Sentenza n. 2 del 2022

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

'Presidente: Giancarlo CORAGGIO;

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 670 del codice di procedura penale promosso dal Tribunale ordinario di Bologna, seconda sezione penale, in funzione di giudice dell’esecuzione, nel procedimento penale a carico di A. S., con ordinanza del 9 febbraio 2021, iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione di A. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 novembre 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Maila Catani per A. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 23 novembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Bologna, sezione seconda penale, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 670 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lettera a), e 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni».

1.1.– Il giudice a quo si trova a decidere su un incidente di esecuzione proposto da un detenuto, che si duole in sostanza dell’illegittimità della sentenza, risalente al 1998, con la quale gli era stata applicata su richiesta, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., la pena di due anni di reclusione e di una multa per il delitto di traffico di sostanze stupefacenti, qualificato come fatto di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). La pena era stata condizionalmente sospesa; ma il beneficio era stato revocato nel 2020, e il pubblico ministero aveva conseguentemente emesso ordine di esecuzione della pena medesima.

Più in particolare, secondo quanto espone il giudice a quo, il ricorrente fu arrestato nel luglio 1997 per il reato in questione. Trattandosi di straniero sprovvisto di documenti di riconoscimento, la sua dichiarazione di minore età non fu ritenuta credibile, sicché egli fu trattenuto in custodia cautelare in un istituto penitenziario per maggiorenni. In esito a una perizia ordinata dalla locale Procura per i minorenni, emerse che il suo sviluppo osseo era compatibile con la maggiore età. Nel febbraio 1998, il Tribunale di Bologna pronunciò la sentenza di applicazione della pena di cui si è detto. Tornato in libertà, il soggetto in questione reperì e consegnò al difensore i propri documenti, rilasciati dallo Stato di provenienza, dai quali risultava essere nato nel dicembre 1979. Conseguentemente, il difensore propose ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento, assumendone la nullità per violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni, essendo l’imputato ancora minorenne all’epoca dei fatti. Nel gennaio 1999 il ricorso fu tuttavia dichiarato inammissibile, e la sentenza di applicazione della pena divenne così irrevocabile.

A molti anni di distanza, nel gennaio 2020, il beneficio della sospensione condizionale della pena originariamente concesso è stato revocato, per effetto della commissione di altri reati da parte dell’imputato nei cinque anni successivi dalla sentenza; e il pubblico ministero, previo provvedimento di cumulo, ha emesso ordine di esecuzione della pena per oltre tre anni di detenzione complessivi, comprendente anche la pena di due anni di reclusione e la multa applicate nella sentenza di cui ora il ricorrente si duole.

Con istanza manoscritta fatta pervenire dal penitenziario nel luglio 2020, riferisce il rimettente, il condannato ha chiesto testualmente il «rifacimento del processo e lo scalaggio dei due anni dal cumulo n. 773/18 SIEP finché non avrò un giusto processo dal Trib. dei minori». Qualificata l’istanza come questione sul titolo esecutivo ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione ha sollevato, d’ufficio, la predetta questione di legittimità costituzionale, ritenuta rilevante ai fini della decisione.

1.2.– Il giudice a quo osserva, anzitutto, che il dato letterale dell’art. 670 cod. proc. pen. consente al giudice dell’esecuzione di accertare la mancanza del titolo esecutivo, ovvero la sua non esecutività. Tali formule sono state tradizionalmente interpretate dalla giurisprudenza come riferite alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’esecuzione, escludendosi invece ogni rilievo alle «nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza, con la sola eccezione dei vizi che interferiscono con la formazione del giudicato, come ad esempio quelli attinenti […] alla rituale notifica all’imputato dell’estratto contumaciale o che siano in grado per tale via di riflettersi sul titolo, avendo compromesso la previa ed autonoma facoltà d’impugnazione riconosciuta al difensore» (è citata, tra l’altro, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 16 luglio 2019, n. 31854). Ciò rifletterebbe l’idea dell’intangibilità del giudicato, a sua volta funzionale all’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, che si porrebbe come «argine alla perpetua rivedibilità dell’assetto cristallizzato nella res iudicata».

Il giudice a quo sottolinea, peraltro, come la giurisprudenza penale più recente, anche per impulso delle sentenze della Corte EDU e di questa stessa Corte, abbia progressivamente ampliato gli spazi per un controllo del giudice dell’esecuzione sulla legalità del giudicato e, dunque, del titolo esecutivo, attraverso un percorso «ispirato dall’esigenza di non lasciare mai senza rimedio l’illegalità – lato sensu intesa – della condanna o del trattamento sanzionatorio, seppur cristallizzati dalla res iudicata»; il che comporterebbe «un concettuale superamento del “dogma” del giudicato, richiedendo una sua flessibilizzazione (o cedevolezza) rispetto a violazioni sostanziali e procedurali che attingono i fondamentali diritti dell’imputato».

Cionondimeno, nel caso di specie l’art. 670 cod. proc. pen. non consentirebbe di rilevare la nullità assoluta pur verificatasi nel giudizio di merito, stante l’attuale orientamento della giurisprudenza che esclude la conoscibilità da parte del giudice dell’esecuzione delle nullità verificatesi nel corso del procedimento.

1.3.– Tale soluzione, tuttavia, appare al giudice a quo di dubbia tenuta costituzionale.

Dopo aver evidenziato le peculiarità della disciplina del processo minorile di cui al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), il rimettente sottolinea come la competenza funzionale del tribunale per i minorenni costituisca un indefettibile presidio a garanzia delle specifiche esigenze di tutela del minore, aventi caratura tanto costituzionale – come riconosciuto da plurime sentenze di questa Corte – quanto sovranazionale, come attestato in particolare da varie fonti internazionali. A presidio delle esigenze di tutela del minore, inoltre, l’ordinamento prevede che, in caso di dubbio sull’età effettiva dell’indagato anche dopo gli accertamenti di rito, la minore età debba essere presunta (art. 8 d.P.R. n. 448 del 1988).

Ancora, il rimettente sottolinea come la competenza del tribunale per i minorenni sia assolutamente inderogabile, anche in caso di connessione di procedimenti relativi a coimputati maggiorenni (artt. 12 e 14 cod. proc. pen.), ovvero di reati di competenza del giudice di pace, o di reati continuati commessi prima e dopo la maggiore età. Ciò in relazione alla specificità del sistema processuale previsto per i minorenni, «caratterizzato da istituti propri e da finalità diverse rispetto a quello previsto per gli imputati maggiorenni». Da un lato, infatti, l’interesse superiore del minore assurgerebbe qui a canone ermeneutico primario cui informare l’intera disciplina processuale; e, dall’altro, sarebbero ivi previste possibilità di definizione alternativa del procedimento – come l’irrilevanza penale del fatto, la sospensione del processo e messa alla prova, le sanzioni alternative – in termini sconosciuti al processo ordinario, o comunque entro limiti assai più ampi di quanto non valga per gli imputati maggiorenni, restando in ogni caso preclusa all’imputato minorenne la possibilità di accedere al patteggiamento.

Lo spartiacque tra i due sistemi, tanto diversi nelle finalità ispiratrici e nella loro concreta struttura, sarebbe identificato dal legislatore dalla minore o maggiore età dell’imputato al momento del fatto di reato.

Nel caso di specie, l’accertamento della violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni sarebbe invero rilevabile ictu oculi anche solo dall’esame del certificato penale dell’imputato, oltre che del suo permesso di soggiorno, dai quali si evince che egli sarebbe nato nel dicembre 1979. Tali risultanze documentali sarebbero, d’altronde, assai più affidabili rispetto a quelle della perizia sullo sviluppo osseo a suo tempo effettuata, come attestato dalla letteratura scientifica in argomento nonché dalla circolare del Ministero dell’interno del 9 luglio 2007, n. 17272/7.

Da tutto ciò deriverebbero plurimi profili di illegittimità, processuali e sostanziali, della sentenza oggetto del procedimento di esecuzione, emessa da un giudice radicalmente incompetente e nel quadro di un procedimento – il patteggiamento – in radice non previsto nel procedimento penale minorile, nell’ambito del quale l’imputato non sarebbe stato legalmente in grado di prestare un valido consenso all’applicazione della pena, e che lo ha sottratto al complessivo sistema processuale di favore previsto per i minorenni.

1.4.– In punto di rilevanza, il rimettente osserva che, dall’eventuale accoglimento della questione, discenderebbe il potere dello stesso giudice a quo di rilevare la nullità per violazione della competenza funzionale di cui sopra, con esito favorevole all’interessato, sia sotto il profilo della non eseguibilità della sentenza e della conseguente riduzione del quantum di pena da eseguire in ragione del provvedimento di cumulo, sia sotto il profilo della possibile riapertura del processo dinanzi al giudice competente, con la connessa possibilità di accedere a tutto il compendio di istituti di favore previsti nel rito minorile.

Né, in senso contrario, potrebbe essere fatto valere il fatto che il vizio di incompetenza funzionale in oggetto sia già stato (inutilmente) dedotto con ricorso per cassazione, posto che il pronunciamento del giudice di legittimità «non pare costituire una preclusione processuale rispetto al giudizio in sede di esecuzione». La Corte di cassazione, infatti, pronunciandosi per l’inammissibilità del ricorso, non sarebbe entrata nel merito, «limitandosi a sostenere che la scelta del rito contenga implicitamente una rinuncia a far valere il vizio di incompetenza». Da un lato, infatti, l’imputato non avrebbe potuto esprimere valido consenso al rito alternativo del patteggiamento; dall’altro lato, perdurerebbe l’interesse dell’istante all’accertamento della nullità; infine, l’interessato avrebbe offerto materiale probatorio ulteriore rispetto ai documenti prodotti con il ricorso per cassazione, attestante la sua reale data di nascita.

Né sarebbe possibile esaminare la doglianza dell’interessato con una domanda di revisione, dal momento che la situazione in esame non corrisponderebbe ad alcuna delle ipotesi previste dagli artt. 629 e seguenti cod. proc. pen., e che comunque la revisione mirerebbe ad accertare la sussistenza di sopravvenuti elementi tali da condurre al proscioglimento dell’interessato, diversamente dal caso odierno, in cui non è prevedibile l’esito del giudizio dinanzi al competente tribunale per i minorenni. Sarebbe, invece, il giudizio di esecuzione quello più confacente alla situazione dedotta, in cui si discute della radicale nullità del titolo esecutivo.

1.5.– La questione sarebbe, altresì, non manifestamente infondata.

1.5.1.– A essere violato, in primo luogo, sarebbe l’art. 3 Cost., in ragione dell’assoggettamento alla medesima disciplina di situazioni non assimilabili, quali le ipotesi di nullità per violazione di norme sulla competenza maturate nel giudizio per i maggiorenni e la nullità sulla violazione della competenza funzionale stabilita per i minorenni dall’art. 3 del d.P.R. n. 448 del 1988.

D’altra parte, il principio di intangibilità del giudicato, funzionale alla tutela della ragionevole durata del processo e del divieto del ne bis in idem a garanzia dell’imputato, si atteggerebbe diversamente a seconda che ci si trovi in presenza di irregolarità formali legate all’incompetenza del giudice maturate all’interno di procedimenti “ordinari”, o di irregolarità che sottraggano il minore alla competenza del tribunale per i minorenni. In tale secondo caso l’incompetenza si riverbererebbe sull’intero impianto processuale e sostanziale della decisione resa. Ciò perché l’aggiramento della procedura propria del minore lederebbe i diritti costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuti all’imputato minorenne, alla cui tutela il processo minorile è preposto; e perché verrebbe precluso al minore l’accesso a istituti quali il perdono giudiziale e l’applicazione della specifica circostanza attenuante della minore età prevista all’art. 98 cod. pen., così da far sospettare di illegalità manifesta anche il trattamento sanzionatorio.

Alla luce anche della rilevata non omogeneità delle situazioni sostanziali sottese e degli interessi costituzionali in gioco, quali la tutela del minore (art. 31, secondo comma, Cost.) e la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), la parificazione della nullità in esame alle altre, operata dalla norma censurata, esprimerebbe dunque una inadeguata ponderazione della scelta legislativa, risultando intrinsecamente arbitraria, sproporzionata e manifestamente irragionevole.

1.5.2.– Un secondo motivo di censura è incentrato sulla violazione dell’art. 10 Cost., «laddove prevede che l’ordinamento giuridico italiano si debba conformare alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute», espressive del principio della tutela del minore. Il che sarebbe dimostrato dalle numerose fonti in materia, quali la Dichiarazione dei diritti del bambino adottata nel 1924, la Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo adottata dalle Nazioni Unite nel 1959, le cosiddette “Regole di Pechino” del 1985 e la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R (87) 20, i cui principi hanno orientato anche il legislatore statale, la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, adottata a New York dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata con legge 27 maggio 1991, n. 176, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010.

Tali fonti internazionali non farebbero che attestare l’esistenza, nel diritto internazionale consuetudinario, di una serie di principi generali sulla tutela del minore, quali «la necessità che il minore sia giudicato da un’autorità competente e specializzata», secondo un rito funzionale al suo interesse superiore, e che tenga conto della sua condizione, con il minimo ricorso alla carcerazione e con strumenti di fuoriuscita dal processo per evitarne l’effetto stigmatizzante. La disposizione censurata consentirebbe invece l’aggiramento delle tutele ivi previste «attraverso lo “scudo” del giudicato», così che autorizzare l’esecuzione della pena pronunciata da un giudice incompetente a giudicare chi all’epoca dei fatti era minorenne contrasterebbe con l’effettività delle tutele del diritto internazionale.

1.5.3.– Sarebbero inoltre violati gli artt. 13 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 5 CEDU, «laddove le citate norme affermano il principio di inviolabilità della libertà personale e individuano criteri di legalità della detenzione a livello costituzionale e convenzionale».

L’art. 13 Cost., nella parte in cui stabilisce che non è consentita alcuna forma di detenzione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, affermerebbe implicitamente che la legalità della detenzione vada valutata anche sotto il profilo della legalità della pronuncia di condanna, in modo che l’illegalità di quest’ultima necessariamente si riverberi sulla legalità della detenzione. Sebbene una certa dose di fallibilità del giudizio sia ineliminabile, l’inviolabilità della libertà personale non dovrebbe poter consentire l’esecuzione di un provvedimento ictu oculi affetto da nullità radicale.

Nel medesimo senso sarebbe orientato anche l’art. 5 CEDU, allorché stabilisce che la privazione della libertà personale non possa considerarsi conforme alla Convenzione se non nei modi previsti dalla legge e nei casi ivi testualmente indicati. Tra questi, alla lettera a) del paragrafo 1, è prevista la condizione che il condannato sia «detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente». Nel caso Yefimenko contro Russia (sentenza 12 febbraio 2013), la Corte EDU avrebbe accertato la violazione della disposizione convenzionale in esame per via del fatto che l’organo giudicante che aveva emesso la condanna a pena detentiva, pur avendo in astratto la competenza sul caso, aveva seduto in una composizione diversa da quella prevista per legge. Si tratterebbe di un’incompetenza che, nell’ordinamento italiano, rappresenterebbe un vizio attinente alle condizioni di capacità del giudice e alla composizione dei collegi, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., ossia una nullità che si realizza anche in caso di violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni.

Lo stesso art. 5 CEDU, al suo paragrafo 4, statuisce anche il diritto del soggetto privato della libertà personale di fare ricorso a un tribunale che possa decidere sulla «legalità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale». L’art. 670 cod. proc. pen., nel limitare il sindacato del giudice dell’esecuzione alla mera verifica dell’esistenza del titolo o alla sua definitività, opererebbe, secondo il rimettente, una scelta che pare sacrificare sull’altare del giudicato la libertà personale del condannato e il suo diritto a far accertare la legalità della propria detenzione. Ciò, anche in ipotesi in cui l’illegalità per incompetenza del giudice sia talmente grave e manifesta da minare alla radice l’atto della cui esecuzione si tratta.

1.5.4.– Sarebbe infine violato l’art. 25, primo comma, Cost., posto che l’art. 670 cod. proc. pen. consentirebbe l’eseguibilità di una pena fondata su una sentenza emessa in violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni, ossia del solo giudice naturale del minore.

1.6.– I dubbi di legittimità costituzionale così formulati non sarebbero superabili ricorrendo a un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 670 cod. proc. pen., il quale circoscrive in modo preciso i limiti del sindacato del giudice dell’esecuzione, abilitato a valutare anche nel merito la sola osservanza delle norme sull’irreperibilità, con previsione di carattere eccezionale. Né il rimettente ritiene di poter ricondurre la fattispecie della nullità rilevante nel caso a quo alla ipotesi di «mancanza» del titolo, con un’assimilazione tra nullità radicale e inesistenza della pronuncia.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque, non fondate.

Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che, come riconosciuto in plurime pronunce della Corte di cassazione, il giudice dell’esecuzione può solo dichiarare ineseguibile la sentenza o revocarla ai sensi degli artt. 669 e 673 cod. proc. pen., mentre l’annullamento sarebbe riservato al giudice dell’impugnazione e rimarrebbe così precluso dalla formazione del giudicato.

Solo nelle eccezionali evenienze della mancanza dei requisiti essenziali della sentenza, quali «la provenienza da un organo investito del potere giurisdizionale penale, l’esternazione in forma scritta, l’adozione nei confronti di una persona in vita e assoggettabile alla giurisdizione penale», o dell’applicazione di una pena illegale perché più grave di quella prevista per legge, il giudice dell’esecuzione sarebbe tenuto a rilevare l’inesistenza giuridica della sentenza, nonostante la formazione del giudicato (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 4 febbraio 2009, n. 5998).

Tra i casi di inesistenza rientrerebbe, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, la sentenza emessa nei confronti di un minore infraquattordicenne, non imputabile ai sensi dell’art. 97 del codice penale, in ragione dell’impossibilità di costituire ab initio un valido rapporto processuale. Tale ipotesi di inesistenza, tuttavia, sarebbe rilevabile dal giudice dell’esecuzione a condizione che la circostanza della non imputabilità del minore infraquattordicenne risulti accertata o, comunque, evidente dagli atti del giudizio di cognizione (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 4 dicembre 2018-2 gennaio 2019, n. 35; sezione prima penale, sentenza 20 maggio 2014, n. 31652). Qualora, invece, gli elementi idonei a comprovare l’età del condannato al momento dei fatti siano sopraggiunti al giudicato, l’unico rimedio disponibile sarebbe la revisione del processo ex art. 630, lettera c), cod. proc. pen., in combinato disposto con gli artt. 631 e 529 cod. proc. pen. (è citata Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 marzo 2017, n. 28627).

Nel diverso caso della condanna pronunciata nei confronti di un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni da un tribunale ordinario anziché dal tribunale per i minorenni, il vizio non sarebbe comparabile, per gravità, a quello che si produce in caso di minore non imputabile e non giustificherebbe un analogo trattamento in punto di rilevabilità da parte del giudice dell’esecuzione, specie laddove la minore età sia stata rappresentata in corso di giudizio ed abbia formato oggetto di verifica, come nel caso a quo. Ciò anche alla luce del fatto che non sarebbe scontata la fruizione da parte dell’imputato degli istituti favorevoli del processo minorile, come il perdono giudiziale o l’improcedibilità per l’irrilevanza del fatto, e che il ricorso al patteggiamento, possibile solo nel processo per gli adulti, comporta comunque l’effetto favorevole della riduzione di pena, come avvenuto nel caso in esame.

Dal momento che l’ordinamento è già ricco di garanzie procedurali volte a soddisfare le esigenze di tutela del minore, eventuali episodi patologici, sempre possibili in casi marginali, non potrebbero indurre a sovvertire principi fondamentali del processo, come quello dell’intangibilità del giudicato.

Tali assunti non sarebbero smentiti, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, dalla pronuncia della Corte EDU Yefimenko contro Russia segnalata dal rimettente, in cui alla gravità del vizio di composizione del tribunale, integrato da due giudici laici che non avevano titolo a comporre il collegio, si aggiungeva la gravità della condanna a una pesante pena detentiva pronunciata dall’organo illegittimamente formato. Si tratterebbe dunque di un vizio non comparabile a quello lamentato dal giudice a quo, la cui gravità non consentirebbe invece il superamento del giudicato.

3.– Si è costituito in giudizio tramite il proprio difensore il ricorrente nel procedimento a quo, concludendo nel senso della fondatezza delle questioni sulla base di un’argomentazione che ripercorre, adesivamente, le ragioni di censura già poste in luce dall’ordinanza di rimessione.

Con la successiva memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, il difensore della parte ha contestato gli assunti dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo la gravità dei vizi che hanno inficiato il processo conclusosi con la sentenza irrevocabile nei confronti del proprio assistito. Tali vizi non sarebbero rimediabili mediante lo strumento della revisione, che presuppone la sopravvenienza di elementi sconosciuti al momento del giudizio, e che sarebbe invece inidoneo a eliminare vizi che abbiano inficiato lo stesso giudizio di merito. Né i vizi in parola sarebbero sanabili mediante il rimedio della inesistenza giuridica della sentenza, che la giurisprudenza considera applicabile soltanto nell’ipotesi di minore infraquattordicenne. L’unica sede per far valere tali vizi sarebbe, dunque, rappresentata proprio dall’incidente di esecuzione, previo accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale nei termini prospettati dal rimettente, accoglimento che si renderebbe necessario stante la impraticabilità di un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 670 cod. proc. pen.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Bologna, sezione seconda penale, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 670 del codice di procedura penale in riferimento agli artt. 3, 13, 10, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lettera a), e 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni».

In sostanza, il giudice a quo ritiene che, sulla base del diritto vivente, l’attuale disciplina delle questioni sul titolo esecutivo di cui all’art. 670 cod. proc. pen. non consenta al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità di una sentenza passata in giudicato e pronunciata dal tribunale ordinario nei confronti di un imputato minorenne all’epoca di commissione del reato, dal momento che tale nullità sarebbe rilevabile in ogni stato e grado del giudizio ai sensi dell’art. 178, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. ma non, appunto, dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Tuttavia, il rimettente dubita della compatibilità di tale soluzione con i parametri costituzionali evocati, dai quali si evincerebbe il principio secondo cui l’imputato minorenne debba essere necessariamente giudicato da un tribunale specializzato, con conseguente radicale illegittimità non solo della sua condanna da parte di un giudice penale ordinario, ma anche della successiva esecuzione della pena irrogata da quest’ultimo.

In difetto di altri rimedi disponibili nell’ordinamento per sanare una tale illegittimità costituzionale, il rimettente chiede, dunque, a questa Corte di estendere l’ambito dei rimedi adottabili dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., in modo da consentire, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, la dichiarazione di nullità della sentenza medesima, da cui discenderebbe la sua ineseguibilità.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito la manifesta inammissibilità delle questioni prospettate, senza – tuttavia – apportare alcun argomento conferente a sostegno di tale eccezione.

Le questioni appaiono, invero, rilevanti nel giudizio a quo, dovendo il rimettente necessariamente fare applicazione della norma della cui legittimità costituzionale dubita, per decidere sul ricorso proposto dal condannato. Plausibili appaiono altresì le premesse interpretative su cui le questioni si fondano, alla luce della giurisprudenza puntualmente ricostruita nell’ordinanza di rimessione. E particolarmente ampia appare la motivazione sulla non manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati.

L’eccezione deve, pertanto, essere rigettata.

3.– Ai fini dell’esame del merito delle questioni, è opportuna una preliminare ricognizione del significato che assume, dal punto di vista del diritto costituzionale, l’attribuzione a un tribunale specializzato della competenza per i procedimenti penali concernenti reati commessi da minorenni.

3.1.– Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), tutti i reati commessi dai minori di diciotto anni ricadono entro la competenza del tribunale per i minorenni: giudice specializzato che, ai sensi dell’art. 50 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), è composto da un magistrato di corte d’appello, che lo presiede, da un magistrato di tribunale ordinario e da due esperti, tra loro di sesso diverso. Tale competenza si applica a qualsiasi reato commesso da un minorenne, e opera anche in presenza di connessione oggettiva o soggettiva con altri reati.

Tra le peculiari garanzie previste dalla legislazione vigente in materia di processo penale avanti il giudice specializzato per i minori viene anzitutto in considerazione il combinato disposto degli artt. 98, primo comma, del codice penale e 9 del d.P.R. n. 448 del 1988, a tenore dei quali l’imputabilità del soggetto che abbia commesso il fatto nella fascia di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni non può presumersi, ma deve essere sempre oggetto di un’apposita valutazione da parte del tribunale, calibrata sulla peculiare situazione esistenziale del minore. Inoltre, l’imputato minorenne gode tra l’altro di uno speciale regime cautelare, meno gravoso di quello previsto per gli adulti (articoli da 19 a 24 del d.P.R. n. 448 del 1988); può ottenere il beneficio della sospensione del processo con contestuale messa alla prova (art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988), che è caratterizzato da modalità applicative e finalità distinte rispetto a quelle assegnate all’omonimo istituto previsto per gli adulti (sentenza n. 68 del 2019) e non è soggetto ai medesimi limiti edittali che vigono per quest’ultimo; può ottenere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988), anch’essa sulla base di presupposti diversi e più ampi di quelli che vigono per gli adulti; può ottenere il perdono giudiziale per i reati punibili con una pena detentiva non superiore nel massimo ai due anni o pecuniaria non superiore a 1.549 euro (art. 169 cod. pen. in combinato disposto con l’art. 112 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).

3.2.– La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo affermato che «[l]a competenza del Tribunale per i minorenni e la speciale disciplina del processo minorile sono dirette al conseguimento di finalità di tutela del minore», queste ultime direttamente riconducibili al dettato dell’art. 31 Cost. (sentenza n. 17 del 1981).

La sentenza n. 222 del 1983, sulla scorta dell’osservazione che «il tribunale per i minorenni, considerato nelle sue complessive attribuzioni, oltre che penali, civili ed amministrative, ben può essere annoverato tra quegli “istituti” dei quali la Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento, così adempiendo al precetto costituzionale che la impegna alla “protezione della gioventù”», ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della previgente disciplina processuale che sottraeva, in caso di concorso con imputati maggiorenni, l’imputato minorenne al tribunale per i minorenni, escludendo che potesse invocarsi «l’esigenza del simultaneus processus, per giustificare la deroga alla competenza del giudice specializzato».

Nella sentenza n. 135 del 1995 è stata poi ritenuta non irragionevole l’esclusione del patteggiamento nel rito minorile, rilevandosi tra l’altro come tale rito, come attualmente delineato per il processo per gli adulti, sarebbe in contrasto con la funzione del giudice minorile, il quale «è dotato di amplissimi poteri caratterizzati dall’esigenza primaria del recupero del minore, un soggetto dalla personalità ancora in formazione (v. da ultimo sentenza n. 168/1994) per cui sono previste misure che, in vista di tale esigenza, possono portare a far concludere il processo in modi e con contenuti diversi da quelli propri del processo penale ordinario».

Nella sentenza n. 272 del 2000, che nuovamente ha rigettato questioni concernenti la mancata estensione del patteggiamento al rito minorile, si è ancora evidenziato come tale esclusione sia del tutto conforme alla peculiare natura del processo minorile, che è «sorretto dalla prevalente finalità di recupero del minorenne e di tutela della sua personalità, nonché da obiettivi pedagogico-rieducativi piuttosto che retributivo-punitivi».

Più recentemente, la sentenza n. 1 del 2015, in linea con la soluzione cui erano nel frattempo già giunte le sezioni unite della Corte di cassazione, ha ritenuto costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., la disposizione che affidava il giudizio abbreviato minorile, a seguito di decreto di giudizio immediato, al giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni anziché al collegio, sottolineando la necessità, per l’imputato minorenne, di una «valutazione del giudice collegiale e degli esperti che lo compongono, perché è proprio per garantire decisioni attente alla personalità del minore e alle sue esigenze formative ed educative che il tribunale per i minorenni è stato strutturato»; e ha evidenziato come la composizione del tribunale per i minorenni rispecchi la peculiare funzione del processo minorile, in cui le logiche retributive e special-preventive del processo penale debbono contemperarsi con il «principio di minima offensività, che impone di evitare, nell’esercizio della giurisdizione penale, ogni pregiudizio al corretto sviluppo psicofisico del minore e di adottare le opportune cautele per salvaguardare le correlate esigenze educative».

Un compendio di ulteriori precedenti della Corte è, infine, contenuto nella recente sentenza n. 139 del 2020, secondo cui «nella prospettiva dell’adeguata protezione della gioventù di cui all’art. 31, secondo comma, Cost., la preminente funzione rieducativa del procedimento penale minorile trov[a] una fondamentale rispondenza nella particolare composizione “mista” del giudice specializzato, arricchita dalla dialettica interna tra la componente togata e quella esperta: “[è], infatti, grazie alle competenze scientifiche dei soggetti che compongono il collegio giudicante che viene svolta una corretta valutazione delle particolari situazioni dei minori, la cui evoluzione psicologica, non ancora giunta a maturazione, richiede l’adozione di particolari trattamenti penali che consentano il loro completo recupero, ponendosi, quest’ultimo, quale obiettivo primario, cui tende l’intero sistema penale minorile” (sentenza n. 310 del 2008). Invero, “la specializzazione del giudice minorile, finalizzata alla protezione della gioventù sancita dalla Costituzione, è assicurata dalla struttura complessiva di tale organo giudiziario, qualificato dall’apporto degli esperti laici” (ordinanza n. 330 del 2003). […] Oltre alla conformazione interdisciplinare dell’organo, la Corte ne ha illustrato la diversificazione di genere, poiché l’art. 50-bis, comma 2, del r.d. n. 12 del 1941, esigendo che i componenti onorari siano “un uomo e una donna”, garantisce che “nelle sue decisioni il collegio possa sempre avvalersi del peculiare contributo di esperienza e di sensibilità proprie del sesso di appartenenza” (ordinanza n. 172 del 2001)».

3.3.– Questa Corte ha, altresì, frequentemente valorizzato, a fini interpretativi dei parametri costituzionali di volta in volta evocati, le fonti internazionali sulle speciali tutele dovute ai minori che vengono a contatto con la giustizia penale (ex multis, sentenze n. 139 del 2020, n. 109 del 1997, n. 168 del 1994 e n. 222 del 1983).

Tra tali fonti, meritano speciale menzione le Regole minime delle Nazioni Unite sull’amministrazione della giustizia minorile (cosiddette “Regole di Pechino”), adottate dall’Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985, le quali al numero 6 prevedono che, «[i]n considerazione delle speciali esigenze del minore», sia «previsto un potere discrezionale appropriato a diversi livelli dell’amministrazione della giustizia minorile, sia nell’istruttoria che nel processo e nella fase esecutiva», precisandosi che «[l]e persone che esercitano il potere discrezionale dovranno essere particolarmente qualificate o specializzate per esercitarlo responsabilmente e secondo le rispettive funzioni».

La Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176, impegna dal canto suo gli Stati parti, tra l’altro, alla «costituzione di autorità e di istituzioni destinate specificamente ai fanciulli sospettati, accusati o riconosciuti colpevoli di aver commesso reato», in particolare stabilendo un’età minima sotto la quale il fanciullo debba presumersi non imputabile e adottando provvedimenti «per trattare questi fanciulli senza ricorrere a procedure giudiziarie» (art. 40, comma 3). Il Comitato ONU per i diritti del fanciullo, nel General Comment n. 10 (2007) sulla giustizia minorile, ha chiarito, in riferimento specifico a tali disposizioni, che un sistema organico di giustizia minorile dovrebbe comportare l’istituzione di sezioni specializzate nella polizia e nel sistema giudiziario e delle procure, raccomandando agli Stati parti di istituire autorità giudiziarie per i minori, vuoi come unità separate o come sezioni degli organi giudiziari esistenti, e, qualora ciò non sia immediatamente realizzabile, di assicurare la presenza di giudici o magistrati specializzati nella giustizia minorile (paragrafi 92 e 93).

Analoga raccomandazione è formulata dalle Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa su una “giustizia a misura di minore”, adottata il 17 novembre 2010, in cui si afferma l’esigenza di istituire dei «tribunali (o sezioni) speciali, procedure e istituzioni per i minori in conflitto con la legge» (n. 63).

Per quanto riguarda infine l’Unione europea, la direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, stabilisce tra l’altro che «il minore indagato o imputato in procedimenti penali è sottoposto a valutazione individuale. Tale valutazione individuale tiene conto, in particolare, della personalità e maturità del minore, della sua situazione economica, sociale e familiare, nonché di eventuali vulnerabilità specifiche del minore» (art. 7, paragrafo 2); chiarendo altresì che la valutazione in parola «è condotta da personale qualificato, con un approccio per quanto possibile multidisciplinare» (art. 7, paragrafo 7). Agli Stati membri si impone, inoltre, l’obbligo di adottare «misure appropriate per garantire che i giudici e i magistrati inquirenti che si occupano di procedimenti penali riguardanti minori abbiano una competenza specifica in tale settore e/o abbiano effettivamente accesso a una formazione specifica» (art. 20, paragrafo 2).

3.4.– Dal complesso delle pertinenti norme costituzionali, come interpretate da questa Corte, e dalle fonti internazionali appena menzionate – produttive o meno che siano di obblighi internazionali vincolanti ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., ma tutte certamente rilevanti ai fini dell’interpretazione delle garanzie costituzionali – si evince dunque il principio secondo cui il minore autore di reato deve essere giudicato da una giurisdizione specializzata, i cui operatori siano selezionati anche sulla base della specifica competenza professionale in materia di minori, e che operi secondo finalità e sulla base di regole differenti da quelle che caratterizzano la giurisdizione penale ordinaria. Di talché la scelta, compiuta dal legislatore italiano, di attribuire a tale giurisdizione specializzata la competenza per i reati compiuti da minorenni deve ritenersi costituzionalmente vincolata.

4.– Le questioni ora sottoposte al vaglio di questa Corte concernono l’ipotesi patologica di un processo penale, ormai conclusosi con sentenza definitiva, che si sia svolto avanti al giudice penale ordinario in conseguenza di un errore nell’attribuzione dell’età dell’imputato al momento del fatto. E il tema di fondo ora in discussione è se, in tal caso, la natura costituzionalmente vincolata della competenza funzionale del tribunale per i minorenni necessariamente imponga il travolgimento del giudicato in sede di incidente di esecuzione.

4.1.– Il caso oggetto del giudizio a quo evidenzia in modo emblematico le gravi conseguenze di un errore siffatto, come esattamente sottolinea il rimettente. Assumendo che effettivamente il ricorrente fosse minorenne al momento del fatto – dato, questo, che il giudice a quo considera pacifico, sulla base di quanto risulta dal suo certificato penale e dallo stesso permesso di soggiorno, entrambi formati dalle autorità italiane –, egli risulterebbe:

– essere stato giudicato da un giudice diverso da quello funzionalmente competente a giudicarlo, in violazione non solo dell’art. 3 del d.P.R. n. 448 del 1988, ma anche dei principi costituzionali poc’anzi richiamati;

– essere stato sottoposto a un rito (il patteggiamento) non consentito per gli imputati minorenni all’epoca del fatto, per le ragioni ampiamente illustrate dalle menzionate sentenze n. 135 del 1995 e n. 272 del 2000;

– non essere stato sottoposto alla valutazione individualizzata della propria imputabilità, prescritta dall’art. 9 del d.P.R. n. 448 del 1988;

– non avere avuto accesso a tutta la serie di possibili definizioni alternative del procedimento previste specificamente per i minori (su cui supra, punto 3.1.), tra cui segnatamente la sospensione del processo con messa alla prova e contestuale affidamento ai servizi minorili, che avrebbero potuto impostare nei suoi confronti un programma di trattamento individualizzato dalla spiccata connotazione (ri)educativa;

– essere stato condannato a una pena detentiva verosimilmente più severa di quella consentita, non essendogli stata riconosciuta (neppure ai limitati fini del bilanciamento con eventuali altre circostanti aggravanti) la circostanza attenuante obbligatoria della minore età di cui all’art. 98, primo comma, cod. pen.

4.2.– Il giudice rimettente esclude anzitutto che, in una situazione come quella sottoposta al suo esame, la revisione della sentenza costituisca un rimedio idoneo. Osserva, in proposito, che il caso non rientra in alcuna delle ipotesi espressamente previste dal codice di procedura penale, e che comunque tale rimedio è normalmente funzionale a ottenere il proscioglimento dell’interessato, mentre nella situazione all’esame si tratterebbe soltanto di dichiarare nullo il titolo esecutivo, per poi procedere ad un nuovo giudizio innanzi al competente tribunale per i minorenni.

Ancorché il giudice a quo argomenti, in altro passaggio dell’ordinanza di rimessione, nel senso della novità, rispetto al momento della formazione del giudicato, dei documenti che attesterebbero in modo inoppugnabile la reale età del ricorrente, il presupposto interpretativo relativo alla inesperibilità del rimedio della revisione nel caso in esame appare motivato in modo non implausibile dal rimettente. Pertanto, questa Corte non può in questa sede che prendere atto di tale presupposto interpretativo; e ciò anche perché la valutazione se nel caso in esame sussistano i presupposti di una revisione della sentenza di condanna sulla base della relativa disciplina – ed eventualmente se tale disciplina sia essa stessa conforme alla Costituzione – spetterebbe comunque a un giudice diverso da quello a quo, e in particolare alla corte d’appello competente ai fini di un eventuale procedimento di revisione.

4.3.– Il giudice rimettente esclude altresì, succintamente, che il vizio dedotto possa essere ricondotto all’ipotesi, pure contemplata dall’art. 670, comma 1, cod. proc. pen., della “mancanza” del titolo esecutivo, e dunque alla categoria della “inesistenza” del titolo stesso – categoria, quest’ultima, di origine giurisprudenziale, funzionale a consentire la rilevazione, anche oltre lo sbarramento del giudicato, dei vizi procedimentali più macroscopici da parte dello stesso giudice dell’esecuzione (recentemente, sul punto, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 novembre 2020-23 aprile 2021, n. 15498, punto 3.3. dei motivi della decisione); e insiste, invece, nel qualificare il vizio a suo avviso verificatosi nei confronti del ricorrente come ipotesi di “nullità assoluta”, in quanto tale soggetta alla disciplina di cui all’art. 179 cod. proc. pen.

Anche di tale presupposto ermeneutico – fatto proprio, e anzi argomentato estesamente dalla parte costituita in giudizio, ricorrente nel procedimento a quo, nella propria memoria illustrativa – questa Corte non può che prendere atto; e ciò anche in considerazione dell’attuale stato della giurisprudenza di legittimità, che il rimettente non intende porre in discussione, neppure sotto il profilo della sua compatibilità con i parametri costituzionali evocati. Tale giurisprudenza riconosce, invero, la radicale inesistenza della sentenza pronunciata nei confronti di un imputato che risulti avere commesso il reato in età inferiore ai quattordici anni (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 4 dicembre 2018-2 gennaio 2019, n. 35; sezione prima penale, sentenza 20 maggio 2014, n. 31652); ma ritiene invece affetta da (mera) nullità assoluta la sentenza pronunciata dal tribunale penale ordinario nei confronti di un imputato che risulti di età compresa tra i quattordici e diciotto anni al momento del fatto: con conseguente impossibilità di dedurre il relativo vizio, una volta formatosi il giudicato, in sede di incidente di esecuzione (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 marzo 2017, n. 28627; sezione terza penale, sentenza 19 ottobre 2016, n. 54996).

4.4.– Il giudice a quo sollecita, piuttosto, questa Corte a intervenire con una pronuncia additiva sul testo dell’art. 670, comma 1, cod. proc. pen., la quale consenta al giudice dell’esecuzione di dichiarare (non già la “mancanza” o l’“inesistenza”, bensì) la nullità del titolo esecutivo, sulla base di un vizio – verificatosi nel processo ormai conclusosi con sentenza definitiva – esso stesso qualificato dal rimettente in termini di “nullità”.

5.– Nei termini così precisati, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente non sono fondate.

5.1.– Un primo nucleo di censure, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 10 Cost., ruota attorno all’asserita impossibilità, per effetto dei limiti dell’incidente di esecuzione imposti dall’art. 670 cod. proc. pen., di assicurare la tutela costituzionalmente doverosa agli interessi preminenti del minore, attraverso una pronuncia che, dichiarando la nullità della sentenza del giudice penale ordinario, consenta eventualmente alla competente procura per i minorenni di esercitare l’azione penale davanti alla giurisdizione specializzata.

In effetti, la censura ex art. 3 Cost. – arricchita dalla concorrente evocazione, nel relativo impianto motivazionale, del riferimento al dovere di tutela degli interessi del minore di cui all’art. 31, secondo comma, Cost., nonché alla finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., che assume speciale pregnanza nei riguardi del minore – si fonda, nella prospettiva del rimettente, sull’allegata manifesta irragionevolezza della parificazione tra le ipotesi di nullità derivanti da violazioni delle norme sulla competenza in relazione a imputati maggiorenni e quella derivante dalla violazione della competenza del tribunale per i minorenni: una competenza, quest’ultima, funzionale e inderogabile, e alla quale soggiacciono ragioni costituzionalmente rilevanti di tutela degli interessi preminenti del minore. Per altro verso, la censura formulata in riferimento all’art. 10, primo comma, Cost. e, mediatamente, alle fonti di diritto internazionale che il rimettente ritiene espressive di norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, si basa essenzialmente sul principio secondo cui il minore debba essere giudicato da un’autorità competente e specializzata; principio la cui inderogabilità dovrebbe essere salvaguardata, nella prospettiva del rimettente, anche oltre la formazione della cosa giudicata.

5.1.1.– Questa Corte ritiene, tuttavia, che il rimedio – auspicato dal giudice a quo – della dichiarazione di nullità della sentenza nel quadro di un incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. non sia costituzionalmente imposto; e stima, anzi, che l’introduzione di tale rimedio risulterebbe foriero di gravi squilibri nel sistema della rilevazione delle nullità, così come disegnato dal codice di procedura penale.

Tale sistema è imperniato attorno al principio di tassatività delle nullità (art. 177 cod. proc. pen.): un principio che è, esso stesso, il frutto di un delicato bilanciamento che coinvolge, tra l’altro, la necessità di tutelare in maniera effettiva i diritti processuali dell’imputato e l’esigenza di assicurare la capacità del processo medesimo di pervenire, entro un termine ragionevole, ad accertamenti in linea di principio definitivi, anche relativamente alla sussistenza di eventuali errores in procedendo nelle fasi e gradi precedenti. Nel compiere tale bilanciamento, il legislatore ha distinto tra nullità assolute (art. 179 cod. proc. pen.), nullità cosiddette a regime intermedio (art. 180 cod. proc. pen.) e nullità relative (art. 181 cod. proc. pen.), stabilendo precise regole sui limiti anche temporali per la loro deducibilità, nonché sulle loro eventuali sanatorie nel corso del processo; tenendo però ferma la regola – implicita, ma operante a chiusura del sistema – che la formazione della cosa giudicata preclude qualsiasi ulteriore rilevazione delle nullità, anche di quelle definite «assolute» e «insanabili»: le quali debbono sì essere rilevate, anche d’ufficio, «in ogni stato e grado del procedimento», ma non oltre – appunto – la sua definiva conclusione (sentenza n. 224 del 1996, che richiama la sentenza n. 294 del 1995).

D’altra parte, è vero che il codice di procedura penale prevede vari rimedi che consentono di superare il giudicato penale, e che la recente giurisprudenza di legittimità ne ha significativamente esteso in via pretoria l’ambito di applicazione: ad esempio ammettendo la revoca di una condanna pronunciata sulla base di una disposizione penale giudicata incompatibile con il diritto dell’Unione europea dalla Corte di giustizia (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 aprile 2012, n. 14276) ovvero di una condanna fondata su una norma incriminatrice già abrogata al momento della pronuncia della sentenza passata in giudicato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre 2015-23 giugno 2016, n. 26259), nonché la rideterminazione della pena nel caso di sopravvenienza di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarativa di una violazione convenzionale relativa al quantum della pena inflitta (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821) ovvero nel caso di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della comminatoria edittale (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 maggio 2014, n. 42858). Tuttavia, nessuno di tali rimedi è funzionale a rilevare, in sede esecutiva, errores in procedendo e relative nullità verificatesi durante il processo: siano state esse allegate e discusse dalle parti durante il processo stesso, ovvero rilevate per la prima volta dopo la formazione del giudicato.

La pronuncia additiva auspicata dal rimettente finirebbe, così, per introdurre nel sistema un’ipotesi del tutto anomala di nullità, resistente alla formazione del giudicato, e derogatoria rispetto alla regola implicita di chiusura del sistema di cui si è detto. Il che spalancherebbe inevitabilmente la strada al riconoscimento di sempre nuove ipotesi di nullità “resistenti al giudicato”, con le quali chi sia stato condannato in via definitiva potrebbe rimettere in discussione accertamenti già compiuti nei successivi gradi di giudizio sulla sussistenza di vizi procedimentali.

Ad arginare tale rischio non varrebbe, d’altra parte, il tentativo – pure compiuto dall’ordinanza di rimessione – di confinare l’eventuale rilevabilità di errores in procedendo in sede esecutiva a quelle sole violazioni di regole procedimentali che ridondino in altrettante lesioni dei diritti fondamentali dell’imputato, come quelle che in questa sede vengono indubitabilmente in considerazione, giacché della gran parte delle nullità previste dal codice di procedura penale potrebbe parimenti predicarsi l’incidenza sul diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost., o comunque sui principi (e diritti fondamentali) inerenti al giusto processo di cui all’art. 111 Cost.

Un simile scenario rischierebbe di pregiudicare gravemente l’interesse, di respiro costituzionale, all’efficiente, e ragionevolmente spedito, funzionamento della giustizia penale: interesse che esige di essere contemperato con le ragioni di tutela effettiva dei diritti fondamentali dell’imputato, assicurata quest’ultima dalla presenza, nell’ordinamento italiano, di un articolato regime delle impugnazioni, comprensivo del ricorso per cassazione, nonché, per i reati più gravi, del filtro dell’udienza preliminare. Della necessità di un tale ragionevole bilanciamento – di cui si fa carico il sistema di rilevazione delle nullità disegnato dal codice di rito, con il correlativo sbarramento rappresentato dalla res iudicata – questa Corte non può non tenere conto, nell’assicurare una tutela «sistemica e non frazionata» dei diritti e dei principi costituzionali (sentenza n. 317 del 2009).

Da ciò consegue la non fondatezza delle censure in esame.

5.2.– Un secondo gruppo di censure, formulate in riferimento all’art. 13 Cost. e all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lettera a), e 4, CEDU, lamenta che l’impossibilità di rimuovere il titolo esecutivo attraverso la sua dichiarazione di nullità in sede esecutiva comporterebbe la necessità di dare concreta attuazione a una pena detentiva illegale, in quanto inflitta non solo da un’autorità giudiziaria funzionalmente incompetente, ma anche sulla base di un quadro normativo che non contemplava tutte le possibilità di definizioni alternative del procedimento applicabili agli imputati minorenni (supra, punto 3.1.), oltre che commisurata senza tenere conto dell’obbligatoria applicazione della circostanza attenuante della minore età di cui all’art. 98, primo comma, cod. pen. Un tale esito determinerebbe, secondo il rimettente, l’illegittima compressione del diritto fondamentale alla libertà personale del ricorrente, che tanto l’art. 13 Cost. quanto l’art. 5, paragrafo 1, CEDU pretendono si attui in conformità alla legge; nonché una violazione del diritto, previsto dall’art. 5, paragrafo 4, CEDU, ad un ricorso effettivo contro le detenzioni illegittime, a sua volta funzionale alla scarcerazione dell’interessato nel caso in cui la privazione della libertà personale risulti illegittima.

5.2.1.– Neppure tali censure possono essere accolte.

È vero che, come giustamente rileva il rimettente, tanto la giurisprudenza della Corte di cassazione poc’anzi rammentata (supra, punto 5.1.1.), quanto la giurisprudenza di questa Corte hanno ridimensionato significativamente il tradizionale principio dell’intangibilità del giudicato penale rispetto a sentenze di condanna che abbiano irrogato pene illegali, essendosi in particolare affermato – in consonanza con analoghi approdi delle sezioni unite della Corte di cassazione (in particolare, Sezioni unite penali, sentenza n. 18821 del 2014) – che «il principio di legalità costituzionale della pena […] prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a presidio delle quali è posto l’istituto del giudicato» (sentenza n. 147 del 2021, punto 13. del Considerato in diritto; in senso analogo, sentenze n. 68 del 2021, punto 2.2. del Considerato in diritto, e n. 210 del 2013, punto 7.3. del Considerato in diritto).

Tuttavia, proprio la giurisprudenza appena menzionata di questa Corte ha avuto cura di confinare la necessità di rideterminare la pena in sede esecutiva all’ipotesi di una «sopravvenienza costituzionalmente rilevante» – come una sentenza della Corte EDU che attivi l’obbligo conformativo di cui all’art. 46 CEDU, o a fortiori una pronuncia di illegittimità costituzionale che abbia colpito una comminatoria edittale. In difetto di una tale sopravvenienza, si è affermato, «l’intervento “a ritroso” del giudice dell’esecuzione non avrebbe giustificazione alcuna» (sentenza n. 147 del 2021, punto 13. del Considerato in diritto).

Anche la necessità di tutela della legalità della pena – nel senso della sua conformità alle norme processuali e sostanziali che ne regolano l’irrogazione – trova dunque un fisiologico argine nella irrevocabilità della res iudicata, che segna normalmente il limite estremo alla possibilità di interventi correttivi, da parte dei giudici delle successive impugnazioni, rispetto a eventuali errori compiuti nel giudizio di cognizione: e ciò salva, per l’appunto, l’ipotesi di sopravvenienze costituzionalmente rilevanti successive al giudicato, che proiettino retrospettivamente una valutazione di illegittimità costituzionale sulla pena inflitta nel giudizio di cognizione.

Mai, d’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte e quella della Corte EDU hanno dedotto dalle disposizioni della Costituzione e della CEDU che ammettono una compressione della libertà personale soltanto nei «casi e modi previsti dalla legge» (art. 13, secondo comma, Cost.), ovvero «nei modi previsti dalla legge» (art. 5, paragrafo 1, CEDU), la possibilità di rimettere in discussione una sentenza di condanna che abbia applicato una pena detentiva, una volta esauriti gli ordinari mezzi di gravame previsti dall’ordinamento.

Né tale possibilità potrebbe essere dedotta dall’art. 5, paragrafo 4, CEDU, che garantisce il diritto di presentare un ricorso a un tribunale perché verifichi la legalità degli arresti o delle detenzioni compiute o ordinate da autorità non giurisdizionali: diritto che non può essere inteso come passe-partout per rimettere in discussione la legittimità di sentenze di condanna a pene detentive passate in giudicato. Come ritenuto infatti dalla costante giurisprudenza di Strasburgo, il controllo giudiziale imposto dalla disposizione convenzionale sulla legittimità della privazione di libertà è, di regola, già incorporato nella stessa sentenza di condanna, in assenza almeno di «questioni nuove» che non siano già state affrontate nel giudizio di cognizione (ex multis, Corte EDU, sentenza 19 gennaio 2017, Ivan Todorov contro Bulgaria, paragrafo 59; sentenza 14 gennaio 2014, Sâncrăian contro Romania, paragrafo 84; sentenza 6 novembre 2008, Gavril Yossifov contro Bulgaria, paragrafo 57; sentenza 24 marzo 2005, Stoichkov contro Bulgaria, paragrafo 65).

Né, infine, persuade il richiamo operato dal rimettente alla sentenza della Corte EDU 12 febbraio 2013, Yefimenko contro Russia, nella quale – come giustamente rileva l’Avvocatura generale dello Stato – i giudici di Strasburgo hanno bensì riscontrato una violazione dell’art. 5, paragrafo 1, lettera a), CEDU, in presenza di una sentenza di condanna a pena detentiva inflitta da un tribunale di per sé competente a giudicare del reato in questione, ma composto in modo macroscopicamente difforme dalle previsioni della legge; mentre la questione che in questa sede si agita concerne la diversa ipotesi di un difetto di competenza funzionale del giudice che ha pronunciato la sentenza.

5.3.– Infine, il rimettente ritiene che la disciplina censurata – nel non prevedere la possibilità di dichiarare nulla la sentenza pronunciata erroneamente da un giudice penale ordinario nei confronti di un imputato minorenne all’epoca del fatto – determini una violazione del principio del giudice naturale, sancito dall’art. 25, primo comma, Cost.

5.3.1.– Nemmeno questa censura, peraltro solo succintamente motivata, merita accoglimento.

La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che tale principio è rispettato «tutte le volte che l’organo giudicante risulti istituito sulla base di criteri generali prefissati per legge (ordinanza n. 159 del 2000), essendo sufficiente che la legge determini criteri oggettivi e generali, capaci di costituire un discrimen della competenza o della giurisdizione di ogni giudice (ordinanza n. 176 del 1998; v. anche sentenza n. 419 del 1998, n. 217 del 1993 e n. 269 del 1992; ordinanza n. 257 del 1995)» (ordinanza n. 343 del 2001).

Ora, i criteri in base ai quali è predeterminata la competenza penale del tribunale per i minorenni sono fissati in modo chiaro dall’art. 3 del d.P.R. n. 448 del 1988 (nonché dall’art. 14 cod. proc. pen., e dall’art. 4, comma 4, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»), senza che residuino spazi per un’arbitraria applicazione di tali disposizioni: il che basta per dimostrare l’infondatezza della censura. Contro la possibilità di errori, nella pratica giudiziaria, circa l’individuazione del giudice competente nei singoli casi concreti l’ordinamento appresta specifici rimedi, e in particolare le nullità processuali disciplinate dagli artt. 177 e seguenti cod. proc. pen.; ma sarebbe certamente incongruo far derivare dall’esigenza di precostituzione per legge del giudice di cui all’art. 25 Cost. la necessità di prevedere un meccanismo che consenta di rimettere in discussione le statuizioni sulla competenza del giudice, la cui conformità alla legge sia stata verificata e confermata nei gradi successivi del processo. Ove così fosse, infatti, risulterebbe impossibile pervenire a statuizioni definitive non solo sulla competenza, ma anche sulla stessa legittimità di tutti i provvedimenti assunti dai giudici che di volta in volta si siano pronunciati sul caso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 670 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lettera a), e 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale ordinario di Bologna, sezione seconda penale, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2022.