Sentenza n. 19 del 2022

SENTENZA N. 19

ANNO 2022

Commenti alla decisione di

1. Donatella Loprieno, Riflessioni sul reddito di cittadinanza e gli stranieri alla luce della sent. n. 19 del 2022 della Corte costituzionale, per g.c. dell'Osservatorio AIC

2. Marina Roma, La Corte costituzionale su reddito di cittadinanza e reddito di inclusione. Bisogni primari degli individui e limite delle risorse disponibili, negli Studi 2022/II di questa Rivista

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra L. E. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) con ordinanza del 10 luglio 2020, iscritta al n. 180 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di costituzione di L. E. e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 9 novembre 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per L. E., Mauro Sferrazza per l’INPS e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 10 gennaio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di cittadinanza (di seguito, anche: Rdc), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».

Il giudizio a quo è stato promosso da L. E., cittadina nigeriana, con ricorso depositato il 13 gennaio 2020 ai sensi dell’art. 702-bis del codice di procedura civile. La ricorrente ha chiesto l’accertamento del carattere discriminatorio del comportamento dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), tramite diretta applicazione dell’art. 12 della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, oppure previa rimessione della questione di legittimità costituzionale sull’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, «con i conseguenti ordini di cessazione della discriminazione e rimozione degli effetti», oltre alla condanna dell’INPS al pagamento del Rdc e al risarcimento del danno.

Il rimettente riferisce che L. E. ha fatto ingresso in Italia nel 1996 e che era titolare – dal 12 gennaio 2017 – di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, di cui ha chiesto il rinnovo (essendo scaduto il 27 marzo 2019). Il 7 ottobre 2019 L. E. ha presentato domanda di reddito di cittadinanza in forma cartacea, in quanto il sistema informatico dell’INPS non consentiva di procedere agli stranieri che non dichiarassero la titolarità del permesso di lungo periodo o della protezione internazionale. Il 23 ottobre 2019 l’INPS ha ritenuto inammissibile la domanda, in quanto «non è possibile accettare domande cartacee».

Il giudice a quo respinge, in via preliminare, un’eccezione di inammissibilità, osservando che l’azione esperita dalla ricorrente «nelle forme ex art. 28 d.lgs. 150/2011 è un’azione tipica», specificamente prevista per offrire tutela contro qualunque atto discriminatorio.

Il rimettente ricorda poi che lo stesso Tribunale di Bergamo ha sollevato una questione analoga, riguardante il reddito di inclusione, e richiama la motivazione di quell’ordinanza. Sintetizza poi alcune norme del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, precisando che l’unico punto controverso attiene alla titolarità da parte della ricorrente del permesso di soggiorno di lungo periodo, mentre non è contestato il suo possesso di tutti gli altri requisiti previsti per il riconoscimento del reddito di cittadinanza. Il giudice a quo dichiara dunque rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che il reddito di cittadinanza è esplicitamente qualificato «livello essenziale delle prestazioni» e costituisce una «misura […] di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale» (art. 1, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito). Sarebbe dunque finalizzato a dare attuazione ai fondamentali compiti della Repubblica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, proponendosi di assicurare un «livello minimo di sussistenza» e la concreta possibilità di svolgimento della personalità nelle formazioni sociali, in primis quella lavorativa.

Il giudice a quo rileva che, nella sentenza n. 187 del 2010, questa Corte avrebbe affermato che, per valutare l’essenzialità della prestazione, occorre verificare se essa integri un rimedio destinato a soddisfare i bisogni primari inerenti alla tutela della persona umana, rimedio «costituente, dunque, un diritto fondamentale, perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto». Ove si tratti di una provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti finirebbe per violare l’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, come inteso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il rimettente ritiene, in definitiva, che il reddito di cittadinanza sia «riconducibile nell’alveo dei diritti essenziali» e che, dunque, il requisito del permesso di lungo periodo si ponga in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. («anche nelle specifiche forme della tutela della famiglia e del lavoro ex artt. 31 e 38 Cost.»), nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «in tema di principi di eguaglianza e di non discriminazione».

In ogni caso, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse considerato «prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali», la limitazione prevista dalla norma censurata sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. per irragionevolezza. Il rimettente dà atto che il legislatore può circoscrivere la platea dei beneficiari di certe prestazioni sociali, ma la limitazione dovrebbe pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza, che può ritenersi rispettato solo qualora sussista una «ragionevole correlazione» tra la condizione cui è subordinato il beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne definiscono la ratio, cioè tra il requisito posto e le situazioni di bisogno che la provvidenza è volta a fronteggiare (il giudice a quo richiama la sentenza n. 166 del 2018 di questa Corte).

Nel caso di specie, la norma censurata finirebbe per penalizzare, «senza alcuna apprezzabile ragione e anzi in aperto contrasto con l’intento legislativo», «proprio i nuclei familiari più bisognosi», dati i requisiti necessari per ottenere il permesso di lungo periodo. A tale proposito, il rimettente richiama gli argomenti dedotti dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza di rimessione 17 giugno 2019, n. 16164, in materia di “bonus bebè”.

Inoltre, secondo il giudice a quo la norma censurata non si raccorderebbe con l’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in base al quale «[g]li stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno […] sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti».

Infine, quanto al problema dell’«applicazione del diritto alla parità di trattamento sancito dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE» nel godimento delle prestazioni di sicurezza sociale di cui al regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, il rimettente osserva che la possibilità o meno di ricondurre il reddito di cittadinanza alle «prestazioni di disoccupazione» di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera h) del citato regolamento «non condiziona la proposizione della questione di legittimità costituzionale» (sul punto rinvia agli argomenti utilizzati dalla Corte di cassazione nella citata ordinanza n. 16164 del 2019).

Il rimettente solleva conseguentemente questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE, «nella parte in cui esclude dalla prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998».

2.– L’11 gennaio 2021 l’INPS si è costituito nel presente giudizio.

In primo luogo, la parte eccepisce l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto sarebbe errato l’assunto del rimettente secondo il quale l’unica questione controversa nel giudizio a quo sarebbe quella dell’estensione del reddito di cittadinanza agli stranieri privi di permesso di lungo periodo. Non essendo stato dimostrato il possesso degli altri requisiti, l’eventuale accoglimento della questione non condurrebbe al riconoscimento del Rdc in capo alla ricorrente.

Inoltre, l’azione esercitata nel giudizio a quo, ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sarebbe inammissibile in quanto esperibile solo a fronte di un comportamento discriminatorio, non in caso di legittimo diniego della prestazione per assenza di un requisito previsto dalla legge. La motivazione offerta dal rimettente su tale eccezione sarebbe «poco plausibile». Ancora, l’eventuale sentenza di accoglimento non potrebbe rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato tenuto, con la conseguenza che essa non potrebbe condurre a riconoscere il diritto al reddito di cittadinanza in capo alla ricorrente.

La questione sarebbe poi inammissibile perché il rimettente – in assenza di pronunce della Cassazione che la escludano – avrebbe omesso di sperimentare una possibile interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

Passando alla non manifesta infondatezza, la parte riepiloga la normativa in materia e osserva che il reddito di cittadinanza «non è un semplice e mero […] beneficio economico, bensì un più ampio progetto personalizzato», comprendente interventi di sostegno al nucleo familiare e impegni di quest’ultimo funzionali al superamento dello stato di povertà. Il reddito di cittadinanza, ricorda la parte, è condizionato dalla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro e dalla successiva sottoscrizione del “patto per il lavoro”, e non può dunque essere ricondotto «né ad un mero sussidio per l’affrancamento dalla povertà, né ad una prestazione che afferisce ai bisogni primari ed essenziali della persona» (come il diritto alla salute o all’abitazione). La misura non si risolverebbe in una «mera prestazione assistenziale e generalizzata», volta a superare un «mero stato di bisogno», perché, «ove così fosse, il legislatore non ne avrebbe – ad esempio – condizionato l’erogazione alla sottoscrizione – da parte del nucleo familiare – del patto per il lavoro».

L’obiettivo di «affrancamento “mirato”» dalla povertà perseguito dal reddito di cittadinanza dovrebbe indurre a qualificarlo come una prestazione diretta a superare le difficoltà del nucleo familiare già radicato sul territorio italiano, non come uno strumento per creare il radicamento sociale dei nuclei familiari legati stabilmente al territorio.

L’INPS assimila il reddito di cittadinanza al reddito di inclusione e, richiamando la nota del Ministero del lavoro 2 maggio 2018, afferma che anch’esso rientra tra le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione sui servizi sociali, con la conseguenza che la norma che lo istituisce dovrebbe essere letta in combinato disposto con l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», che riserva quelle provvidenze agli stranieri titolari del permesso di lungo periodo, per favorire i soggetti che hanno una maggiore stabilità di residenza nel nostro Paese.

L’INPS osserva che il reddito di cittadinanza non potrebbe essere considerato quale prestazione essenziale e ricorda che la giurisprudenza costituzionale ha censurato il requisito del permesso di lungo periodo in relazione alle provvidenze necessarie per soddisfare bisogni primari dell’individuo, legati a stati di invalidità o a gravi situazioni di urgenza e bisogno, che non verrebbero in rilievo né per l’assegno sociale né per il reddito di cittadinanza.

La parte ritiene poi generici i profili di illegittimità costituzionale riguardanti gli artt. 2, 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE.

In ogni caso, tali questioni sarebbero infondate, in quanto il reddito di cittadinanza si collocherebbe al di fuori dei settori della sicurezza sociale tutelati dal diritto europeo. La direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, limiterebbe al soggiornante di lungo periodo la parità di trattamento in relazione alle prestazioni sociali. Una norma che nega l’accesso al reddito di cittadinanza allo straniero privo di permesso di lungo periodo non sarebbe dunque irragionevole, «stante la stretta correlazione tra l’auspicabile realizzazione del “progetto personalizzato” di cui al patto per il lavoro […] ed un più stabile ed attivo inserimento, in Italia, del cittadino di Paese terzo».

L’INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte, che ha fatto salvo il requisito del permesso di lungo periodo per l’assegno sociale, e sottolinea che, al di là del nucleo dei diritti inviolabili, il legislatore potrebbe richiedere un permesso che attesti «un’attiva partecipazione dello straniero alla vita sociale».

Il reddito di cittadinanza non rientrerebbe nei settori della sicurezza sociale di cui all’art. 3 del regolamento (CE) n. 883/2004 e, dunque, nell’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE. Del resto, poiché l’erogazione del Rdc presupporrebbe una valutazione, anche discrezionale, delle esigenze del nucleo familiare, sarebbe infondata anche la questione basata sulla CDFUE, in quanto essa si applica solo nell’attuazione del diritto europeo, ai sensi del suo art. 51.

Quanto alla violazione del principio di ragionevolezza, lamentata in via subordinata, l’INPS si sofferma sul diverso regime del permesso di lungo periodo rispetto al permesso di lavoro e osserva che la norma censurata sarebbe conforme all’art. 3 Cost., in quanto la differenza fra i due regimi sarebbe «ragionevolmente fondata sul radicamento territoriale del soggetto nel territorio nazionale». In mancanza di tale radicamento, non si potrebbe parlare di una situazione di povertà che spetti all’ordinamento italiano soccorrere, né vi sarebbe la base per attuare il progetto personalizzato.

Non sussisterebbe neppure la violazione dell’art. 38 Cost., in quanto spetterebbe al legislatore contemperare i diritti assistenziali con i limiti della finanza pubblica.

3.– Il 12 gennaio 2021 è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

In primo luogo, l’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità della questione perché il rimettente chiederebbe «una sentenza additiva, che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo proporrebbe di abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo, «reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza continuativa in Italia da almeno due anni». Senonché, una cosa sarebbero i requisiti di residenza, un’altra i requisiti di soggiorno, che sarebbero richiesti anche per i cittadini europei, dovendo questi essere titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente. La difesa erariale rileva che, in base al diritto europeo (art. 11 della direttiva 2003/109/CE), l’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali è limitato ai soggiornanti di lungo periodo, salvo l’ampliamento previsto dalla direttiva 2011/98/UE per determinati settori di sicurezza sociale, settori che non verrebbero in rilievo nel caso di specie. In base alla proposta del rimettente, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, mentre per i cittadini europei ciò non sarebbe sufficiente. Ne conseguirebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». Poiché la soluzione proposta dal giudice a quo non è l’unica configurabile in alternativa a quella censurata, la questione sarebbe inammissibile per invasione della discrezionalità legislativa.

Nel merito l’Avvocatura ritiene le questioni manifestamente infondate.

Il reddito di cittadinanza sarebbe diverso dalle altre prestazioni assistenziali in relazione alle quali questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000: in quei casi «si trattava del riconoscimento di benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona», mentre il Rdc avrebbe una ratio diversa, così come l’assegno sociale, per il quale questa Corte ha ritenuto legittimo il requisito del permesso di lungo periodo con la sentenza n. 50 del 2019. Il reddito di cittadinanza rientrerebbe fra le prestazioni «genericamente di assistenza sociale, mirando a soccorrere situazioni di povertà relativa del nucleo familiare per un periodo di tempo limitato e sulla base di un progetto personalizzato». Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova del radicamento dello straniero nell’ordinamento italiano, in mancanza del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione di povertà che spetti all’ordinamento italiano soccorrere», né vi sarebbe «la base per predisporre e attuare nel tempo il progetto personalizzato». Il Rdc presupporrebbe un radicamento già esistente, non sarebbe lo strumento per crearlo. La norma censurata sarebbe anche volta a scoraggiare il cosiddetto “turismo assistenziale”. A sostegno dell’infondatezza, l’Avvocatura invoca la citata sentenza n. 50 del 2019, riguardante l’assegno sociale. Inoltre, proprio le sentenze della Corte costituzionale che hanno esteso a tutti gli stranieri regolari, a prescindere dal permesso di lungo periodo, diverse prestazioni assistenziali condurrebbero a ritenere ragionevole la richiesta di tale permesso per il reddito di cittadinanza, trattandosi di un diritto «finanziariamente condizionato», che impone un suo bilanciamento con le esigenze finanziarie. Non vi sarebbe, dunque, violazione dell’art. 3 Cost.

L’Avvocatura nega poi che sia violato l’art. 31 Cost., che contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti delle compatibilità finanziarie e sul presupposto che si tratti non della famiglia “in astratto”, bensì della famiglia specificamente riferibile alla società italiana». Inoltre, l’art. 31 lascerebbe discrezionalità al legislatore e non lo costringerebbe a prevedere proprio quel tipo di misura e a individuarne i requisiti nel senso auspicato dal rimettente.

Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di cittadinanza sia una «prestazione essenziale», giacché esso mira a contrastare una situazione di povertà, «per quanto difficile, comunque compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa».

Sarebbe non fondata anche la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. In primo luogo, la Carta si applica solo se la materia rientra nella competenza dell’Unione europea (art. 51, paragrafo 2, CDFUE) e il reddito di cittadinanza sarebbe estraneo all’ambito di applicazione della direttiva 2011/98/UE. Inoltre, la scelta di limitare la prestazione de qua ai soli stranieri lungo soggiornanti sarebbe in linea con il diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE.

Infine, non sarebbe violato neppure l’art. 14 CEDU. L’Avvocatura richiama la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 aprile 2014, Dhahbi contro Italia (riguardante l’assegno al nucleo familiare), osservando che il Rdc è una misura assistenziale «che viene erogata a totale carico del bilancio pubblico, senza che i beneficiari effettuino alcun versamento di contributi», sicché la norma censurata non comporterebbe una discriminazione in base alla sola nazionalità.

4.– Il 12 gennaio 2021 L. E. si è costituita nel presente giudizio.

La parte argomenta sia sulla prima questione sollevata, cioè, sul «carattere “essenziale e primario” della prestazione», sia sulla seconda, riguardante la ritenuta assenza di ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di lungo periodo e la ratio del reddito di cittadinanza.

Quanto al primo punto, L. E. nega che la preclusione di limitazioni basate sulla cittadinanza, per le prestazioni volte a soddisfare bisogni primari, valga solo per le misure riguardanti l’invalidità: la preclusione sarebbe legata, invece, al concetto stesso di «servizio sociale», come emergerebbe dalle sentenze di questa Corte n. 281 e n. 44 del 2020. I riferimenti costituzionali posti a fondamento dei diritti sociali andrebbero oltre la sola salute psicofisica. Quello che conta sarebbe la «copertura costituzionale» del bisogno al quale il Rdc si rivolge. La parte richiama gli artt. 3, secondo comma, e 35 Cost., in quanto il reddito di cittadinanza mirerebbe ad attuare il diritto al lavoro e a far uscire l’individuo dalla povertà e dall’emarginazione. Inoltre, il Rdc sarebbe destinato ai nuclei familiari in condizione di povertà assoluta e, a tale proposito, la parte ricorda i requisiti economici del reddito di cittadinanza e la soglia di povertà assoluta calcolata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Del resto, il preambolo del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, definisce il reddito di cittadinanza come «misura utile ad assicurare un livello minimo di sussistenza». Il diritto di uscire dalla condizione di povertà assoluta godrebbe di tutela costituzionale, ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost. I bisogni primari e la pari dignità sociale andrebbero tutelati anche con riferimento agli stranieri, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’art. 3 Cost. si applicherebbe anche agli stranieri quando si tratti di garantire i diritti fondamentali.

Quanto al secondo punto, la parte mette in evidenza la contraddizione tra il requisito del permesso di lungo periodo, che presuppone un reddito pari almeno all’assegno sociale, e il bisogno cui si intende rimediare, ossia la povertà. Il reddito di cittadinanza sarebbe limitato a quegli stranieri che, dopo averla superata, siano ricaduti in una situazione di povertà, ciò che non avrebbe «alcuna logica spiegazione».

Ulteriore contraddizione riguarderebbe la funzione sociale del Rdc. Questo sarebbe un «reddito “per” la cittadinanza, cioè un percorso verso “l’inserimento sociale” […] di soggetti che tale inserimento non hanno ancora conseguito», e dunque non un «corrispettivo» di un inserimento già ottenuto ma un mezzo per accedervi. A differenza dell’assegno sociale, il reddito di cittadinanza sarebbe una prestazione diretta a raggiungere un obiettivo preciso, ciò che ne spiegherebbe la temporaneità. Tale funzione risulterebbe dalla necessaria sottoscrizione del “patto per il lavoro” o del “patto per l’inclusione sociale”, patti che comprendono obblighi indispensabili per chi non ha raggiunto un adeguato inserimento sociale.

Le considerazioni della sentenza n. 50 del 2019 non sarebbero applicabili al reddito di cittadinanza. Se il permesso di lungo periodo comprova un inserimento stabile e attivo nella società, allora esso sarebbe sintomatico di una condizione che non giustifica l’accesso al Rdc, sicché sarebbe irragionevole richiedere congiuntamente l’inserimento stabile e attivo e la situazione di emarginazione.

L’integrazione degli stranieri sarebbe un obiettivo fondamentale dell’Unione europea, a fini di coesione sociale e di crescita economica, e il percorso di integrazione comincerebbe in una fase precedente rispetto al permesso di lungo periodo e già in quella fase dovrebbe essere supportato.

Ancora, se fosse plausibile richiedere un titolo di soggiorno indice di una «relativa stabilità» sul territorio nazionale, occorrerebbe considerare che il radicamento territoriale già è garantito dal requisito della residenza decennale in Italia. Tale requisito, in particolare, confermerebbe che l’esclusione dello straniero sarebbe collegata solo alla mancanza di reddito.

Inoltre, il carattere condizionale della prestazione escluderebbe la sua “esportabilità” e garantirebbe il collegamento con il territorio nel corso dell’erogazione. L. E. osserva comunque che un radicamento territoriale deriverebbe anche dal fatto che, salvo casi eccezionali, il reddito di cittadinanza richiederebbe che vi sia stata in passato una prestazione lavorativa, elemento decisivo ai fini del radicamento.

La parte ritiene violato anche l’art. 31 Cost., in quanto il numero dei familiari incide sulle possibilità di accesso al Rdc e sul suo importo, mentre per gli stranieri si innescherebbe un «circolo vizioso ancora più illogico», giacché più alto è il numero dei familiari, più alto è il reddito necessario per conseguire il permesso di lungo periodo e, dunque, più difficile sarebbe ottenere il reddito di cittadinanza.

Quanto alla possibile applicazione dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, secondo L. E. il rimettente avrebbe dovuto approfondire tale profilo, in quanto l’eventuale contrasto della norma censurata con l’art. 12 implicherebbe l’irrilevanza delle questioni sollevate, in conseguenza della diretta applicabilità della norma europea. La parte afferma peraltro di non avere interesse ad una pronuncia di questo tipo e, dunque, non formula le proprie conclusioni in tal senso.

L. E. illustra poi un diverso profilo – non considerato dal rimettente – riguardante il preteso contrasto fra l’esclusione degli stranieri titolari del permesso unico di lavoro dal Rdc e l’art. 12, paragrafo 1, lettera h), della direttiva 2011/98/UE, che assicura a tali stranieri parità di trattamento in relazione ai «servizi di consulenza forniti dai centri per l’impiego».

Secondo la parte, infine, dall’esame della disciplina vigente in altri Paesi europei emergerebbe che in nessuno le prestazioni di inclusione sociale sarebbero condizionate «a un titolo di soggiorno che manifesti già tale inclusione».

5.– Il 14 ottobre 2021 l’INPS ha depositato una memoria integrativa in cui argomenta ulteriormente le proprie conclusioni.

Anche L. E. ha depositato, il 19 ottobre 2021, una memoria integrativa a ulteriore sostegno delle conclusioni già formulate.

Considerato in diritto

1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 180 del 2020, il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di cittadinanza (di seguito, anche: Rdc), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».

Il rimettente solleva un primo ordine di questioni e, in via subordinata, una seconda questione. In primo luogo, la norma censurata sarebbe costituzionalmente illegittima «nella parte in cui esclude dalla prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998», per violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione («anche nelle specifiche forme della tutela della famiglia e del lavoro ex artt. 31 e 38 Cost.»), nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «in tema di principi di eguaglianza e di non discriminazione», in quanto, costituendo il reddito di cittadinanza una prestazione essenziale diretta a soddisfare bisogni primari della persona umana, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nella sua concessione sarebbe costituzionalmente illegittima.

Con la seconda censura il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse ritenuto «prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali» della persona, non esisterebbe una ragionevole correlazione tra il requisito e le situazioni di bisogno per le quali la prestazione è prevista.

2.– Come esposto nel Ritenuto in fatto, una delle parti costituite in giudizio e il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel medesimo, hanno sollevato diverse eccezioni di inammissibilità.

2.1.– In primo luogo, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) rileva l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nel giudizio a quo non sarebbe stato dimostrato il possesso da parte della ricorrente degli altri requisiti del reddito di cittadinanza.

L’eccezione non è fondata. Il rimettente afferma espressamente che «risulta agli atti (e comunque non è stato specificamente contestato dall’INPS) il possesso da parte della ricorrente di tutti gli altri requisiti previsti per il […] riconoscimento [del reddito di cittadinanza]». Tale affermazione è sufficiente ai fini della motivazione sulla rilevanza, tenuto conto anche del carattere “esterno” del controllo operato da questa Corte sul punto (ex multis, sentenze n. 183 del 2021, n. 44 del 2020 e n. 128 del 2019).

2.2.– In secondo luogo, l’INPS eccepisce la scarsa plausibilità della motivazione con cui il rimettente ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’azione anti-discriminazione esercitata dalla ricorrente, azione che – secondo la parte – non sarebbe consentita in presenza di un diniego dovuto all’assenza di un requisito previsto dalla legge. L’eventuale sentenza di accoglimento, inoltre, non potrebbe rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato tenuto, ragion per cui essa non potrebbe condurre a riconoscere il reddito di cittadinanza in capo alla ricorrente.

Neppure tale eccezione è fondata. Nell’ordinanza di rimessione il giudice a quo ha osservato che l’azione esperita dalla ricorrente «nelle forme ex art. 28 d.lgs. 150/2011 è un’azione tipica», specificamente prevista per offrire tutela contro «qualunque atto discriminatorio oggettivamente pregiudizievole», con possibilità per il giudice di adottare, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti dell’atto discriminatorio. Tale motivazione, benché stringata, è sufficiente e plausibile, anche considerando il fatto che più volte questa Corte ha deciso nel merito questioni originate da azioni anti-discriminazione proposte contro atti applicativi di una norma legislativa (sentenze n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 119 del 2015).

Inoltre, se è vero che una sentenza di accoglimento non può rendere a posteriori illecita una condotta che tale non era al momento in cui è stata tenuta, ciò è ininfluente nel caso di specie perché nel giudizio a quo la ricorrente non ha chiesto solo un risarcimento del danno ma, in primis, la cessazione della condotta discriminatoria con conseguente riconoscimento del reddito di cittadinanza. Comunque, la rilevanza non coincide con l’utilità concreta – per una parte del giudizio a quo – della pronuncia di accoglimento, essendo invece sufficiente che essa eserciti un’influenza sul percorso argomentativo del giudice rimettente (ex multis, sentenze n. 202 e n. 157 del 2021).

2.3.– Ancora, secondo l’INPS le questioni sarebbero inammissibili perché il rimettente – in assenza di pronunce della Cassazione che lo impediscano – avrebbe omesso di sperimentare una possibile interpretazione adeguatrice della disposizione censurata. Peraltro, l’INPS non indica quale sarebbe la possibile interpretazione conforme a Costituzione. In effetti, essa risulta preclusa dal tenore letterale della disposizione, che limita chiaramente il beneficio ai soli stranieri titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo. Si può dunque ribadire il «principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione» (sentenza n. 221 del 2019; più di recente, sentenza n. 102 del 2021).

Pertanto, nemmeno tale eccezione è fondata.

2.4.– Infine, l’INPS eccepisce la genericità delle questioni sollevate per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE) e degli artt. 2 e 38 Cost.

Per quanto riguarda l’art. 14 CEDU, l’eccezione non è fondata. Il rimettente cita alcune frasi contenute nella sentenza di questa Corte n. 187 del 2010, che ha accolto una questione sollevata, in riferimento all’art. 117, primo, comma, in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, sull’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui tale norma subordinava al requisito della carta di soggiorno la concessione agli stranieri dell’assegno mensile di invalidità. Anche a questo riguardo, dunque, la motivazione, benché sintetica, può essere considerata sufficiente ai fini dell’illustrazione della non manifesta infondatezza di tale questione.

L’eccezione è, invece, da accogliere con riferimento alle questioni basate sugli artt. 20 e 21 CDFUE. Tali disposizioni sono semplicemente menzionate nell’ordinanza di rimessione, senza alcun argomento aggiuntivo. In particolare, il rimettente non illustra il presupposto di applicabilità della CDFUE, cioè la circostanza che le norme sul reddito di cittadinanza rappresentino «attuazione del diritto dell’Unione» ai sensi del suo art. 51: il che implica l’inammissibilità delle censure basate sulla Carta (da ultimo, sentenze n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021, n. 278 del 2020).

Ancora, l’eccezione non è fondata con riferimento all’art. 2 Cost. Il rimettente espone argomenti chiaramente diretti a sostenere che il reddito di cittadinanza soddisferebbe un diritto inviolabile dello straniero e consentirebbe lo svolgimento della sua personalità nelle formazioni sociali (in primis, quella lavorativa), sicché la motivazione risulta sufficiente.

L’eccezione è fondata con riferimento anche all’art. 38 Cost., che è menzionato solo di sfuggita ed è, fra l’altro, collegato dal rimettente alla «tutela […] del lavoro», anziché all’assistenza sociale, con la conseguenza che la motivazione sulla non manifesta infondatezza risulta carente.

Vanno pertanto dichiarate manifestamente inammissibili per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza le questioni sollevate per violazione degli artt. 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE.

2.5.– Pur in assenza di eccezione sul punto, va dichiarata manifestamente inammissibile anche la questione ex art. 31 Cost., poiché anche tale parametro è menzionato solo di sfuggita, e il rimettente si limita a citarne l’oggetto («tutela della famiglia»), senza spendere alcun argomento per illustrare la sua violazione da parte della norma censurata.

2.6.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, solleva un’eccezione di inammissibilità delle questioni, osservando che il rimettente chiederebbe una sentenza additiva, a seguito della quale il reddito di cittadinanza dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, ciò che invece non sarebbe sufficiente per i cittadini europei. Questo determinerebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi».

L’eccezione non è fondata. A parte l’erroneo riferimento alla residenza biennale (il requisito necessario per tutti per accedere al reddito di cittadinanza è la residenza decennale, non biennale, in base all’art. 2, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito), occorre rilevare, da un lato, che il rimettente non mira ad “aprire” il riconoscimento del reddito di cittadinanza a tutti gli stranieri in possesso della residenza richiesta, ma agli stranieri «titolari di permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998»; dall’altro, che per i richiedenti cittadini dell’Unione europea è sufficiente la residenza decennale (come per gli italiani), in base all’interpretazione corrente dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.

3.– Venendo al merito, è opportuno sintetizzare preliminarmente la disciplina del reddito di cittadinanza. Il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che lo istituisce, lo definisce «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale […]», e lo qualifica «livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili» (art. 1, comma 1). Il citato decreto-legge è stato oggetto di modifiche (non significative ai fini del presente giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024).

Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che costituisce un’«integrazione del reddito familiare» fino alla soglia di 6000 euro annui (incrementata a seconda dei componenti del nucleo familiare), alla quale si può aggiungere un’integrazione del reddito dei nuclei familiari locatari di un’abitazione, fino ad un massimo di 3360 euro annui (art. 3, comma 1). Il beneficio è riconosciuto «per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi» e può essere rinnovato, previa sospensione di un mese prima di ciascun rinnovo (art. 3, comma 6).

La sua erogazione «è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, […] nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale»» (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l’impiego e che «deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8, lettera b», che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del lavoro e l’accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per l’inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti per il contrasto della povertà (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di due “canali” comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal centro per l’impiego può essere inviato al servizio comunale e viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l’inclusione sociale comprende anche gli «interventi per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13).

Nell’ambito di entrambi i Patti, «il beneficiario è tenuto ad offrire […] la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con le altre attività del beneficiario e comunque non inferiore al numero di otto ore settimanali […]» (art. 4, comma 15).

Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un’accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d’accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b). Per altro verso, come visto, il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni).

L’art. 12 del citato decreto-legge detta le disposizioni finanziarie per l’attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un limite legislativo di spesa. Il comma 1 determina la provvista finanziaria per l’erogazione del Rdc, autorizzando la spesa di 5.907 milioni di euro per il 2019, di 7.167 milioni per il 2020, di 7.391 milioni per il 2021 e di 7.246 milioni annui a decorrere dal 2022, con imputazione ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del lavoro, denominato «Fondo per il reddito di cittadinanza». Tale autorizzazione di spesa è stata incrementata dapprima dall’art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), poi, per la somma di 1.000 milioni di euro limitatamente all’anno 2021, dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 21 maggio 2021, n. 69, e infine, sempre per il 2021 per la somma di 200 milioni di euro, dall’art. 11, comma 13, del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215. Per gli anni 2022 e seguenti l’autorizzazione di spesa di cui all’art. 12, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, è stata incrementata dall’art. 1, comma 73, della legge n. 234 del 2021, per una somma di poco superiore ai 1.000 milioni all’anno.

L’art. 12, comma 9, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, prevede che, «[i]n caso di esaurimento delle risorse disponibili per l’esercizio di riferimento ai sensi del comma 1, […] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro trenta giorni dall’esaurimento di dette risorse, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio».

4.– La prima questione, sollevata con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., non è fondata.

Questa Corte ha già esaminato questioni concernenti il reddito di cittadinanza, con riferimento all’art. 7-ter, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che prevede la sospensione del beneficio nei confronti del soggetto cui è applicata una misura cautelare personale (sentenze n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020). Nella pronuncia più recente, questa Corte ha rilevato che «la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica. Ciò differenzia la misura in questione da altre provvidenze sociali, la cui erogazione si fonda essenzialmente sul solo stato di bisogno, senza prevedere un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità. Così, ad esempio, per quelle prestazioni che si configurano quali misure di sostegno indispensabili per una vita dignitosa, come la pensione d’inabilità civile […] diretta alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili e alla tutela di bisogni primari della persona […]». La pronuncia richiama anche la pensione di cittadinanza («misura di mero contrasto alla povertà delle persone anziane») e l’assegno sociale («volto a far fronte a un particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza»), osservando che «[p]er tali provvidenze non è prevista la sospensione nel caso di misure cautelari personali». Il reddito di cittadinanza, invece, «non ha natura meramente assistenziale, proprio perché accompagnato da un percorso formativo e d’inclusione che comporta precisi obblighi, il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo».

Già nella sentenza n. 7 del 2021, peraltro, questa Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, là dove limitava gli interventi di contrasto alla povertà a favore dei nuclei familiari aventi come minimo un componente residente in regione da almeno cinque anni continuativi, in quanto le risorse in questione «devono essere utilizzate per la concessione di generici interventi di contrasto alla povertà», «a differenza di quanto è dato riscontrare nella disciplina che ha istituito il fondo per l’anno 2019, che invece, come anche quella relativa alla misura attiva di sostegno al reddito che l’ha preceduto, prevedeva espressamente due componenti, una di carattere economico e una di inclusione sociale; quest’ultima, in particolare, strutturata mediante la sottoscrizione di un patto cui erano obbligatoriamente tenuti (a pena di decadenza dal beneficio economico) i componenti maggiorenni del nucleo familiare». La sentenza continua rilevando che «dal tenore della norma impugnata emerge una soluzione di continuità rispetto al peculiare modello degli interventi che l’hanno preceduta e appare chiara la finalità di destinare le risorse individuate […] a soddisfare un bisogno basilare e immediato dei beneficiari selezionati, genericamente correlato alla loro situazione di povertà, senza la previsione di un progetto di inclusione». Per la Corte era dunque esclusa «la possibilità di distinguerli [gli interventi in questione] dalle prestazioni legate ai bisogni primari della persona». Di qui l’accoglimento della questione, per la mancata «correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la protrazione nel tempo di tale insediamento».

Anche nella sentenza n. 137 del 2021 è rimarcata la «natura meramente assistenziale dell’assegno sociale, che pertanto si differenzia da altre provvidenze, motivate anche da ulteriori finalità, come il già ricordato reddito di cittadinanza, che non ha natura meramente assistenziale, ma anche di reinserimento lavorativo e per tali ragioni legato a più stringenti requisiti, obblighi e condizioni».

Nel caso in esame questa Corte non può che ribadire che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del d.l. n. 4 del 2019).

La conclusione di non fondatezza così raggiunta non esclude che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 38, primo comma, Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla «sopravvivenza dignitosa» e al «minimo vitale» (sentenza n. 137 del 2021). Nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito può tuttavia legittimare questa Corte a intervenire “convertendo” verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale una più complessa misura, come quella oggetto del presente giudizio, cui il legislatore ha assegnato, come visto, finalità prevalentemente diverse, e rispetto alla quale, come si vedrà appresso, il contestato requisito del permesso di lungo periodo non risulta irragionevole.

5.– Non è fondata neppure la questione sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

5.1.– Il parametro interposto è invocato in modo pertinente.

L’art. 14 CEDU – secondo cui «[i]l godimento dei diritti e delle liberta` riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione» – costituisce completamento di altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e può essere invocato solo in collegamento con una di esse (ex multis, sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 luglio 2021, A.M. e altri contro Russia, paragrafo 64; 8 aprile 2014, Dhahbi contro Italia, paragrafo 39).

Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU cui l’art. 14 si collega nel caso di specie, ma – richiamando la sentenza n. 187 del 2010 di questa Corte, che ha accolto una questione sollevata, in riferimento all’art. 117 primo comma, in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sull’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 – implicitamente invoca l’art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione della proprietà. E, poiché il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, prevede un diritto al reddito di cittadinanza (che «è riconosciuto dall’INPS ove ricorrano le condizioni», in base al suo art. 5, comma 3, ma la cui erogazione è poi subordinata all’adesione al percorso personalizzato, come previsto all’art. 4, comma 1), non impropriamente il giudice a quo ha invocato il parametro convenzionale.

5.2.– Questa Corte si è già pronunciata, in più occasioni, sulla conformità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 (là dove subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno) all’art. 14 CEDU. Nella sentenza n. 187 del 2010, in particolare, si è osservato che «[c]iò che dunque assume valore dirimente» è «accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto». Sicché ove «si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo». Questo criterio di giudizio è stato poi ribadito dalle sentenze n. 329 del 2011 e n. 50 del 2019.

In questa prospettiva, le conclusioni sopra raggiunte sulle caratteristiche del reddito di cittadinanza – che non si esaurisce in una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue più ampi obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale – conducono a ritenere non fondata anche la questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

6.– Resta da esaminare la questione sollevata in via subordinata, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. Il giudice a quo ritiene che, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse ritenuto «prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali» della persona, la disposizione censurata sarebbe comunque illegittima per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.

Nemmeno tale questione è fondata, giacché il raffronto fra il requisito prescritto e le finalità perseguite dalla misura non conduce a conclusioni di irragionevolezza della scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.

Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che testimoniano della relativa stabilità della presenza sul territorio, e il suo regime si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante. Più precisamente, in base all’art. 9, commi 1 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), esso può essere chiesto in presenza di quattro requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana». Il permesso è a tempo indeterminato (art. 9, comma 2, t.u. immigrazione) e fra le cause della sua revoca non è prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioè, del reddito e dell’alloggio idoneo).

Ciò precisato, occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di cittadinanza. Come già ampiamente sottolineato, tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un «percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale» (art. 4, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito). Va considerato inoltre che la durata del beneficio economico è di diciotto mesi (permanendo i requisiti), con possibilità di rinnovo (art. 3, comma 6).

L’orizzonte temporale della misura non è dunque di breve periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza.

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, sollevate, in riferimento agli artt. 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2022.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2022.