel nostro ordinamento una norma di cui si riconosce espressamente l’incompatibilità con le finalità interne dell’istituto che dovrà concorrere a disciplinare, riponderando il “peso specifico” dei valori, princìpi ed interessi sottesi al giudicato penale, per consentire l’ingresso delle istanze sopranazionali[22]. Come se non bastasse, poi, queste considerazioni “obbligano” la Corte ad intervenire in senso additivo in una materia, quella del processo penale, che costituisce un’area di self restraint, di riserbo in favore del rispetto della discrezionalità legislativa.

Tutto considerato, dunque, ci sembra che il risultato di queste contraddizioni sia un dispositivo che in tutto riflette una dualità di intenti e di tensioni: da una parte, vi è una piena consonanza con l’impostazione duale, ove si ritiene necessario introdurre uno strumento interno di attuazione delle sentenze Cedu[23]; dall’altra, l’introduzione di questo strumento conduce verso un sistema tutt’altro che duale. Sarà infatti possibile per il giudice comune, ove lo riterrà opportuno[24], riaprire, revisionare il processo alla luce della contestata violazione della CEDU e, in quella sede, il giudice si farà il concreto garante del rispetto dei diritti processuali di cui si è riscontrata una violazione a Strasburgo. Volendo mutuare l’espressione tipica dell’ordinamento comunitario, egli si farà insomma “giudice comune” della Convenzione europea[25]. Tornando al caso di specie, ad esempio, la Corte d’appello di Bologna potrà revisionare il processo, per garantire che esso non si risolva in una condanna basata su prove non assunte nel contraddittorio delle parti, ovvero per consentire l’assunzione di quelle prove in dibattimento[26].

Ne risulta un quadro di integrazione tra ordinamenti particolarmente forte, tanto nella fase “ascendente” (di giustificazione delle argomentazioni portate a sostegno del dispositivo), quanto nella fase “discendente” (del precipitato della decisione sul ruolo dei giudici comuni nell’attuazione delle sentenze e del disposto convenzionale).

Dal primo versante perché sono solo, ci pare di poter dire, ragioni “esterne” a giustificare l’intervento additivo della Corte: ciò che essa non avrebbe mai fatto se le istanze fossero state interne (come dimostra la consolidata giurisprudenza costituzionale di self restraint in materia), diviene possibile, addirittura obbligato, ove siano coinvolti gli obblighi assunti dallo Stato in sede convenzionale. Che poi la Corte tenti di modulare questo intervento, scegliendo una formula additiva di principio molto vaga – quasi a “dispositivo generico[27] – e cerchi di restituire al legislatore ed ai giudici tutta la loro discrezionalità, non sembra di ostacolo ad una constatazione che vediamo emergere con chiarezza dalla pronuncia n. 113 del 2011: l’integrazione dell’ordinamento interno con gli ordinamenti sopranazionali esercita una spinta propulsiva verso la creazione giurisprudenziale del diritto, obbligando i giudici ad intervenire in funzione suppletiva[28]. Quando poi è la Corte costituzionale il giudice “suppletivo”, l’esperienza dei rapporti con gli ordinamenti sopranazionali ci insegna come le tappe dell’integrazione siano state segnate in maniera determinante da “momenti giurisprudenziali di creazione del diritto”[29].

Che si stia per abbattere gli ultimi baluardi del dualismo nei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento convenzionale è ancora presto per dirlo, ma, a conti fatti, le premesse del discorso della Corte paiono oggi più che mai vacillare di fronte al portato di conseguenze cui il percorso intrapreso conduce.



* In corso di pubblicazione sulla Rivista “Giurisprudenza Italiana”

[1] Quasi superfluo oramai ripercorrere quella giurisprudenza, sulla quale ben poco si potrebbe aggiungere alle profonde riflessioni dottrinali di questi anni. È appena il caso di segnalare che i menzionati leading cases hanno trovato un seguito nelle sentenze nn. 39 e 129 del 2008; 311 e 317 del 2009; 93 del 2010; 80, 236 e 257 del 2011, ove il tema dei rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento convenzionale, nonché del ruolo di snodo della Corte costituzionale, viene trattato ex professo. Per ulteriori decisioni ove la Corte configura le norme CEDU, nell’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo, come norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale, v. anche le pronunce nn. 138, 187 e 196 del 2010. I commenti alle singole decisioni sono moltissimi. Basti qui menzionare alcuni studi di più ampio respiro: Tega D., La CEDU e l’ordinamento italiano, in Cartabia M. (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 67 ss.; Cicconetti S.M., Creazione indiretta del diritto e norme interposte, in Giur. Cost., 2008, 565 ss.; Ridola P., Diritto comparato e Diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, spec. 187 ss.; Ciervo A., L'interpretazione adeguatrice come criterio di risoluzione dei contrasti ermeneutici tra ordinamento interno e Convenzione europea dei diritti dell'uomo: profili dottrinali e giurisprudenziali, in www.federalismi.it, 08.03.2011; Ruggeri A., La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo, in www.forumcostituzionale.it, 23.03.2011. Per qualche nostra considerazione sul punto e per i dovuti approfondimenti bibliografici, sia consentito fare rinvio a Guarnier T., Interpretazione costituzionale ed integrazione europea. Prime riflessioni intorno al mutamento dell’interpretazione costituzionale in funzione dell’apertura verso le organizzazioni sopranazionali, Napoli, 2010, spec. 162 ss.

[2] Più precisamente, dalla Commissione, non essendo ancora, all'epoca dei fatti, entrato in vigore il Protocollo n. 11 allegato alla Convenzione. Cfr. sent. Dorigo c. Italia, 9 settembre 1998.

[3] Cfr., tra le altre, la risoluzione interinale ResDH(2005)85, la risoluzione finale CM/ResDH(2007)83 del Consiglio dei Ministri e la Risoluzione n. 1516(2006) dell'Assemblea Parlamentare.

[4] Corte di assise di Udine, 5 dicembre 2005.

[5] Cfr. Cass., I Sez. pen., 25 gennaio 2007, n. 2800.

[6] In questi termini si esprimono, tra gli altri, Pugiotto A., Vent’anni dopo l’insegnamento di Giovanni Battaglini, in Bin R., Brunelli G., Pugiotto A, Veronesi P. (a cura di), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo (e-book), Torino, 2007, 198 e Tanzarella P., Il caso Dorigo: riequilibrio tra poteri costituzionali, in Quad. Cost., 2008, 645 ss. I parametri individuati erano l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento tra le condanne di Strasburgo ed i fatti sopravvenuti (che invece legittimano, a norma dell’art. 630 del c.p.p. una riapertura del processo), l'art. 27, comma 3, Cost., sulla base dell'assunto che la funzione rieducativa della pena imporrebbe che la stessa consegua ad un processo svolto secondo princìpi di giustizia, e l'art. 10 Cost., quale fondamento costituzionale del recepimento della CEDU. Consolidata giurisprudenza muoveva però in senso opposto alle asserzioni del rimettente, tanto con riferimento alla equiparabilità dei fatti alle valutazioni processuali svolte da giudici differenti, tanto con riferimento all’equiparabilità dei concetti di giusto processo e di giusta pena, quanto infine con riferimento alla possibilità di rinvenire il fondamento costituzionale del recepimento della CEDU nella previsione di adeguamento automatico di cui all'art. 10 Cost.

[7] Sulle peculiarità di questo monito ed i suoi possibili intendimenti, si v. Cerioni M., Ancora sull’“affaire Dorigo: il seguito della pronuncia costituzionale, in Giur. It., 2009, 2142 ss.

[8] Considerando nel suo complesso questa giurisprudenza, vi si può, a nostro parere, rinvenire una sorta di ripartizione di compiti tra poteri dello Stato ai fini della composizione dei sistemi interno e convenzionale: al legislatore, il primo bilanciamento dei valori, dei princìpi e dei diritti, interni e sopranazionali (cfr. spec. le sentt. nn. 129 del 2008 e 113 del 2011), tale da assicurare che sia adottato il massimo standard di tutela per i diritti contemplati dalle diverse carte (così, in particolare, la sent. n. 317 del 2010); a ciascun giudice, poi, l’onere di tentare un’esegesi delle disposizioni interne che, compatibilmente con le istanze di siffatto bilanciamento, ne assicuri la conformità alle carte di riferimento (cfr. soprattutto le pronunce nn. 239 del 2009, 311 e 317 del 2010); infine, alla Corte costituzionale, il meta-bilanciamento e, ove non sia possibile sciogliere l’apparente antinomia in sede ermeneutica, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna in contrasto con la CEDU (per violazione indiretta della Costituzione), ovvero la dichiarazione dell’impossibilità che un determinato indirizzo giurisprudenziale di Strasburgo entri all’interno del nostro ordinamento, per incompatibilità con la Costituzione italiana.

[9] Si vedano, tra le altre, le sentt. nn. 294 del 1995; 399 del 1998; 33 del 2007; ord. n. 243 del 2009.

[10] I numerosi disegni di legge di riforma, infatti, non sono pervenuti ad alcun risultato. Ci sembra il caso di segnalare fin d’ora, però, che alcuni di questi progetti si sono arenati per le numerose difficoltà di introdurre una siffatta ipotesi di revisione del processo, talune di compatibilità con la funzione “interna” dell’istituto, talaltre di compatibilità con la Costituzione. Cfr., per una disamina dei progetti di legge e di questi problemi, Pugiotto A., Op. cit., 195 ss. Il punto ci pare assumere un certo rilievo, dal momento che dimostra, come vedremo meglio più avanti, l’impossibilità che un intervento esaustivo potesse provenire dalla Corte costituzionale.

[11] Cfr. il punto 8 del Considerato in diritto.

[12] Per una lettura combinata dell’art. 46 e dell’art. 41 CEDU, applicata alle violazioni dell’art. 6 CEDU, si vedano, ex plurimis, Cedu, 23 ottobre 2003, Gencel c. Turchia; Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze c. Georgia; Id., 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Id., 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia; Id., 27 marzo 2005, Stoichkov c. Bulgaria; Id., 12 maggio 2005, Öcalan c. Turchia; Id., 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia; Cedu, 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia; Id., 21 dicembre 2006, Zunic c. Italia; Cedu, 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia; Id., 12 giugno 2007, Pititto c. Italia; Id., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; Id., 25 novembre 2008, Cat Berro c. Italia; Grande Camera, sent. 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Id., 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia.

E’ importante ricordare, altresì, che l’atteggiamento della Corte di Strasburgo è molto concessivo in ordine al conferimento agli Stati aderenti di un’ampia libertà di scelta delle modalità che essi ritengano più opportune a tali fini. Sul ruolo del cd. margine di apprezzamento nella giurisprudenza Cedu, si v. Tanzarella P., Il margine di apprezzamento¸ in Cartabia M. (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 145 ss. e Sciarabba V., Il ruolo delle Corti costituzionali nella giurisprudenza della Corte EDU: considerazioni sulla dottrina del margine di apprezzamento, in All’incrocio tra Costituzione e CEDU, cit., 235 ss. Per quanto ci interessa ai fini del presente scritto, e per le valutazioni che verremo a svolgere, principalmente, nel par. 3, importante sottolineare che, dunque, sotto questo profilo, le sentenze della Cedu non possono ritenersi, nella maggior parte dei casi, self executing.

[13] Si vedano, a tal proposito, le riforme apportate dal Protocollo n. 14, di recente entrate in vigore.

[14] Così il punto 5 del Considerato in diritto. La Corte aderisce qui, dunque, a quella dottrina che da tempo rinveniva nel combinato disposto degli articoli 35, 46 e 13 CEDU un obbligo degli Stati aderenti di prevedere meccanismi di revisione del processo per l’adeguamento alle decisioni di Strasburgo. Cfr. Lupo E., La vincolatività delle sentenze della Corte europea per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, in http//:appinter.csm.it/incontri/relaz/14037.pdf, 8 s. Come evidenziato da Cartabia M., La CEDU e l’ordinamento italiano, cit., 16 s., però, la Corte di Strasburgo non sembra aver accolto tale rigorosa interpretazione; è piuttosto il Comitato dei ministri a spingere gli Stati membri affinché essi adottino le misure legislative necessarie a consentire la riapertura del processo.

[15] Il difensore del condannato aveva ad esempio prospettato la possibilità di ricondurre l’ipotesi di violazione del sindacato CEDU a quella del contrasto di giudicati prevista dalla lett. a), primo comma, art. 630 c.p.p., per il tramite dell’equiparazione della decisione europea a quella di un giudice speciale. In giurisprudenza si era invece evidenziato come una tale reinterpretazione dell’istituto fosse incompatibile con la sua tradizionale configurazione di strumento volto a comporre il dissidio tra “verità processuale” e “verità storica”. Le soluzioni prospettate in alternativa dalla giurisprudenza comune sono state però ritenute dalla Corte «incomplete» e «inidonee» alla piena realizzazione dell’obiettivo. Si trattava della proposta di utilizzare l’istituto del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. (Cass., 11 dicembre 2008, n. 45807; Id., 28 aprile 2000, n. 16507), non utilizzabile per tutti quei casi in cui la Corte di Cassazione non fosse stata coinvolta; della proposta di utilizzare la richiesta di restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione ex art. 175, comma 2, c.p.p. (Cass., 27 febbraio 2008, n. 8784; Id., 2 febbraio 2007, n. 4395), utilizzabile per i soli casi di violazioni della CEDU determinate dalla disciplina del processo contumaciale; della proposta di utilizzare un incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p. al fine di sollecitare il giudice dell’esecuzione a dichiarare l’ineseguibilità del giudicato (Cass., 25 gennaio 2007, n. 2800, con riferimento proprio al caso Dorigo); rimedio che «“congela” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria: quella, cioè, di riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione» (così, il punto 5 del Considerato in diritto).

[16] In questo senso muove anche larga parte della dottrina. Si v., tra gli altri, Cartabia M., La CEDU e l’ordinamento italiano, cit., 3; Carnevale S., I rimedi contro il giudicato tra vizi procedurali e “vizi normativi”, in All’incrocio tra Costituzione e CEDU, cit., 57 ss.; Ciuffetti C., Vincoli di conformazione per gli ordinamenti nazionali nelle pronunce della Corte EDU: i casi italiani della revisione penale e dell’indennità di esproprio, ibid., 77 ss.; Pugiotto A., Op. cit., 199 s.; Negri D., Rimedi al giudicato penale e legalità processuale: un connubio che gli obblighi sopranazionali non possono dissolvere, ibid., 169 ss.

[17] Parte della dottrina ritiene che uno strumento più agile e indipendente dalla revisione del processo sia il rimedio più adeguato. Cfr. O. Mazza, Mesi di tempo (ormai anche meno) per garantire lo Stato di diritto, in Cass. Pen., 2006, 393 ss.; A. Saccucci, Obblighi di riparazione e revisione dei processi nella convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. Dir. Int., 2002, 618 ss.

[18] Per un’analisi di questi profili, si v. De Luca G., Giudicato, II) diritto processuale penale, in Enc. Giur., vol. XV, Roma, 1988, 2 s.; Serges G., Il “valore” del giudicato nell’ordinamento costituzionale, in Giur. It., 2009, 2819 ss., nonché la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa all’intangibilità del giudicato: ex plurimis, sentt., nn. 74 del 1980; 294 del 1995; 413 del 1999; ordd. nn. 14 e 501 del 2000. Più in generale, sul principio di certezza del diritto, nei suoi rapporti con il giudicato e con il legittimo affidamento dei cittadini, si v. Carnevale P., I diritti, la legge e il principio di tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento italiano. Piccolo divertissement su alcune questioni di natura definitoria, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore del Prof. Alessandro Pace; Id., La tutela del legittimo affidamento…cerca casa, in corso di pubblicazione nella Rivista Giur. Cost., e bibliografia ivi riportata.

[19] Tratti che ci paiono emergere da un dispositivo piuttosto contorto e notevolmente articolato, se raffrontato alle usuali additive di principio.

[20] Per una disamina di tali aporie si vedano Cartabia M., Op. cit.; Tega D., Op. cit.; Cicconetti S.M., Op. cit.; Ciervo A., Op. cit.

[21] Il che fa pensare piuttosto all’uso delle categorie tipiche dell’integrazione. Non essendo questa la sede per trattare di un tema complesso come quello delle teorie sui rapporti tra ordinamenti, sia consentito ancora fare rinvio al nostro Interpretazione costituzionale ed integrazione europea, 34 ss.

[22] Qui emergono chiaramente le difficoltà legate all’uso del bilanciamento e del criterio di ragionevolezza a fini integrativi; in particolare, quelle legate alla circostanza che ciascun ordinamento fa proprio un diverso ordine di priorità di princìpi, diritti e valori e che dunque, per così dire, le relative “bilance” sono “diversamente tarate”. Sul punto, si v. Ridola P., La Corte costituzionale e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo: tra gerarchia delle fonti nazionali e armonizzazione in via interpretativa, in Id., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, cit., 195.

[23] Come notato da Bartoloni E.M., L’efficacia interna delle sentenze della Corte EDU per il giudice italiano: in margine alle sentenze della Corte di Cassazione Somogyi e Dorigo, in All'incrocio tra Costituzione e CEDU, cit., 30 ss., applicando le teorie del Conforti B., Diritto internazionale, Napoli, 2006, 291: «se è vero che l’art. 46 pone un obbligo allo Stato e, quindi, ai suoi organi, in via di principio l’obbligo opera sul piano del diritto internazionale. Il giudice non potrebbe quindi, in mancanza di un atto che dia attuazione a tale obbligo, essere considerato obbligato ad applicarle. Una cosa è l’obbligo che lo Stato assume sul piano internazionale a conformarsi alle sentenze definitive della Corte, tutt’altra cosa è il vincolo che deriva ai giudici sul piano interno ad applicare tali sentenze. Solo in presenza di una volontà del legislatore di osservarne il disposto, espressa attraverso l’adozione di un atto di esecuzione, sarebbe quindi consentito agli operatori giuridici interni di applicare la sentenza. Seguendo questa linea interpretativa, l’obbligo per il giudice di conformarsi alle sentenze Cedu non deriverebbe direttamente dall’art. 46, quanto dal combinato disposto dell’art. 46 e dell’ordine di esecuzione» e, più avanti, «la convenzione e le pronunce rese dalla Corte europea, al pari di ogni altra norma di diritto internazionale, ricevono attuazione fin dove l’ordinamento lo consente».

[24] La Corte precisa che spetterà ai giudici decidere quando sia il caso di procedere ad una revisione del processo, a seconda della violazione dell’art. 6 che di volta in volta verrà riscontrata. Essi dovranno ritenere inapplicabili «le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato)»; cosa che ictu oculi non accade, ad esempio, quanto la violazione dell’art. 6 consista nella irragionevole durata del processo. Nello svolgimento di questo compito, le direttive della Corte sono di tenere in debito conto, per un verso, della sentenza CEDU cui si deve dare applicazione e della eventualmente intervenuta sentenza interpretativa di quella decisione, nonché, per altro verso, della circostanza che «l’ipotesi di revisione in parola comporta, in sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli». Ciò implicherà che il giudice nazionale dovrà farsi carico di tutta quella serie di complicate operazioni di armonizzazione e combinazione del disposto CEDU con le disposizioni interne tipica dell’integrazione tra ordinamenti.

[25] Espressione, peraltro, già utilizzata nelle sentenze 348 e 349 del 2007.

[26] Come osserva Tega D., La CEDU e l’ordinamento italiano, cit., 87, «la stessa Corte attraverso la possibilità del riesame può esercitare un’influenza virtuosa sui giudici interni, motivati a un più attento rispetto dei principi sanciti dalla Cedu e dai suoi protocolli e dalla giurisprudenza della Corte».

Vi è, però, un altro aspetto di questa considerazione che ci pare importante sottolineare, ossia la circostanza che, al termine del processo revisionato, non è affatto detto che la revisione muova pro reo. Se pensiamo al caso del Sig. Dorigo, attualmente libero in virtù della decisione della Corte di Cassazione, potrebbe darsi – in ipotesi – che i testimoni decidano di prestare le loro deposizioni in dibattimento e che, all’esito delle stesse, il giudice decida di condannare l’imputato. Se, da un lato, ciò non dice nulla in ordine al problema specifico sottoposto alla Corte di Strasburgo – che era un problema di garanzie processuali, a questo punto soddisfatte – dall’altro lato dice molto circa l’intervento additivo della Corte costituzionale, che potrebbe anche essere contra reo.

[27] Mutuando l’espressione di Parodi G., La sentenza additiva a dispositivo generico, Torino, 1996.

[28] Lo dimostra, d’altro canto, il percorso della Corte di Cassazione che sul punto ha anticipato di molto l’atteggiamento del giudice costituzionale, cercando, tra le numerose critiche dottrinali, strumenti di creazione pretoria per assolvere agli obblighi derivanti dall’art. 46 CEDU. Cfr., ex multis, Cass., sez. III, sent. 21.06.2010, n. 23761; Id., sez. V, sent. 28.04.2010, n. 16507, Scoppola; Id., sez. VI, sent. 11.12.2008, n. 45807, Drassich; Id., sez. I, sent. 27.02.2008, n. 8784; Id., SS.UU., sent. 07.02.2008, n. 6026, Huzuneanu; Id., sez. V, sent. 02.02.2007, n. 4395, Cat Berro; Id., sez. I, sent. 03.10.2006, Somogyi; Id., Sez. I, sent. 03.10.2005, n. 35616, Cat Berro; ma v. anche Id., sez. I, sent. 09.06.2009, n. 23817, Cat Berro; Id., Sez. I, sent.22.05.2008, n. 20633, Rojas.

[29] Per il significato dell’espressione, si fa rinvio a Lombardi L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967; per una riflessione ad ampio raggio sul ruolo di supplenza della Corte costituzionale, anche avendo riguardo ai rapporti con gli ordinamenti sopranazionali, v. Modugno F., La “supplenza” della Corte costituzionale, in Id., Scritti sull'interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, 107 ss.