ORDINANZA N. 82
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI
Presidente
- Giuseppe FRIGO
Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato sorti in relazione: a) all’art. 1, comma 240, lettera b), della legge
28 dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2016), che ha disposto
l’abrogazione dell’art. 38, comma 1-bis,
del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, già oggetto di
richiesta referendaria (secondo quesito referendario); b) all’ordinanza
dell’Ufficio centrale per il referendum
costituito presso la Corte di cassazione del 7 gennaio 2016, che ha dichiarato,
ai sensi dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum
previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), che non abbiano più corso le operazioni relative alle
richieste referendarie relative al secondo ed al terzo quesito referendario,
quest’ultimo concernente l’art. 38, comma 5, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito, promossi con due
ricorsi dei Consigli regionali della Basilicata, Liguria, Marche, Puglia,
Sardegna e Veneto, depositati in cancelleria il 25 febbraio 2016 ed iscritti
rispettivamente ai nn. 1 e 2 del registro conflitti
tra poteri dello Stato 2016, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 9 marzo 2016 il Giudice
relatore Aldo Carosi.
Ritenuto che con un primo ricorso (iscritto al Reg. confl. poteri n. 1 del 2016) i Consigli regionali delle
Regioni Basilicata, Liguria, Marche, Puglia, Sardegna e Veneto – in persona dei
rispettivi delegati – hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, del Senato della
Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione all’art. 1,
comma 240, lettera b), della legge 28
dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2016) – con cui è stato abrogato
l’art. 38, comma 1-bis, del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), convertito con modificazioni
dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164 – nonché nei
confronti dell’Ufficio centrale per il referendum
costituito presso la Corte di cassazione in relazione all’ordinanza del 7
gennaio 2016, con cui è stato statuito che non avessero più corso le operazioni
referendarie relative al quesito avente ad oggetto il citato comma 1-bis;
che i ricorrenti assumono sussistere i requisiti
occorrenti per la rituale instaurazione della prospettata controversia;
che, sotto il profilo soggettivo attivo,
i Consigli regionali – asseritamente contitolari,
ciascuno uti singulus, delle prerogative costituzionali di cui
all’art. 75 della
Costituzione e dunque ciascuno potere dello Stato per essere competente ad
esprimere in via definitiva la volontà del potere legislativo-referendario a
cui appartiene – assumono di essere legittimati a promuovere il conflitto
(specificamente deliberato solo dal Consiglio regionale della Regione Veneto)
una volta decisa l’iniziativa referendaria e nominati i propri delegati,
chiamati ad agire in nome e per conto dei rispettivi Consigli «a difesa»
dell’iniziativa stessa ed a rilasciare mandato alle liti per la difesa tecnica;
che, sotto il profilo oggettivo, i
ricorrenti si dolgono del fatto che le Camere, nell’esercizio della funzione
legislativa, con l’art. 1, comma 240, lettera b), della l. n. 208 del 2015 abbiano abrogato l’art. 38, comma 1-bis, del d.l. n.
133 del 2014, disposizione oggetto di una delle richieste referendarie da essi
avanzata ed in relazione alla quale, con l’ordinanza del 7 gennaio 2016,
l’Ufficio centrale per il referendum,
in ragione dello ius superveniens,
ha disposto che non avessero più corso le relative operazioni referendarie, ai
sensi dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum
previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo);
che l’abrogazione ad opera del
legislatore – in quanto asseritamente non
satisfattiva dell’intento perseguito con la richiesta referendaria e tesa ad
eluderlo – e la mancata rimessione a questa Corte della questione di
legittimità costituzionale delle norma abrogativa da parte dell’Ufficio
centrale per il referendum avrebbero
menomato le prerogative dei Consigli regionali, in violazione degli artt. 75 e 3 (sotto il profilo
dell’eccesso di potere legislativo) Cost.;
che conseguentemente i ricorrenti chiedono
l’annullamento dell’art. 1, comma 240, lettera b), della l. n. 208 del 2015 e dell’ordinanza del 7 gennaio 2016
dell’Ufficio centrale per il referendum
costituito presso la Corte di cassazione nella parte in cui dispone che non
abbiano più corso le operazioni referendarie relative al quesito afferente
all’art. 38, comma 1-bis, del d.l. n. 133 del 2014;
che con un secondo ricorso (iscritto al reg. confl. poteri n. 2 del 2016) i medesimi Consigli regionali
delle Regioni Basilicata, Liguria, Marche, Puglia, Sardegna e Veneto – in
persona dei rispettivi delegati – hanno sollevato conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato nei confronti dell’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di
cassazione, in relazione all’ordinanza del 7 gennaio 2016, con cui è stato
statuito che non avessero più corso le operazioni referendarie relative al
quesito avente ad oggetto il comma 5 dell’art. 38 del d.l.
n. 133 del 2014;
che, anche in questo caso, sotto il profilo soggettivo
i Consigli regionali – asseritamente contitolari,
ciascuno uti singulus, delle prerogative costituzionali di cui
all’art. 75 Cost. e dunque ciascuno potere dello Stato per essere competente ad
esprimere in via definitiva la volontà del potere legislativo-referendario a
cui appartiene – assumono di essere dotati della legittimazione a promuovere il
conflitto (specificamente deliberato solo dal Consiglio della Regione Veneto)
una volta decisa l’iniziativa referendaria e nominati i propri delegati,
chiamati ad agire in nome e per conto dei rispettivi Consigli «a difesa»
dell’iniziativa stessa ed a rilasciare mandato alle liti per la difesa tecnica;
che, sotto il profilo oggettivo, i
ricorrenti lamentano che l’Ufficio centrale per il referendum, nonostante avesse comunicato inaspettatamente e con
scarsissimo preavviso la seduta straordinaria volta a valutare l’impatto sul
citato comma 5 dell’art. 38 del d.l. n. 133 del 2014
– oggetto di specifica richiesta referendaria – del sopravvenuto art. 1, comma
240, lettera c), della l. n. 208 del
2015, non abbia preso in considerazione le argomentazioni svolte dai Consigli
regionali richiedenti i referendum –
finalizzate al trasferimento del quesito sulla normativa previgente – per
difetto di procura speciale in capo al difensore, prescindendo dalla
possibilità normativamente prevista di ovviare al vizio e così menomando le
prerogative loro riconosciute dall’art. 75 Cost., in sostanziale violazione del
contraddittorio;
che conseguentemente i ricorrenti chiedono
l’annullamento dell’ordinanza del 7 gennaio 2016 dell’Ufficio centrale per il referendum nella parte in cui dispone
che non abbiano più corso le operazioni referendarie relative al quesito
afferente all’art. 38, comma 5, del d.l. n. 133 del
2014.
Considerato che, in ragione della connessione tra i conflitti
proposti, i giudizi debbono essere riuniti per essere definiti con unica
decisione;
che la Corte è chiamata in questa fase a stabilire in camera
di consiglio, senza contraddittorio, se sussistano i presupposti di
ammissibilità dei conflitti, sintetizzati dall’art. 37 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), nell’espressione “materia di conflitto” (ex plurimis, ordinanza n. 172
del 1997);
che, in particolare, occorre al riguardo esaminare se
concorrano i requisiti di ordine soggettivo ed
oggettivo prescritti dall’art. 37, primo comma, della l. n. 87 del 1953, e cioè
se i conflitti sorgano tra organi competenti a dichiarare definitivamente la
volontà del potere a cui appartengono e siano diretti a delimitare la sfera di
attribuzioni dei poteri interessati determinata da norme costituzionali;
che entrambi i conflitti appaiono
carenti sotto il profilo del requisito soggettivo, dal momento che solo il
Consiglio della Regione Veneto ha deliberato di sollevarli mentre avrebbero
dovuto proporli almeno cinque Consigli regionali tra quelli che avevano
originariamente richiesto, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, i referendum per i quali l’Ufficio
centrale per il referendum costituito
presso la Corte di cassazione aveva statuito – con l’impugnata ordinanza del 7
gennaio 2016 – che non avessero più corso le operazioni referendarie;
che la richiesta di cui all’art. 75 Cost. configura, infatti, un atto complesso, risultante da una
pluralità di distinte ma, quanto a contenuto, coincidenti deliberazioni dei
singoli Consigli regionali;
che ciò comporta che, per sollevare conflitto nei
confronti degli altri poteri dello Stato, è necessario un omologo atto
complesso, frutto di deliberazioni consiliari diverse ed ulteriori rispetto a
quelle intervenute per la precedente richiesta referendaria;
che non può dunque essere condivisa la
tesi dei ricorrenti, secondo cui «i singoli Consigli regionali sarebbero
co-titolari, uti singuli,
della prerogativa costituzionale ex
art. 75 Cost., [per cui] essi costituiscono ciascuno di per sé un potere dello
Stato legittimato a proporre conflitto e […] che ognuno di essi è competente a
esprimere in via definitiva la volontà del potere cui appartiene (quello
legislativo-referendario), peraltro a prescindere dalla produzione dell’effetto
del perfezionamento dell’iniziativa referendaria»;
che la proposizione del conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato non può essere considerata conseguenza automatica
dell’iniziativa referendaria, finalizzata a consentire la prosecuzione del
procedimento nel caso in cui l’Ufficio centrale statuisca che non abbiano più
corso le operazioni referendarie. Ciò dal momento che, a seguito di tale
pronuncia, può accadere che in seno al potere dello Stato costituito dal
complesso dei Consigli regionali richiedenti insorga unanime condivisione della
statuizione dell’Ufficio centrale per il referendum
(come è avvenuto per tre dei cinque quesiti esaminati dall’Ufficio centrale)
ovvero contrasto in ordine alla valutazione da quest’ultimo compiuta;
che l’astratta prospettazione di simile alternativa
dimostra di per sé la necessità di una nuova manifestazione di volontà espressa
secundum legem dal
potere interessato;
che, essendo conferita dall’art. 75 Cost. la facoltà di richiedere i referendum ad almeno cinque Consigli regionali, la legittimazione
al conflitto tra poteri deve ritenersi attribuita a non meno di cinque Consigli
tra quelli che si sono attivati;
che, infatti, se la titolarità del potere di iniziativa
referendaria spetta ai Consigli regionali nel numero minimo di cinque, in
quanto configurati come autonomo centro di imputazione dell’attribuzione
costituzionale di cui all’art. 75, solo a tali Consigli può essere riconosciuta
la legittimazione ad agire in conflitto, non essendo possibile scindere la
titolarità del potere dalla legittimazione al ricorso;
che per questo motivo non può essere accolta la tesi
dei ricorrenti secondo cui «una volta che i Consigli regionali abbiano
deliberato l’iniziativa referendaria e nominato i propri delegati, ex art. 29 della l. n. 352 del 1970,
costoro sono [comunque] deputati ad agire in nome e per conto dei relativi
Consigli “a difesa” (lato sensu) dell’iniziativa stessa, in virtù del mandato
ricevuto con la deliberazione consiliare»;
che i delegati sono privi di legittimazione a proporre
il conflitto, in quanto l’iniziativa spetta esclusivamente ai Presidenti dei
Consigli regionali, previa delibera dei Consigli stessi;
che, in considerazione dell’interesse
eminentemente politico che sorregge il procedimento, non può essere, infatti,
consentito ai delegati di dare attuazione ad un’ipotetica, ed allo stato
inesistente, deliberazione del Consiglio, che è interamente rimessa alla
discrezionalità di quest’ultimo, al quale spetta valutare se l’ordinanza
dell’Ufficio centrale (con la quale è stato statuito che non abbiano più corso
le operazioni referendarie) sia stata adottata correttamente e corrisponda agli
interessi dei consigli regionali;
che, dunque, in nessun caso la scelta operata dai sei
delegati regionali, tradottasi nel rilascio di specifica procura alle liti
senza previa delibera dei relativi Consigli, legittima gli stessi delegati a
surrogarsi all’organo competente a promuovere il conflitto;
che quanto detto comporta l’inammissibilità di entrambi
i ricorsi in quanto carenti sotto il profilo soggettivo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2016.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Aldo
CAROSI, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 7 aprile 2016.