Sentenza n. 161 del 1995

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SENTENZA N.161

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso di Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito, promotori dei referendum in materia di commercio, di elezioni comunali e di contributi sindacali, ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3, 4, 10 e 13 del 1995, notificato l'8 aprile 1995, depositato in Cancelleria il 10 aprile 1995, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie", ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 1995.

Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica dell'8 maggio 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli; uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito e l'Avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ricorso depositato il 29 marzo 1995, i signori Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito, promotori e presentatori dei referendum in materia di commercio, di elezioni comunali e di contributi sindacali, ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3, 4, 10 e 13 del 1995, hanno sollevato conflitto nei confronti del Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, e del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, per chiedere l'annullamento, previa sospensione, del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie", e del provvedimento del Garante per la radiodiffusione e l'editoria 22 marzo 1995.

Con riferimento alla sussistenza dei presupposti soggettivi del conflitto, i ricorrenti richiamano ordinanza n. 17 del 1978 e la sentenza n. 69 del 1978 della Corte costituzionale, dove risulta affermato che i promotori del referendum abrogativo godono dello status di potere dello Stato, almeno sino al momento dell'effettuazione del referendum. Nel ricorso si osserva anche che la legittimazione attiva del comitato dei promotori non può essere posta in discussione dalla diversità della vicenda dedotta in giudizio, che non riguarda, come avvenuto in passato, un conflitto sollevato in relazione a decisioni dell'Ufficio centrale per il referendum concernenti la cessazione delle operazioni referendarie. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, anche nel presente giudizio i promotori sono difensori del diritto costituzionalmente garantito ai cittadini di esprimersi attraverso il referendum, dal momento che vengono contestati atti che incidono sulla correttezza della campagna referendaria e sul processo di formazione della volontà referendaria.

Passando all'esame dei presupposti oggettivi del conflitto, con specifico riferimento al decreto-legge n. 83 del 1995, i ricorrenti richiamano la dottrina secondo la quale il conflitto è ammissibile in presenza di atti o comportamenti invasivi di una sfera di competenza costituzionalmente garantita ovvero del cattivo uso del potere, indipendentemente dalla natura dell'atto lesivo, che pertanto può anche essere una legge.

Inoltre, nel ricorso si afferma che il decreto-legge mantiene la sua natura precaria e provvisoria di provvedimento emanato sotto la responsabilità del Governo ed è suscettibile di "disapplicazione", come avvenuto in occasione dell'ordinanza del 23 marzo 1993 dell'Ufficio centrale per il referendum, che ha affermato che dalle disposizioni previste in un decreto-legge non poteva conseguire la cessazione delle operazioni referendarie relative ad una legge sottoposta a referendum e successivamente abrogata dallo stesso decreto.

Dopo aver richiamato la prassi in tema di decretazione d'urgenza, dalla quale possono derivare effetti irreversibili, nel ricorso si rileva che le stesse ragioni poste dalla Corte - con la sentenza n. 406 del 1989 - a fondamento dell'inammissibilità del conflitto nei confronti di una legge, dovrebbero giustificare l'ammissibilità del conflitto nei confronti del decreto- legge.

Infatti, secondo la prospettazione dei ricorrenti, alla peculiare forza della legge si contrappone la natura precaria e provvisoria del decreto-legge, quale provvedimento emanato sotto la responsabilità del Governo. Inoltre, sempre ad avviso dei ricorrenti, il coordinamento tra la disciplina dei giudizi incidentali e la disciplina dei conflitti si pone in maniera di versa quando oggetto del conflitto sia un decreto-legge, dal momento che, non potendo operare lo strumento del giudizio incidentale in caso di mancata conversione, rimane preclusa la possibilità che il provvedimento legislativo giunga al controllo della Corte.

Infine i ricorrenti, ribadendo il carattere provvisorio del decreto-legge, affermano che tale atto, in caso di mancata conversione, viene a trasformarsi in un mero "comportamento" imputabile al Governo, da cui possono conseguire lesioni della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite, quali i diritti politici ed elettorali, che la semplice decadenza ex tunc non è idonea a ripristinare.

In relazione all'impugnato provvedimento del Garante, i ricorrenti si rimettono alle valutazioni della Corte, pur ponendo in risalto che le autorità amministrative indipendenti sono poste, nell'ordinamento italiano, in posizione di "immediata subordinazione alla Costituzione".

Pertanto, anche il Garante sarebbe legittimato ad attuare direttamente la Costituzione emanando atti interpretativi e di indirizzo.

2. - Nel merito, con il primo motivo del ricorso si espone che gli artt. 1, 2, 3 e 14 del decreto-legge n. 83 del 1995 risultano lesivi dell'art. 75 della Costituzione, dal momento che il carattere binario del quesito referendario renderebbe più lineare e meno problematico lo svolgimento delle campagne referendarie rispetto allo svolgimento delle campagne elettorali.

Risulterebbe, pertanto, irragionevole l'estensione alle campagne referendarie della rigida disciplina relativa ai controlli, ai divieti ed alle sanzioni prevista dal decreto-legge per le campagne elettorali politiche ed amministrative.

Con riferimento al divieto - imposto ai promotori del referendum dall'art. 3, comma 6, del decreto-legge - di utilizzare gli strumenti della pubblicità elettorale non solo nei trenta giorni precedenti al referendum, ma anche per il periodo precedente che si venisse a sovrapporre con questo, con riferimento ad una diversa consultazione elettorale, il ricorso, nel secondo motivo, contesta il carattere eccessivo, irragionevole e sproporzionato di tale misura, dal momento che la sovrapposizione di diverse campagne verrebbe a imporre il silenzio sulle iniziative delle forze politiche favorevoli e contrarie alla richiesta abrogativa.

Con un terzo motivo i ricorrenti lamentano, infine, il cattivo uso, nell'adozione del decreto-legge in questione, del potere di cui all'art. 77 della Costituzione, sia per la mancanza dei requisiti della necessità e dell'urgenza sia per l'incidenza dello stesso decreto nella materia referendaria. A sostegno della censura si richiamano comportamenti del Presidente della Repubblica e dell'Ufficio centrale per il referendum, che, secondo i promotori, confermerebbero il divieto di utilizzazione dello strumento del decreto-legge in materia referendaria.

3. - Con ordinanza n. 118 del 7 aprile 1995 questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto in esame nei confronti del Governo, ma non del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, dal momento che il provvedimento dello stesso Garante del 22 marzo 1993 è stato ritenuto inidoneo a ledere la sfera di attribuzioni dei ricorrenti.

4. - Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che il ricorso sia dichiarato inammissibile ovvero, in subordine, infondato, e che sia anche rigettata l'istanza di sospensione.

In riferimento all'ammissibilità del conflitto, l'Avvocatura richiama la sentenza n. 406 del 1989, nella quale la Corte ha considerato unitariamente la legge e gli atti ad essa equiparati, escludendo che per tutti questi atti sia possibile sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato.

Pertanto, nella memoria si afferma che non è fondato sostenere, come invece fanno i ricorrenti, che il decreto-legge impugnato debba ricevere un diverso trattamento a causa del suo carattere provvisorio.

Nel merito, l'Avvocatura sottolinea che l'istituto del referendum rappresenta la massima espressione della democrazia elettorale, e, di conseguenza, anche tale consultazione deve svolgersi secondo regole di parità e di ponderazione nell'accesso ai mezzi di comunicazione di massa, al fine di evitare abusi.

Quanto all'art. 2 del decreto-legge, nella memoria si afferma che la definizione della propaganda sui "media" non pare possa ledere in alcun modo le forze che partecipano da fronti opposti ai referendum, dal momento che esse sono entrambe soggette al rispetto delle medesime forme.

Inoltre, tali forme risultano comprensive delle possibili modalità di espressione e di illustrazione delle diverse posizioni.

In relazione alla censura rivolta all'art. 3, comma 6, dello stesso decreto, l'Avvocatura osserva che in base ad una scelta politica - analoga a quella già implicitamente prevista dalla legge n. 515 del 1993 - si è ritenuto che gli "spot" e le inserzioni pubblicitarie non consentano una vera e meditata opzione, ma svolgano un ruolo di informazione puramente "intuitiva" delle diverse posizioni in campo.

Il limite introdotto ha inteso, pertanto, secondo l'Avvocatura, tutelare l'esigenza di una informazione costruttiva anche quando le consultazioni elettorali si sovrappongano, dal momento che l'effetto di suggestione di uno "spot" destinato alla campagna elettorale successiva, anche se di tipo referendario, potrebbe inquinare le scelte della consultazione in corso.

Infine, dopo aver ribadito che tanto i promotori del referendum, quanto i loro oppositori, sono posti in condizione di parità per quanto concerne il divieto di pubblicità di cui all'art. 3, comma 6, e che entrambe le parti possono liberamente manifestare le proprie opinioni attraverso tutte le altre forme di propaganda ammesse, l'Avvocatura afferma che appare priva di fondamento anche la censura relativa al cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione. In proposito, si osserva che i requisiti della necessità e dell'urgenza sono evidenti nel caso di specie, mentre non rileverebbe il richiamo dei ricorrenti all'ordinanza 23 marzo 1993 dell'Ufficio centrale per i referendum, in quanto il decreto-legge in esame non ha in alcun modo bloccato le operazioni referendarie.

Considerato in diritto

 

1. - Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers ed Elio Vito, quali promotori e presentatori di quattro referendum (in materia di disciplina del commercio; di disciplina dell'orario dei negozi; di elezioni comunali e di contributi sindacali) indetti per la tornata dell'11 giugno 1995, sollevano conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nei confronti del Governo al fine di ottenere l'annullamento, previa sospensione, del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, recante "Disposizioni urgenti per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie".

I ricorrenti - dopo aver richiamato la propria legittimazione e la presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi idonei a radicare il conflitto - denunciano la lesione della sfera di attribuzioni costituzionali ad essi spettanti in materia referendaria, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, sotto tre profili diversi e cioè: a) - con riferimento agli artt. 1, 2, 3 e 14 del decreto- legge, per avere tali norme irragionevolmente equiparato, nella disciplina dell'accesso ai mezzi di informazione e nelle sanzioni, le campagne referendarie alle campagne elettorali; b) - con riferimento all'art. 3, comma 6, dello stesso decreto, per avere, in violazione dei principi di congruenza, ragionevolezza, proporzionalità, vietato la pubblicità referendaria nei trenta giorni precedenti la data delle elezioni anche quando tale pubblicità attenga a successive consultazioni elettorali o referendarie; c) - con riferimento al decreto-legge nel suo complesso, per cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione, per avere tale decreto inciso, senza che ricorressero i requisiti della necessità e dell'urgenza, nella materia referendaria.

2. - Stante il carattere delibativo dell'ordinanza che ha ammesso il conflitto, occorre in primo luogo verificare - in termini definitivi - la presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi idonei a legittimare, ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la proposizione del conflitto.

Per quanto concerne i requisiti soggettivi non resta che richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha riconosciuto alla frazione del corpo elettorale, identificata dall'art. 75 della Costituzione in almeno cinquecentomila elettori firmatari di una richiesta di referendum abrogativo, la natura di potere dello Stato ed al comitato dei promotori - rappresentato da almeno tre soggetti - la legittimazione attiva alla proposizione del conflitto (v. sentenza n. 69 del 1978; ordinanze nn. 17 del 1978; 1 e 2 del 1979): requisiti che ricorrono tutti nel caso in esame.

Nè può assumere rilievo che - a differenza di quanto emerge dai precedenti ora richiamati - il conflitto, nella specie, non sia stato sollevato nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione in relazione a limitazioni apportate al quesito referendario. In proposito va, infatti, osservato che le restrizioni disposte alla campagna referendaria - che formano l'oggetto del conflitto - appaiono suscettibili di incidere sulla formazione della volontà di coloro che esprimono il loro voto nel referendum e, di conseguenza, nella sfera di attribuzioni garantita, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, ai ricorrenti.

3. - Per quanto riguarda i requisiti oggettivi - mentre appare evidente l'incidenza del conflitto in una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali e, in particolare, dall'art. 75 della Costituzione, dal momento che il decreto impugnato dispone in merito alle attività di propaganda, pubblicità ed informazione preordinate all'esercizio del voto referendario - maggiore attenzione va dedicata alla eccezione di inammissibilità prospettata dall'Avvocatura dello Stato in ordine alla natura dell'atto (decreto-legge) in relazione al quale il conflitto viene sollevato.

Tale eccezione viene fondata sul richiamo alla sentenza n. 406 del 1989, dove è stato affermato che "in linea di principio" il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato non può essere ammesso contro una legge od un atto equiparato.

Questa Corte ritiene, peraltro, che tale precedente - con riferimento alla limitazione desumibile dall'inciso ora richiamato - debba essere interpretato e nuovamente valutato anche alla luce degli sviluppi della prassi e dei più recenti indirizzi della dottrina.

In proposito va ricordato che la sentenza n. 406 del 1989 ha giustificato l'esclusione delle leggi e degli atti equiparati dalla sfera di operatività del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato essenzialmente attraverso il richiamo alla presenza, per tali atti, di un sistema di garanzia costituzionale incentrato sul sindacato incidentale: sindacato rapportato alla posizione di "preminenza" delle fonti primarie, che sottende "da un lato un particolare favore per l'operatività della legge e degli atti equiparati e dall'altro il postulato che la loro costituzionalità vada verificata nel loro impatto sociale, cioè nella loro (concreta) incidenza sugli interessi reali".

Questa motivazione, riferita in linea di massima alla legge, in quanto atto caratterizzato dalla durata e dalla stabilità dei propri effetti, mal si attaglia ad un atto quale il decreto- legge, che la stessa Costituzione viene a qualificare come "provvedimento provvisorio", che il Governo adotta sotto la propria responsabilità e che è destinato a operare per un arco di tempo limitato, venendo a perdere la propria efficacia fin dall'inizio in caso di mancata conversione in legge entro il termine fissato nell'art. 77 della Costituzione. Perdita di efficacia che non può far venir meno i mutamenti irreversibili della realtà che lo stesso decreto abbia potuto produrre nel corso della sua precaria vigenza, con la conseguenza che l'atto non convertito, anche se divenuto inefficace, permane di fatto come "comportamento" di cui il Governo è chiamato, sotto ogni profilo, a rispondere.

Tutto questo induce a sottolineare come - rispetto al decreto- legge - il profilo della garanzia si presenti essenziale e tenda a prevalere - come emerge dallo stesso disegno tracciato nell'art. 77 della Costituzione - su ogni altro. Profilo che verrebbe a risultare, se non compromesso, certamente limitato ove il controllo di costituzionalità dovesse ritenersi circoscritto alla sola ipotesi del sindacato incidentale. È noto, infatti, che, per il decreto- legge, questo tipo di sindacato, per quanto possibile, si presenta di fatto non praticabile in relazione ai tempi ordinari del giudizio incidentale ed alla limitata vigenza temporale dello stesso decreto.

Questa limitazione nella garanzia costituzionale potrebbe, d'altro canto, dar luogo a prospettive non prive di rischi sul piano degli equilibri tra i poteri fondamentali, ove si pensi - anche alla luce dell'esperienza più recente - al dilagare della decretazione d'urgenza, all'attenuato rigore nella valutazione dei presupposti della necessità e dell'urgenza, all'uso anomalo che è dato riscontrare nella prassi della reiterazione dei decreti non convertiti (v. sentenza n. 302 del 1988).

Rischi, questi, suscettibili di assumere con notazioni ancora più gravi nelle ipotesi in cui l'impiego del decreto-legge possa condurre a comprimere diritti fondamentali (e in particolare di ritti politici), a incidere sulla materia costituzionale, a determinare - nei confronti dei soggetti privati - situazioni non più reversibili nè sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della norma.

In tali ipotesi, certamente deprecabili - ma suscettibili di manifestarsi non soltanto attraverso l'impiego della decretazione d'urgenza - il ricorso allo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato può, dunque, rappresentare la forma necessaria per apprestare una difesa in grado di unire all'immediatezza l'efficacia.

Appare, pertanto, giustificato riconoscere - precisati nei sensi anzidetti i contenuti enunciati nella sentenza n. 406 del 1989, in sostanziale continuità con la linea motiva in essa espressa - la possibilità di utilizzare nei confronti del decreto- legge lo strumento del conflitto tra i poteri dello Stato come controllo da affiancare al sindacato incidentale.

Nè questa estensione delle forme di sindacato riferita al decreto-legge può assumere il significato di una rottura dell'unitarietà del regime del controllo di costituzionalità sanzionato, per le leggi e gli atti con forza di legge, dall'art. 134 della Costituzione, ove si consideri, nel quadro delle fonti, la natura particolare del decreto-legge come provvedimento provvisorio adottato in presenza di presupposti straordinari nonchè la possibilità che, in situazioni particolari quali quelle innanzi richiamate, lo strumento del conflitto possa essere impiegato anche nei confronti della legge e del decreto legislativo.

Sotto il profilo preso in esame il ricorso va, pertanto, dichiarato ammissibile.

4. - Passando al merito, va innanzitutto valutato il terzo motivo del ricorso, che appare pregiudiziale per il fatto di prospettare censure che investono la validità del decreto- legge considerato nel suo complesso. Ad avviso dei ricorrenti il decreto in questione risulterebbe, infatti, viziato per "cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione" essendo stato adottato, senza che ricorressero gli estremi della necessità e dell'urgenza, in materia referendaria, da ritenersi preclusa al decreto-legge.

In proposito va, in primo luogo, riaffermato che spetta alla Corte un sindacato sull'esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti della necessità e dell'urgenza (v. sentenza n. 29 del 1995). Nel caso di specie, peraltro, non ricorre quella "evidente mancanza" dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza di tali presupposti, che sola potrebbe giustificare una pronuncia di illegittimità di questa Corte.

Per quanto concerne poi il limite oggettivo che, rispetto alla decretazione d'urgenza, viene dedotto nel ricorso con riferimento alla materia referendaria, v'è da rilevare che tale limite non risulta desumibile, nè direttamente nè indirettamente, dalla disciplina costituzionale.

Il rilievo può valere anche per quanto concerne il divieto - desunto dall'art. 72, quarto comma, della Costituzione e richiamato dall'art. 15, secondo comma, lettera b), della legge 13 agosto 1988, n. 400 - relativo alla materia elettorale: e, invero, anche a voler ammettere, ai fini dell'operatività di detto limite rispetto al caso in esame, una piena equiparazione tra materia elettorale e materia referendaria, resterebbe pur sempre il fatto che il decreto in questione ha inteso porre una disciplina che non viene a toccare nè il voto nè il procedimento referendario in senso proprio, ma le modalità della campagna referendaria.

La sfera regolata dal decreto-legge n. 83 del 1995, pur connessa alla materia referendaria - in quanto funzionalmente collegata all'applicazione dell'art. 75 della Costituzione - risulta, pertanto, distinta, nei suoi contenuti, da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario.

5. - Anche le censure formulate nel primo motivo del ricorso si presentano infondate (salvo per quanto concerne la censura riferibile all'art. 3, comma 6, del decreto impugnato, che verrà trattata nel punto successivo).

Con tale motivo i ricorrenti contestano la ragionevolezza della disciplina adottata in tema di campagne referendarie dagli artt. 1 (concernente l'ambito di applicazione della stessa disciplina), 2 (in tema di propaganda), 3 (in tema di pubblicità) e 14 (in tema di sanzioni) dal decreto in esame: ragionevolezza che risulterebbe compromessa dal fatto di avere regolato le campagne referendarie negli stessi termini previsti per le campagne elettorali.

Tali censure - che investono in prevalenza il merito politico delle norme contestate - non possono essere condivise.

Se è vero, infatti, che le campagne referendarie - come sostengono i ricorrenti - presentano caratteristiche particolari e, per taluni aspetti, semplificate rispetto a quelle proprie delle campagne elettorali, è anche vero che da tale diversità non è possibile desumere, in via generale, un vincolo per il legislatore ad adottare discipline differenziate, una volta che il settore da regolare (nella specie, l'accesso ai mezzi di comunicazione di massa) venga a presentare profili comuni.

Nulla vieta cioè che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, possa di massima regolare elezioni e referendum in termini identici, una volta constatata, rispetto al profilo della parità di trattamento cui sono tenuti i mezzi di informazione di massa nei confronti dei soggetti politici, l'unitarietà della ratio della disciplina da adottare. In altri termini, non può essere la particolarità della consultazione referendaria ad imporre - anche con riferimento al fine dell'imparzialità richiesta ai mezzi di comunicazione di massa - l'adozione di forme differenziate in tema di propaganda, di pubblicità e di meccanismi sanzionatori, ove si possa affermare la compatibilità delle forme legislativamente sanzionate con le caratteristiche proprie dello strumento referendario.

Compatibilità che nella specie sussiste (salvo per quanto concerne l'art. 3, comma 6) sia con riferimento alla propaganda che alla pubblicità, ove si consideri che le forme indicate per la propaganda dall'art. 2 tendono a ricomprendere l'intera tipologia espressiva comunemente praticata in ogni tipo di competizione politica (elettorale e referendaria) e che i limiti segnati dal primo comma dell'art. 3 per la "pubblicità elettorale" non risultano applicabili, per la loro stessa configurazione (modulata con riferimento specifico alle campagne elettorali), alla pubblicità referendaria.

6. - Fondate si prospettano, invece, le censure formulate nei confronti dell'art. 3, comma 6, quali risultano espressamente enunciate nel secondo motivo del ricorso o implicitamente desumibili dal primo.

La disposizione in questione prevede che, a partire dal trentesimo giorno precedente la data delle elezioni (o del referendum), è vietata ogni forma di pubblicità, anche se relativa a successive consultazioni elettorali o referendarie.

Tale norma viene censurata, con riferimento alle campagne referendarie, come incongrua, irragionevole e sproporzionata per quanto concerne il suo inciso finale (secondo motivo) e come irragionevole, comparativamente alla disciplina prevista per le campagne elettorali, nel suo complesso (primo motivo).

Occorre premettere che, riguardando la materia l'esercizio di un diritto politico fondamentale, le limitazioni contestate - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - devono essere sottoposte a un rigoroso scrutinio, tanto più perchè disposte con un provvedimento governativo provvisorio non ancora approvato dalla maggioranza parlamentare. Alla luce di tale premessa la fondatezza delle censure in esame emerge ove si venga a confrontare la particolarità dello strumento referendario con la natura e la misura del limite introdotto. E invero, mentre per le campagne elettorali la presenza di un limite temporale ragionevolmente contenuto per lo svolgimento della pubblicità può trovare giustificazione nel fatto di privilegiare la propaganda sulla pubblicità, al fine di preservare l'elettore dalla suggestione di messaggi brevi e non motivati, eguale esigenza non viene a prospettarsi per le campagne referendarie, dove i messaggi tendono, per la stessa struttura binaria del quesito, a risultare semplificati, così da rendere sfumata la distinzione tra le forme della propaganda e le forme della pubblicità.

Nelle campagne referendarie le forme espressive della propaganda vengono, invero, in larga parte a coincidere con le forme proprie della pubblicità, con la conseguenza che, per queste campagne, gli effetti delle limitazioni introdotte in materia pubblicitaria possono risultare aggravati fino a ridurre al di là della ragionevolezza gli spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati alla promozione o alla opposizione ai quesiti referendari.

Tale elemento di irragionevolezza appare ancora più grave ed evidente in relazione a quella parte della disposizione in esame che vieta la pubblicità per i periodi in cui si succedono varie consultazioni elettorali e referendarie. Questo divieto - oltre a risultare del tutto ingiustificato anche rispetto al fine, sotteso alla norma, di preservare la libertà psicologica dell'elettore nell'imminenza del voto - è tale da poter condurre, in presenza di una consultazione referendaria preceduta da consultazioni elettorali, alla pratica eliminazione dello strumento pubblicitario: così come accadrebbe, permanendo la vigenza di tale norma, per la tornata referendaria dell'11 giugno 1995, rispetto a cui il tempo per lo svolgimento della pubblicità è stato delimitato a soli quattro giorni (v. artt. 4 e 12 del provvedimento del Garante per la radiodiffusione e l'editoria del 12 aprile 1995).

In conseguenza della sua irragionevolezza ed eccessività la disposizione in esame viene, pertanto, a ledere la sfera di attribuzioni, spettanti ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, ai ricorrenti e va, di conseguenza, annullata.

7. - La decisione di merito ora adottata assorbe ogni pronuncia in ordine alla domanda di sospensione dell'atto impugnato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta al Governo adottare, con riferimento alle campagne referendarie, la disposizione di cui all'art. 3, comma 6, del decreto-legge 20 marzo 1995, n. 83, e, conseguentemente, annulla tale disposizione nella parte in cui si applica alle campagne referendarie.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Enzo CHELI, Redattore

Depositata in cancelleria il 10/05/95.