Ordinanza n. 9 del 2020

CONSULTA ONLINE 

 

ORDINANZA N. 9

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 



 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto in relazione all’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), in ragione della mancata adozione di una legislazione che imponga, nell’ipotesi di referendum abrogativo su leggi costituzionalmente necessarie e, in particolare, sulle leggi elettorali di organi costituzionali e di rilievo costituzionale, la sospensione degli effetti del referendum stesso, allorché – attesa la natura non autoapplicativa della normativa di risulta – sia necessario adottare una disciplina attuativa del risultato del referendum idonea ad assicurare la costante operatività degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, e finché tale disciplina non sia approvata, promosso dai Consigli regionali delle Regioni Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Sardegna e Veneto, con ricorso depositato in cancelleria il 7 gennaio 2020 e iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2020, fase di ammissibilità.

 

Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2020 il Giudice relatore Daria de Pretis;

 

deliberato nella camera di consiglio del 16 gennaio 2020.

 

Ritenuto che i Consigli regionali delle Regioni Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Sardegna e Veneto hanno promosso ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato affinché la Corte costituzionale dichiari che non spettava alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, quali titolari della funzione legislativa, il «potere di omettere l’adozione di una legislazione che imponga, nell’ipotesi di referendum abrogativo su leggi costituzionalmente necessarie, e, in particolare, su leggi elettorali di organi costituzionali e di rilievo costituzionale, la sospensione degli effetti del referendum stesso, allorché – attesa la natura non autoapplicativa della relativa normativa di risulta – sia necessario adottare una disciplina attuativa del medesimo, idonea ad assicurare la costante operatività degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, e finché tale disciplina non sia approvata», e, per l’effetto, annulli l’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), «nella parte in cui non prevede la sospensione de jure degli effetti del referendum approvato, condizionata all’adozione delle misure applicative sufficienti ad assicurare la piena operatività della legge costituzionalmente necessaria, e, segnatamente, della legge elettorale per gli organi costituzionali e di rilievo costituzionale»;

 

che i ricorrenti premettono di aver depositato, il 30 settembre 2019, presso la cancelleria della Corte di cassazione, la richiesta di referendum abrogativo sottoscritta dai delegati dei Consigli regionali dell’Abruzzo, della Basilicata, del Friuli-Venezia Giulia, della Liguria, della Lombardia, del Piemonte, della Sardegna e del Veneto, concernente alcune disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), della legge 27 maggio 2019, n. 51 (Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari) e della legge 3 novembre 2017, n. 165 (Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali);

 

che, con ordinanza del 16 ottobre 2019, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha invitato i delegati dei Consigli regionali a integrare la formulazione del quesito e ha proposto, al fine di identificare l’oggetto del referendum, la denominazione «Abolizione del metodo proporzionale nell’attribuzione dei seggi in collegi plurinominali nel sistema elettorale della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica», assegnando, altresì, termine sino all’8 novembre 2019 per l’anzidetta integrazione e per eventuali osservazioni scritte;

 

che, con ordinanza depositata il 20 novembre 2019, l’Ufficio centrale ha dichiarato legittima la richiesta di referendum e, il 26 novembre 2019, i delegati dei Consigli regionali hanno ricevuto dalla Corte costituzionale la comunicazione della fissazione della camera di consiglio per la discussione sull’ammissibilità del referendum per il giorno 15 gennaio 2020;

 

che, quanto ai presupposti soggettivi del conflitto, i ricorrenti affermano la loro legittimazione, ai sensi dell’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), richiamando, a sostegno, la sentenza n. 69 del 1978 e, soprattutto, l’ordinanza n. 82 del 2016 della Corte costituzionale;

 

che non rileverebbe la differenza tra il numero dei Consigli regionali che hanno richiesto il referendum (otto) e il numero di quelli che hanno proposto l’odierno conflitto (cinque), dal momento che l’art. 75 Cost. indica in cinque Consigli regionali il centro di imputazione del potere di iniziativa referendaria;

 

che i Consigli ricorrenti si sarebbero attenuti alle indicazioni contenute nell’ordinanza n. 82 del 2016, quanto alla necessità di adottare un’apposita delibera di promozione del conflitto, aggiungendo a quest’ultima, in qualche caso, una delibera adesiva della Giunta regionale o anche un atto del Presidente della Giunta;

 

che, quanto ai presupposti oggettivi del conflitto, i ricorrenti precisano che il requisito della «residualità», quale condizione di ammissibilità dei conflitti interorganici riguardanti atti di natura legislativa, non avrebbe un carattere «assoluto», poiché un conflitto di questo tipo sarebbe da ritenere ammissibile «se incide sulla materia costituzionale e determina situazioni non più reversibili né sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della norma» (in proposito sono richiamate le sentenze n. 229 del 2018 e n. 161 del 1995 e l’ordinanza n. 480 del 1995);

 

che, dunque, l’esigenza di un’immediata ed efficace tutela del sistema costituzionale delle competenze legittimerebbe il ricorso allo strumento del conflitto interorganico in luogo dell’incidente di costituzionalità;

 

che l’eventuale giudizio incidentale di legittimità costituzionale potrebbe essere avviato solo mediante un’autorimessione della relativa questione da parte della Corte nel corso del giudizio di ammissibilità del referendum;

 

che, in tal caso, però, la necessità di rispettare i termini processuali renderebbe «virtualmente impossibile il rispetto delle – altrettanto – inderogabili scadenze temporali, sulle quali è calibrato il procedimento referendario»;

 

che, in particolare, l’autopromovimento della questione di legittimità costituzionale non consentirebbe di rispettare il termine del 20 gennaio, previsto dall’art. 33, primo comma, della legge n. 352 del 1970 per la «deliberazione» in merito all’ammissibilità del referendum, come pure gli altri termini previsti dallo stesso art. 33 e dall’art. 34, pregiudicando, in maniera definitiva, la possibilità di apprestare adeguata garanzia alle prerogative spettanti ai Consigli regionali ricorrenti, quali intestatari del potere di iniziativa ex art. 75 Cost.;

 

che questi ultimi vanterebbero, quindi, «un interesse attuale e concreto alla reintegrazione del proprio ambito competenziale», asseritamente leso dall’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, e siffatta reintegrazione – sempre secondo i ricorrenti – potrebbe essere assicurata solo mediante il promovimento di un conflitto tra poteri;

 

che, nel merito, è richiamata la giurisprudenza costituzionale secondo cui, nell’ipotesi di referendum abrogativi attinenti a leggi costituzionalmente necessarie e, in particolare, a leggi elettorali, gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale «non possono essere esposti alla eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 29 del 1987), con la conseguenza che questi referendum devono riguardare solo parti delle leggi anzidette, in modo che residui «una normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo» (è richiamata, tra le altre, la sentenza n. 15 del 2008);

 

che dalla disamina di questa giurisprudenza i ricorrenti deducono che «il principio della “costante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale dispiega una pregnante portata assiologica, ostando all’ammissibilità di referendum abrogativi su leggi elettorali, tutte le volte che il relativo quesito non assicuri una normativa di risulta “autoapplicativa”»;

 

che proprio la considerazione che l’eventuale difetto di «autosufficienza» della normativa di risulta possa determinare «il sacrificio integrale del contrapposto interesse dei promotori e dei cittadini, rispettivamente, a dare impulso all’iniziativa referendaria e a pronunciarsi mediante l’esercizio del suffragio», renderebbe ineludibile – secondo i ricorrenti – «ricondurre il bilanciamento tra i principi costituzionali menzionati […] entro canoni di “ragionevolezza” e “proporzionalità”»;

 

che, in proposito, la difesa dei Consigli regionali riconosce che i criteri di ammissibilità dei referendum enucleati dalla Corte costituzionale «condizionano e precedono, logicamente, il perimetro dell’interesse tutelato (vale a dire, il diritto-potere al referendum)»;

 

che, tuttavia, «trattandosi di parametri ricavati, per via ermeneutica, da “esigenze supreme” dell’ordinamento giuridico-costituzionale», sarebbe necessario «interrogarsi sul “peso” che, nella valutazione operata, si sarebbe dovuto – e si dovrebbe – attribuire proprio a quell’interesse, quale corollario del principio di sovranità popolare»;

 

che questa Corte non potrebbe accordare «preferenza assoluta, esclusiva e assorbente» al principio di «costante operatività» degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, il quale, per questo verso, diverrebbe «tiranno» nei confronti di altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e tutelate, e dovrebbe, piuttosto, bilanciare la tutela di siffatto principio con altri di pari rango, tra cui quello di sovranità popolare, cui si riconnette l’interesse allo svolgimento del referendum;

 

che, sempre secondo la difesa dei Consigli regionali, la giurisprudenza costituzionale sarebbe «approdata, attraverso la valorizzazione del canone di proporzionalità, quale riflesso del più generale principio di ragionevolezza, alla dottrina del “vincolo del minor sacrificio possibile”, come regola di sindacato (e censura) sull’utilizzo della discrezionalità legislativa»;

 

che, tuttavia, di questa dottrina non vi sarebbe traccia nella giurisprudenza relativa all’ammissibilità dei referendum abrogativi su leggi elettorali, sebbene il vincolo rappresentato dall’«autosufficienza» della normativa di risulta comporti – sempre secondo i ricorrenti – «una limitazione estrema a carico del diritto-potere al referendum, sancito dall’art. 75 Cost.»;

 

che, nel caso delle leggi costituzionalmente necessarie, il legislatore, asseritamente interessato a scongiurare l’abrogazione referendaria, potrebbe costruire la struttura dell’atto normativo in modo tale da impedire, di fatto, un intervento manipolativo che garantisca la sopravvivenza di una normativa di risulta «autosufficiente»;

 

che, pertanto, la possibilità di esercitare i «diritti di democrazia diretta» sarebbe rimessa alla «totale disponibilità del “controinteressato” all’iniziativa referendaria, il Legislatore», «grazie ad un’applicazione “opportunistica” dell’usbergo del principio di “costante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale»;

 

che l’esigenza di tener conto della dottrina del «vincolo del minor sacrificio possibile», che costituirebbe «la premessa “metodologica” indispensabile» per bilanciare il principio della «costante operatività» con quello di sovranità popolare, si tradurrebbe in concreto nella necessità di una «modulazione degli effetti temporali dell’abrogazione referendaria»;

 

che, in particolare, secondo i ricorrenti il «punto di equilibrio normativo» dovrebbe essere individuato nella «previsione della sospensione dell’entrata in vigore dell’abrogazione referendaria, sino all’adozione, ad opera del Legislatore, delle misure applicative, che ne rendano gli effetti interamente operativi»;

 

che la sospensione degli effetti dell’abrogazione referendaria non rappresenterebbe «una fattispecie meramente ipotetica, tra le possibili soluzioni di bilanciamento tra principi costituzionali in gioco» (è richiamato, sul punto, quanto previsto dall’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970 e quanto eccezionalmente disposto dall’art. 2 della legge 7 agosto 1987, n. 332, recante «Deroghe alla legge 25 maggio 1970, n. 352, in materia di referendum»);

 

che nella medesima prospettiva si inquadrerebbe anche quanto stabilito dall’art. 10 della legge 4 agosto 1993, n. 276 (Norme per l’elezione del Senato della Repubblica) e dall’art. 10 della legge 4 agosto 1993, n. 277 (Nuove norme per l’elezione della Camera dei deputati), disposizioni, queste, con le quali era stata introdotta una disciplina transitoria che subordinava la produzione dell’effetto abrogativo della pregressa disciplina elettorale all’entrata in vigore di quella di attuazione della nuova;

 

che gli eventuali inconvenienti applicativi derivanti dall’introduzione di una nuova disciplina sarebbero stati risolti, dunque, «attraverso la scelta, propria della discrezionalità legislativa, di utilizzare l’istituto della condizione sospensiva dell’operatività della novella, in modo tale da bilanciare l’interesse e/o valore riconducibile all’esercizio della funzione legislativa stessa con quello della “continuità” degli organi costituzionali e/o di rilievo costituzionale»;

 

che da quanto detto i ricorrenti deducono l’assenza nella legge n. 352 del 1970 di «un dispositivo che, nella logica del bilanciamento – ragionevole e proporzionato – tra interessi e/o valori costituzionali confliggenti, contempli la sospensione degli effetti dell’abrogazione, sino all’adozione della disciplina necessaria al fine di garantire l’“autosufficienza” della normativa di risulta, sì da attenuare l’entità del sacrificio (attualmente integrale) a carico del principio della sovranità popolare a vantaggio di quello della “costante operatività” degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, permettendo, comunque, al corpo elettorale di esprimersi e manifestare la propria (eventuale) volontà abrogatrice»;

 

che, muovendo da queste considerazioni, la disciplina recata dall’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970 costituirebbe «una soluzione irragionevole – e, perciò, costituzionalmente illegittima –, nella misura in cui, nella sua attuale formulazione, non [sarebbe] in grado di far fronte – per il caso di approvazione di un referendum abrogativo da cui scaturisca una normativa non “autoapplicativa” – al rischio di una lesione integrale del bene giuridico della “continuità funzionale” delle istituzioni coinvolte, a meno di non rinunziare, completamente, alla tutela del principio di sovranità popolare»;

 

che, in occasione del giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 13 del 2012, l’allora Comitato promotore eccepì l’incostituzionalità dell’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, chiedendo alla Corte, previa rimessione davanti a sé della questione, di dichiarare l’illegittimità di tale disposizione nella parte in cui non stabilisce «che il Capo dello Stato possa reiterare, sino all’intervento delle Camere, il differimento di 60 giorni dell’entrata in vigore del referendum stesso»;

 

che l’eccezione fu, però, respinta in quanto manifestamente infondata, poiché il suo eventuale accoglimento, oltre a rimettere alla mera volontà dei parlamentari la determinazione del momento di produzione dell’effetto abrogativo del referendum, avrebbe comportato, in caso di inerzia del legislatore e di ripetute reiterazioni, «una grave incertezza che esporrebbe organi costituzionali a una paralisi di funzionamento anche solo teorica e temporanea»;

 

che per questa ragione, con l’odierno ricorso per conflitto, i cinque Consigli regionali sollecitano «un intervento additivo, che estenda la previsione della sospensione, di cui all’art. 37, comma 3, secondo periodo, l. 25 maggio 1970, n. 352, rendendola automatica, e a tempo indeterminato, per il caso in cui la normativa di risulta non sia “autoapplicativa”, sino all’adozione, da parte del Legislatore, delle misure attuative sufficienti ad assicurare la piena operatività della legge costituzionalmente necessaria, e, segnatamente, della legge elettorale stessa»;

 

che, peraltro, non mancherebbero nella giurisprudenza costituzionale analoghe pronunce manipolative e additive in sede di conflitto intersoggettivo (è richiamata la sentenza n. 127 del 1995);

 

che non avrebbero fondamento le possibili obiezioni secondo le quali l’intervento additivo richiesto alla Corte rischierebbe – in caso di persistente inerzia del legislatore – di pregiudicare il bene della vita che si vuole perseguire mediante il referendum e sarebbe, altresì, dubbia l’esistenza stessa di un obbligo, a carico del Parlamento, di intervenire nel senso richiesto dai promotori;

 

che, piuttosto, l’eventuale omissione del legislatore integrerebbe «una fattispecie indiretta di violazione del limite […] per il quale la disciplina abrogata per via popolare è da reputarsi superata e non più “ripristinabile”»;

 

che il legislatore, «per non trasgredire il divieto di ripristino (di cui il mantenimento in vigore costituirebbe, palesemente, una variante “in frode” al divieto stesso)», sarebbe obbligato a introdurre le misure attuative dell’esito referendario o ad adottare una nuova disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata;

 

che, di conseguenza, la mera inerzia esporrebbe il legislatore alla censura della responsabilità politica, ma costituirebbe anche un comportamento «antigiuridico, in quanto commesso in spregio dei principi costituzionali in tema di “seguito” referendario»;

 

che non mancherebbero gli strumenti diretti a stimolare l’intervento del legislatore, ben potendo i promotori del referendum proporre un conflitto interorganico avverso l’omissione legislativa, essendo legittimati ad agire in ragione del mancato esaurimento del procedimento referendario a seguito della sospensione dell’effetto abrogativo;

 

che, inoltre, il Presidente della Repubblica potrebbe esercitare il suo potere di messaggio e di esternazione o addirittura sciogliere le Camere, saldandosi, in questo caso, la responsabilità giuridica da inadempimento con la verifica della responsabilità politica;

 

che, infine, al ricorso sono allegate le delibere dei cinque Consigli regionali, con le quali è stato deciso il promovimento dell’odierno conflitto, e un’istanza con la quale la difesa dei ricorrenti chiede che quest’ultimo sia deciso prima della deliberazione sull’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo, «eventualmente, se ritenuto opportuno, rinviando la camera di consiglio fissata per il 15 gennaio 2020, e/o prevedendo la discussione di entrambi i giudizi anche nello stesso giorno»;

 

che l’istanza di anticipata fissazione è motivata in ragione: 1) del «carattere di pregiudizialità sostanziale», che la decisione del presente conflitto avrebbe rispetto a quella sull’ammissibilità del quesito referendario; 2) dei «ritardi legati all’esigenza di coordinare i Consigli regionali ricorrenti (anche in considerazione dei limitatissimi precedenti in punto di procedura per l’introduzione del ricorso medesimo […]), e alla sovrapposizione della relativa deliberazione con le sessioni di bilancio regionali di fine 2019», che la presentazione del ricorso avrebbe scontato.

 

Considerato che i Consigli regionali delle Regioni Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Sardegna e Veneto hanno promosso ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato affinché la Corte costituzionale dichiari che non spettava alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, quali titolari della funzione legislativa, il «potere di omettere l’adozione di una legislazione che imponga, nell’ipotesi di referendum abrogativo su leggi costituzionalmente necessarie, e, in particolare, su leggi elettorali di organi costituzionali e di rilievo costituzionale, la sospensione degli effetti del referendum stesso, allorché – attesa la natura non autoapplicativa della relativa normativa di risulta – sia necessario adottare una disciplina attuativa del medesimo, idonea ad assicurare la costante operatività degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, e finché tale disciplina non sia approvata», e, per l’effetto, annulli l’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), «nella parte in cui non prevede la sospensione de jure degli effetti del referendum approvato, condizionata all’adozione delle misure applicative sufficienti ad assicurare la piena operatività della legge costituzionalmente necessaria, e, segnatamente, della legge elettorale per gli organi costituzionali e di rilievo costituzionale»;

 

che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata a deliberare, in camera di consiglio e senza contraddittorio, sulla sussistenza dei requisiti soggettivo e oggettivo prescritti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ossia a decidere se il conflitto insorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni delineata per i vari poteri da norme costituzionali;

 

che, sotto il profilo soggettivo, deve essere riconosciuta la legittimazione ad agire ai cinque Consigli regionali;

 

che, al riguardo, questa Corte ha precisato che, «essendo conferita dall’art. 75 Cost. la facoltà di richiedere i referendum ad almeno cinque Consigli regionali, la legittimazione al conflitto tra poteri deve ritenersi attribuita a non meno di cinque Consigli tra quelli che si sono attivati», «in quanto configurati come autonomo centro di imputazione dell’attribuzione costituzionale di cui all’art. 75, […], non essendo possibile scindere la titolarità del potere dalla legittimazione al ricorso» (ordinanza n. 82 del 2016);

 

che, nell’odierno giudizio per conflitto, i cinque Consigli regionali ricorrenti sono tra i promotori dell’anzidetto referendum abrogativo;

 

che al ricorso per conflitto sono allegate le delibere dei cinque Consigli regionali con cui è stato deciso il promovimento dello stesso;

 

che deve essere, altresì, riconosciuta la legittimazione a resistere del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, venendo in contestazione il contenuto di un atto legislativo (art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970);

 

che, con riferimento ai presupposti oggettivi, i ricorrenti non indicano uno o più parametri asseritamente violati, se non genericamente l’art. 75 Cost., limitandosi a lamentare una lesione della loro sfera di attribuzioni determinata dalla previsione dell’art. 37, terzo comma, secondo periodo, della legge n. 352 del 1970, sull’assunto che questa Corte ritenga che la normativa di risulta del referendum da essi promosso non sia autoapplicativa;

 

che – anche a voler prescindere dal carattere meramente ipotetico del conflitto – risulta evidente che nel caso di specie non ricorrono le condizioni alle quali è subordinata l’ammissibilità del conflitto avente ad oggetto norme recate da una legge o da un atto con forza di legge;

 

che, infatti, in merito all’idoneità di una legge a determinare conflitto di attribuzione, la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, in linea di principio, la configurabilità del conflitto di attribuzione in relazione ad una norma recata da una legge o da un atto avente forza di legge tutte le volte in cui da essa «possano derivare lesioni dirette all’ordine costituzionale delle competenze» (ordinanza n. 343 del 2003), ad eccezione dei casi in cui esiste un giudizio nel quale tale norma debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulla legge (tra le più recenti, sentenze n. 229 del 2018, n. 284 del 2005 e n. 221 del 2002; ordinanze n. 273 del 2017, n. 17 e n. 16 del 2013, n. 14 e n. 1 del 2009, n. 38 del 2008, n. 296 e n. 69 del 2006);

 

che, pertanto, «nella generalità dei casi va esclusa l’esperibilità del ricorso per conflitto tra poteri, tutte le volte che l’atto legislativo – al quale sia in ipotesi imputata una lesione di attribuzioni costituzionali – può pacificamente trovare applicazione in un giudizio, nel corso del quale la relativa questione di legittimità costituzionale può essere eccepita, e sollevata» (sentenza n. 229 del 2018);

 

che, ciò nondimeno, questa Corte ha riconosciuto ammissibile il ricorso per conflitto su atto legislativo anche nell’ipotesi in cui lo stesso soggetto direttamente interessato non sia nella condizione di poter rilevare la lesione delle attribuzioni costituzionali sotto forma di eccezione di legittimità costituzionale nel giudizio in via incidentale (sentenze n. 229 del 2018 e n. 457 del 1999; ordinanza n. 38 del 2001);

 

che, tuttavia, nel caso oggetto del presente giudizio non solo sussiste l’astratta possibilità per i ricorrenti di attivare il rimedio della proposizione della questione di legittimità costituzionale sulla norma oggetto del conflitto, ma tale possibilità i medesimi ricorrenti hanno concretamente esercitato, sollevando, nella veste di promotori, l’eccezione di incostituzionalità della stessa norma nel giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo (registro referendum n. 172);

 

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dai Consigli regionali delle Regioni Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Sardegna e Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Daria de PRETIS, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2020.