Ordinanza n. 266 del 2014

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ORDINANZA N. 266

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                               Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                                  ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 189 del codice di procedura civile promosso dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Milano nel procedimento vertente tra E.K.M. e D.B.R. con ordinanza del 12 dicembre 2013, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 novembre 2014 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che il Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Milano, con ordinanza del 12 dicembre 2013 (r.o. n. 63 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 189 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che «il giudice possa decidere la causa ai sensi dell’art. 281-sexies»;

che il rimettente riferisce di dover giudicare in una causa pendente tra E.K.M., attrice, e D.B.R. convenuto contumace, avente ad oggetto la separazione giudiziale ai sensi dell’art. 151 del codice civile; che dall’unione matrimoniale di detti coniugi non sono nati figli; che l’attrice ha domandato la liquidazione delle spese processuali, solo nel caso di opposizione alla domanda da parte del coniuge e nulla ha richiesto a titolo di mantenimento;

che, ciò premesso, il giudice a quo espone che il presidente del tribunale ha fissato l’udienza, ai sensi dell’art. 708 cod. proc. civ.; che a detta udienza il coniuge convenuto non è comparso, nonostante la regolarità della notificazione, perfezionatasi ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. e che il presidente ha autorizzato i coniugi a vivere separati e, ai sensi degli artt. 709-bis e 183 cod. proc. civ., ha fissato l’udienza del 10 dicembre 2013; che l’attrice ha depositato memoria integrativa, insistendo per la pronunzia di separazione e all’udienza di prima comparizione il convenuto è rimasto contumace, nonostante la regolarità della notifica, perfezionatasi nelle mani della madre convivente e che si è riservato la decisione sulla richiesta di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 189 cod. proc. civ.;

che, alla luce di quanto affermato, il rimettente ritiene che l’art. 189 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che il «giudice può decidere la causa ai sensi dell’art. 281-sexies», sia in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.;

che il giudice istruttore, ritenendo la causa matura per la decisione, afferma di voler fissare l’udienza dinanzi al collegio per la discussione orale della causa, ai sensi dell’art. 281-sexies, cod. proc. civ., al fine di accelerare la fase decisoria, «tenuto conto della evidente semplicità della materia del contendere»;

che detta possibilità è, però, preclusa dall’impianto organizzativo dell’ufficio, in quanto le udienze dinanzi al collegio sono fisse per previsione presidenziale, a seguito di programmazione annuale e, nel caso di specie, la prima udienza collegiale utile è in data 12 dicembre 2013;

che la scelta per il modulo decisorio di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ. è, in ogni caso, impedita «dall’attuale sistematica del codice di rito» in quanto la separazione giudiziale rientra tra le controversie nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, ai sensi degli artt. 50-bis, primo comma, e 70, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione alle quali non trovano applicazione le disposizioni di cui al Libro II, Titolo I, Capo III-bis (procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica);

che, in particolare, non è applicabile l’art. 281-sexies, cod. proc. civ. il quale prevede la decisione a seguito di trattazione orale;

che, infatti, l’art. 189 cod. proc. civ. dispone che il giudice istruttore possa rimettere le parti dinanzi al collegio esclusivamente a norma degli artt. 187 o 188 cod. proc. civ., e secondo il modello decisorio di cui agli artt. 275 e seguenti cod. proc. civ., con la conseguenza che il procedimento a decisione collegiale, esaurita l’istruttoria, può concludersi soltanto dopo la concessione dei termini di cui all’art. 190 cod. proc. civ., a seguito, quindi, del deposito delle difese scritte;

che il giudice a quo dà atto della impossibilità di una interpretazione adeguatrice della norma censurata, non potendo «piegare la disposizione fino a spezzarne il legame con il dato letterale»;

che il dettato normativo non si presta ad interpretazioni diverse da quella emergente dalla lettura del testo, sicché rimane infruttuoso il tentativo di individuare una interpretazione conforme alla Costituzione (al riguardo sono evocate le ordinanze n. 427 e n. 306 del 2005);

che, nel caso di specie, dinanzi al chiaro significato della norma, vi sarebbe il rischio di invadere «una competenza che al Giudice odierno non compete, se non altro perché altri Organi, nell’impalcatura Costituzionale (come l’adita Corte delle Leggi), sono deputati ad espletare talune funzioni ad essi esclusivamente riservate»;

che il rimettente osserva come il modulo decisorio della discussione orale, ai sensi dell’art. 281-sexies, cod. proc. civ., sia stato riservato sin dalla sua introduzione, esclusivamente al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica;

che, tuttavia, in tempi recenti, il legislatore ha ritenuto necessario ed opportuno estendere detta disciplina al rito del lavoro, dapprima mediante una modifica dell’art. 429 cod. proc. civ., introdotta per effetto dell’art. 53, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, prevedendo la definizione della controversia mediante discussione orale seguita dalla sentenza con contestuale motivazione; in seguito, consentendo, mediante la modifica degli artt. 351 e 352 cod. proc. civ., per effetto della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2012), la decisione mediante discussione orale ex art. 281-sexies, cod. proc. civ., anche nel giudizio di appello;

che il rimettente osserva come la scelta legislativa abbia reso maggiormente agevole il ricorso al modulo della decisione orale, rispetto alle condizioni in presenza delle quali la giurisprudenza l’ammetteva (in tal senso è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, del 13 marzo 2009, n. 6205);

che il giudice a quo ritiene che, in tal modo, si sia creata «una aporia nell’impalcatura codicistica» in quanto il giudice in composizione collegiale (Corte di appello) può beneficiare della discussione orale ai sensi dell’art. 281-sexies, cod. proc. civ., in secondo grado e non può farlo, invece, in primo grado quando del pari giudica in composizione collegiale;

che, ad avviso del rimettente, il modello di decisione immediata, a seguito di discussione orale, essendo previsto anche da alcune normative speciali, è divenuto lo strumento generale di definizione delle controversie;

che, sotto tale profilo, sono richiamati l’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), l’art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), come recepiti nel decreto legislativo 1º settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), e il procedimento sommario di cognizione, ormai modello processuale largamente diffuso;

che, alla luce di quanto posto in evidenza, il rimettente osserva come la decisione a seguito di trattazione orale sia divenuta, nell’ultimo decennio, «uno dei principali e più importanti strumenti di organizzazione e razionalizzazione del ruolo ed attuale oggetto privilegiato nei protocolli di udienza adottati dagli uffici giudiziari italiani (nell’ambito delle cd. prassi virtuose)»;

che, secondo il giudice a quo, la dottrina, in tempi recenti, ha inquadrato l’art. 281-sexies, cod. proc. civ., nell’ambito delle misure atte a garantire la ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost. ed ha affermato che detto modello di decisione può essere considerato il più coerente rispetto al parametro costituzionale del giusto processo;

che, ad avviso del rimettente, una decisione che segua immediatamente la discussione orale, non consente la dispersione del sapere proveniente dalla preparazione della deliberazione e delle difese delle parti e, soprattutto, accelera la fase decisoria e riduce in modo significativo la durata del processo;

che detta esigenza di accelerazione sarebbe sempre più avvertita al fine di prevenire ed evitare le responsabilità dirette dello Stato per la irragionevole durata dei procedimenti civili; al riguardo è invocato il decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato la legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile);

che, in un mutato contesto ordinamentale, la preclusione del modulo di decisione di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ., per le cause collegiali in primo grado, non appare ragionevole e si traduce in una previsione priva di coerenza razionale con il sistema processuale vigente e, soprattutto, in una omissione normativa che impedisce l’attuazione ed il rispetto del principio del giusto processo;

che detta lacuna normativa, secondo il giudice a quo, determina la violazione del principio di uguaglianza in quanto «se per alcune controversie la ragionevole durata è garantita mediante l’applicazione della decisione a seguito di trattazione orale, per altre, alla luce della sola diversa composizione dell’organo giudicante – limitatamente al primo grado – questa possibilità non è praticabile»;

che il rimettente, pur non ignorando il costante orientamento della Corte costituzionale, secondo cui in relazione alla disciplina degli istituti processuali vige il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte operate dal legislatore (al riguardo è richiamata la sentenza n. 10 del 2013), pone in rilievo come il sindacato sia ammesso in caso di manifesta irragionevolezza (sono invocate, tra le tante, le ordinanze n. 174 del 2012, n. 141 del 2011 e n. 164 del 2010);

che, nel caso di specie, ricorrerebbe la manifesta irragionevolezza della scelta operata dal legislatore;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato in data 20 maggio 2014, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che, ad avviso della difesa dello Stato la questione è manifestamente infondata in quanto il legislatore del 1998 ha, nell’ambito della propria discrezionalità, riservato alla decisione collegiale le cause di cui all’art. 50-bis, cod. proc. civ., ritenendo che gli interessi coinvolti nelle controversie in parola meritassero, di regola, la redazione delle memorie conclusive di cui all’art. 190 cod. proc. civ. e una ponderazione da compiersi all’esito del confronto in camera di consiglio;

che, nell’ambito di detta discrezionalità, il legislatore ha escluso che l’immediatezza della decisione, strutturalmente connaturata al modello di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ., si conciliasse con la complessità delle controversie di cui all’art. 50- bis cod. proc. civ., tale da richiedere, spesso, un esame in camera di consiglio per più giorni;

che la legge n. 183 del 2011, nel consentire al giudice di appello di ricorrere al modello decisorio di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ., non ha determinato l’irragionevolezza, sopravvenuta,  dell’art. 189 cod. proc. civ., nella parte in cui esclude che anche il giudice collegiale di primo grado possa avvalersi di detto modello, posta la strutturale diversità delle due situazioni;

che, infatti, ad avviso dell’Avvocatura, il giudice di appello, diversamente dal giudice di primo grado, si confronta con l’iter motivazionale della decisione di primo grado, da confermare o revocare in tutto o in parte.

Considerato che il Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Milano, con ordinanza del 12 dicembre 2013 (r.o. n. 63 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 189 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che «il giudice possa decidere la causa ai sensi dell’art. 281-sexies»;

che, in ordine alla violazione del principio di ragionevolezza, ad avviso del rimettente, la preclusione del modulo di decisione di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ., per le cause collegiali in primo grado, si traduce in una previsione priva di coerenza razionale con il sistema processuale vigente, nel quale il modello di decisione immediata è divenuto lo strumento generale di definizione delle controversie, essendo previsto anche da alcune normative speciali;

che, inoltre, detta preclusione determina «una aporia nell’impalcatura codicistica», in quanto il giudice in composizione collegiale (Corte di appello) può beneficiare, ai sensi dell’art. 352 cod. proc. civ., della discussione orale, ai sensi dell’art. 281-sexies, cod. proc. civ. in secondo grado e non può farlo, invece, in primo grado quando del pari giudica in composizione collegiale;

che, con riguardo alla violazione del principio di uguaglianza, il giudice a quo afferma che «se per alcune controversie la ragionevole durata è garantita mediante l’applicazione della decisione a seguito di trattazione orale, per altre, alla luce della sola diversa composizione dell’organo giudicante – limitatamente al primo grado – questa possibilità non è praticabile»;

che, in riferimento all’art. 111 Cost., sotto il profilo della violazione del principio del giusto processo, il rimettente ritiene che la decisione a seguito della discussione orale impedisce la dispersione del sapere proveniente dalla preparazione della deliberazione e delle difese delle parti;

che, in relazione alla violazione della ragionevole durata del processo, il giudice a quo afferma che la decisione ai sensi di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ., accelera la fase decisoria riducendo in modo significativo la durata del processo;

che la questione di legittimità costituzionale è manifestamente inammissibile per plurimi motivi;

che, nel caso di specie, la questione sollevata dal giudice istruttore coinvolge la scelta del modulo decisorio della controversia;

che nelle cause di cui all’art. 50-bis, cod. proc. civ., a norma degli artt. 187, 188, 189 e 275 cod. proc. civ., il potere di definire il giudizio compete unicamente al collegio, con la conseguenza che soltanto tale organo sarebbe deputato a fare applicazione del modello decisorio di cui all’art. 281-sexies, cod. proc. civ.;

che il rimettente, censurando l’art. 189 cod. proc. civ., nella parte in cui non consente al giudice di decidere la causa ai sensi dell’art. 281-sexies, cod. proc. civ., sottopone a sindacato di legittimità costituzionale una disposizione che diviene rilevante per la definizione della controversia;

che, con riguardo alla legittimazione del magistrato facente parte di un organo collegiale a sollevare questioni di legittimità, è consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui detta legittimazione sussiste solo con riferimento a questioni concernenti disposizioni di legge che il giudice istruttore deve applicare per provvedimenti rientranti nella sua competenza, mentre non sussiste quando la norma impugnata assuma rilevanza per la risoluzione della causa (ordinanze n. 552 del 2000, n. 295 del 1996 e n. 436 del 1994);

che, quindi, la questione di legittimità costituzionale è inammissibile per difetto di legittimazione del rimettente;

che, anche a prescindere dal rilevato profilo di inammissibilità, si deve osservare come la pronuncia additiva richiesta dal giudice a quo sia volta a sollecitare un intervento creativo di questa Corte;

che attraverso l’intervento auspicato si introdurrebbe, nell’ordinamento processuale civile, un nuovo modello decisorio in relazione alla cause riservate alla competenza del tribunale in composizione collegiale;

che l’adozione della decisione a seguito di discussione orale, anche per dette controversie, con rinunzia al deposito delle difese scritte, ai sensi dell’art. 190 cod. proc. civ., richiederebbe la definizione di una disciplina specifica, connaturata alla stessa struttura del procedimento civile innanzi al giudice in composizione collegiale e non la mera trasposizione di quella prevista dall’art. 281-sexies, cod. proc. civ.;

che la necessità di detta disciplina specifica, ai fini dell’applicabilità della decisione a seguito di trattazione orale anche alle controversie soggette a riserva di collegialità, discende dalla diversità dell’organo che a seguito della istruzione della causa dispone la discussione orale, cioè il giudice istruttore, rispetto all’organo che deve definire la controversia, ossia il collegio;

che, pertanto, l’intervento richiesto assume il carattere di una “novità di sistema”, che si pone al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, ed è rimesso alle eventuali soluzioni di riforma affidate, in via esclusiva, alle scelte del legislatore;

che, infine, il quesito è rivolto a sollecitare un intervento non costituzionalmente obbligato in quanto l’obiettivo perseguito dal giudice a quo può essere realizzato attraverso una pluralità di interventi modificativi o integrativi della disciplina processuale vigente, non necessariamente coincidenti con la soluzione prospettata dal giudice rimettente (sentenze n. 252 del 2012 e n. 274 del 2011; ordinanze n. 48 del 2014, n. 136 del 2013 e n. 243 del 2009);

che, di conseguenza, la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 189 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2014.

F.to:

Paolo Maria NAPOLITANO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2014.