Sentenza n. 248 del 2011

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SENTENZA N. 248

ANNO 2011

 

Commento alla decisione di

 

Stefania Parisi

Se la legge statale è il fondamento positivo dei provvedimenti regionali... e un atto di Soft law ne preorienta i contenuti

 

(per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali)

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Alfonso                  QUARANTA                                     Presidente

-    Alfio                      FINOCCHIARO                                  Giudice

-    Franco                    GALLO                                                      ”

-    Luigi                      MAZZELLA                                              ”

-    Gaetano                 SILVESTRI                                               ”

-    Sabino                    CASSESE                                                  ”

-    Giuseppe                TESAURO                                                 ”

-    Paolo Maria            NAPOLITANO                                         ”

-    Giuseppe                FRIGO                                                       ”

-    Alessandro             CRISCUOLO                                            ”

-    Paolo                      GROSSI                                                     ”

-    Giorgio                   LATTANZI                                                ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 8-quinquies, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’articolo 79, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia con tre ordinanze del 28 luglio 2010, rispettivamente iscritte ai numeri 352, 353 e 396 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2010 e n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di costituzione del Centro ambulatoriale e di emodialisi “Aurora” s.r.l. ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 e nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi l’avvocato Salvatore Pensabene Lionti per il Centro ambulatoriale e di emodialisi “Aurora” s.r.l. ed altri e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, con tre ordinanze di analogo contenuto, ha sollevato altrettante questioni di legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 3, 24, 32, 97, 113 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione – dell’articolo 8-quinquies, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’art. 79, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

1.1.— Il giudice remittente premette di dover decidere, in ciascuno dei giudizi principali, dell’impugnazione del decreto dell’Assessore per la sanità della Regione Siciliana del 20 agosto 2009, n. 1676, secondo cui l’ammissione alla fruizione del trattamento sostitutivo della funzione renale, presso centri di dialisi privati accreditati, «deve essere previamente autorizzata dall’azienda sanitaria provinciale di appartenenza, sulla base di una certificazione rilasciata da un medico specialista nefrologo da essa dipendente o convenzionato, che accerti l’insufficienza renale cronica terminale e la necessità del trattamento sostitutivo».

Tale decreto – assume il giudice a quo – risulta emanato in forza di quanto previsto dal censurato art. 8-quinquies, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 502 del 1992, secondo cui le Regioni «possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati».

Tanto premesso, il TAR remittente esclude che possa prospettarsi un’interpretazione della norma che – in coerenza con il restante testo del suddetto art. 8-quinqiues – «consenta di ricondurre l’individuazione dei gruppi di prestazioni da sottoporre ad autorizzazione ad un’attività consensuale» (ciò che, tra l’altro, renderebbe il decreto impugnato nei tre giudizi a quibus «senz’altro illegittimo, per il sol fatto di aver provveduto in via unilaterale»), giacché la stessa formulazione letterale della disposizione rivelerebbe la sua natura derogatoria «rispetto all’analoga previsione contenuta nella prima parte» del medesimo comma 2 dell’art. 8-quinquies che prevede la definizione di accordi e la stipulazione di contratti.

1.2.— Data, dunque, tale premessa, il remittente reputa non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma in esame, innanzitutto «per violazione del principio di legalità sostanziale», il cui fondamento reputa di individuare negli artt. 24, 97 e 113 Cost.

In particolare, il TAR siciliano non contesta «la previsione dell’attribuzione alle Regioni del potere di introdurre una procedura autorizzata nel contesto della disciplina dell’accesso alla fruizione di prestazioni sanitarie presso strutture private accreditate (se non per il fatto che detta individuazione avvenga per atto unilaterale)». Per contro, «ciò che appare non conforme al principio di legalità sostanziale è la mancata previsione dei criteri alla stregua dei quali detto potere dovrebbe essere disciplinato su base regionale, e conseguentemente esercitato dalle aziende sanitarie locali», specialmente ove si consideri che si tratta di «un potere autorizzatorio che condiziona la fruizione di prestazioni salvavita».

A riguardo, il giudice a quo rileva – in primo luogo – che non sarebbe «dato comprendere quale sia la funzione dell’esercizio del potere autorizzatorio in esame: se di accertamento della sussistenza della patologia, e di necessarietà della terapia, quali presupposti per l’accesso alla fruizione della prestazione; ovvero di contenimento del ricorso a strutture private, per ragioni legate alla finanza regionale». In altri termini, il contenuto ampio e indeterminato della norma renderebbe impossibile stabilire la legittimità del provvedimento impugnato, risultando impossibile valutare se l’esercizio del potere autorizzatorio sia avvenuto in conformità o meno con i criteri dettati dalla norma. Il risultato sarebbe, dunque, costituito – nel caso di specie – dalla assoluta indeterminatezza del potere demandato alla pubblica amministrazione, in violazione del principio di legalità sostanziale (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 200 e n. 32 del 2009 e n. 307 del 2003).

Né, d’altra parte, elementi per ricostruire il significato della norma potrebbero trarsi – secondo il remittente – dall’interpretazione sistematica della stessa, «giacché essa è stata calata ex abrupto nel contesto della disciplina della definizione concordata (e, dunque, non unilaterale, ex latere auctoritatis) delle prestazioni fruibili presso strutture private», ciò che conferma ulteriormente, sempre nella prospettiva del TAR siciliano, l’irragionevolezza della disciplina in esame e, dunque, la violazione anche dell’art. 3, secondo comma, Cost.

Difatti, sarebbe «solo nel contesto di tali accordi con gli erogatori privati del servizio o con le loro organizzazioni rappresentative» (interventi collocati a monte dell’accreditamento), e «non già mediante un provvedimento autoritativo unilaterale», che la Regione – sempre ad avviso del giudice a quo – «potrebbe individuare prestazioni o gruppi di prestazioni suscettibili di essere preventivamente autorizzati dalle unità sanitarie locali». Per contro, «l’inserimento di un ulteriore condizionamento autorizzatorio, la cui connotazione funzionale non è affatto chiara», risultando esso «privo di una adeguata disciplina dei presupposti e dei criteri di esercizio», sarebbe non conforme «al parametro costituzionale della ragionevolezza».

Infine, il TAR rimettente deduce l’esistenza di un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Si assume, infatti, che la norma censurata consentirebbe alle singole Regioni di «individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati», pure quando si tratti di prestazioni afferenti i livelli essenziali di assistenza stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza), allegato 1, e dunque anche quelle previste in favore di «nefropatici cronici in trattamento dialitico» e di «pazienti in fase terminale». La norma in esame, pertanto, avrebbe reso «maggiormente difficoltoso, su base regionale, l’accesso ad una prestazione inclusa tra i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie che invece non devono patire una differenziazione territoriale».

Nondimeno, qualora si dovesse ritenere – osserva conclusivamente il giudice a quo – che le prestazioni da fornire ai nefropatici cronici in trattamento dialitico non rientrino tra i livelli essenziali di assistenza, «la previsione del potere regionale in parola violerebbe gli artt. 3 e 32 Cost., ponendo una limitazione ulteriore, differenziata territorialmente, all’esercizio di un diritto fondamentale», qual’è quello alla salute.

1.3.— In forza di tali rilievi – e non senza osservare che la «rilevanza della questione discende dal fatto che il vizio si appunta non sulle modalità con cui il potere è stato esercitato», bensì direttamente «sulla norma attributiva del potere medesimo» (sulla cui base dovrebbe essere esaminata la legittimità del decreto impugnato nei giudizi a quibus) – il TAR remittente ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma suddetta.

2.— È intervenuto – in ciascuno dei giudizi – il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o in subordine non fondate.

2.1.— La difesa statale illustra, innanzitutto, il contenuto della norma censurata, rammentando che la stessa – nel contesto degli «Accordi contrattuali», previsti dall’art. 8-bis del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992 e finalizzati all’esercizio di attività sanitaria a carico del Servizio sanitario nazionale – stabilisce che le Regioni definiscano l’ambito degli stipulandi accordi contrattuali in campi specificamente individuati. In particolare, in base ad essa la Regione e le unità sanitarie locali, «anche attraverso valutazioni comparative della qualità e dei costi, definiscono accordi con le strutture pubbliche ed equiparate, comprese le aziende ospedaliero-universitarie, e stipulano contratti con quelle private e con i professionisti accreditati» indicando, tra l’altro, «il volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell’ambito territoriale della medesima unità sanitaria locale, si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza». In tale contesto è previsto che le Regioni possano «individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati».

Detta norma – osserva sempre la difesa statale – «si inserisce nel più ampio quadro della competenza delle Regioni in materia di tutela della salute e programmazione sanitaria», competenza, tuttavia, «da esercitarsi nel rispetto dei principi della legislazione statale e in particolare dell’obbligo di garantire l’equilibrio economico e finanziario». Come avrebbe, infatti, chiarito la giurisprudenza costituzionale, il coordinamento della finanza pubblica «passa ormai pacificamente per la previsioni di limiti alle spese regionali anche in materia sanitaria».

Sotto questo profilo – rileva l’Avvocatura generale dello Stato – non sarebbe inutile rammentare che la Regione Siciliana rientra tra quelle che hanno concluso accordi per il rientro dal disavanzo nel settore sanitario.

Tanto premesso, la finalità cui mira la norma censurata – e cioè la razionalizzazione e il contenimento della spesa pubblica in materia sanitaria, per soddisfare un’esigenza, la salvaguardia della finanza pubblica, «anch’essa primaria e costituzionalmente tutelata» – renderebbe evidente come siano ipotizzabili, al contrario di quanto sostenuto dal remittente, «chiari parametri atti a circoscrivere la discrezionalità dell’azione amministrativa nel determinare quali prestazioni siano soggette a preventiva autorizzazione». Ciò, oltretutto, rivelerebbe come l’organo amministrativo che ha adottato l’atto oggetto di impugnazione nei giudizi a quibus non abbia correttamente applicato i principi posti dal legislatore statale, sicché la questione al centro degli stessi non sarebbe quella della legittimità costituzionale della norma in esame, bensì «quella della illegittimità di un atto amministrativo per cattivo esercizio del potere conferito».

2.2.— Posto, dunque, che la norma in esame – prosegue la difesa statale – avrebbe affidato alle Regioni la determinazione delle prestazioni erogabili dal Servizio sanitario regionale, «contemperando le esigenze della finanza pubblica e quelle della tutela della salute attraverso la concreta valutazione delle realtà locali (quali, ad esempio, la localizzazione e l’efficienza delle strutture esistenti, la disponibilità finanziaria)», la stessa dovrebbe ritenersi indenne dai paventati profili di illegittimità costituzionale.

In particolare, sarebbe pienamente conforme al principio di legalità sostanziale la scelta di «rimettere ad un astratto e generale provvedimento autorizzatorio – i cui limiti, finalità e criteri sono predeterminati – la possibilità per gli assistiti di fruire di determinate prestazioni sanitarie, anche presso strutture accreditate diverse da quelle pubbliche».

Del pari, sarebbe da escludere che dalla norma censurata «possa dedursi una “abdicazione” da parte dello Stato alla determinazione dei livelli essenziali di assistenza», giacché essa «ha unicamente riguardo al controllo della spesa pubblica sub specie della individuazione, nelle singole realtà regionali, di quelle prestazioni erogabili a carico del servizio sanitario nazionale attraverso accordi di carattere generale (nel caso in esame, con strutture private)».

È negata, infine, la violazione dell’art. 32 Cost., giacché la disposizione in esame «non ha in alcun modo limitato la possibilità di accedere ad un trattamento sanitario “salvavita”, ma ha piuttosto previsto che sia regolamentata la fruizione dello stesso presso strutture private accreditate», non escludendo che l’assistito «possa essere utilmente indirizzato verso strutture pubbliche eroganti il medesimo servizio», senza, pertanto, né che sia stata introdotta alcuna differenziazione territoriale, né che sia stato reso maggiormente difficoltoso l’esercizio del diritto alla salute.

3.— Sono intervenuti – nel giudizio che trae origine dall’ordinanza di rimessione r.o. n. 352 del 2010 – i ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, per erroneità del presupposto interpretativo, ovvero, in subordine, fondate.

3.1.— Le parti private rilevano che – secondo una costante giurisprudenza costituzionale – la mancata sperimentazione, da parte del giudice a quo, della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità, tale da comportare il loro superamento, rende la questione sollevata manifestamente inammissibile (sono citate le ordinanze n. 110 del 2010, numeri 341, 268 e 205 del 2008 e n. 85 del 2007).

Detta evenienza ricorrerebbe nel caso in esame, giacché il TAR remittente muove dal presupposto che spetti all’Assessore regionale alla sanità l’individuazione delle prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione delle stesse presso le strutture private o i professionisti accreditati. In sostanza, la norma – in base a tale interpretazione – avrebbe l’intento di precludere in determinati casi la libertà del cittadino di rivolgersi alla struttura privata, così incidendo, però, su quel principio di libertà di scelta che risulta non solo stabilito dalla legge, ma che è stato riconosciuto come meritevole di tutela da parte della Corte costituzionale (è citata la sentenza n. 416 del 1995). In base ad esso, infatti, fermi restando tutti i poteri di controllo, indirizzo e verifica delle Regioni e delle aziende sanitarie locali (così come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale nelle sentenze n. 126 del 1994 e n. 283 del 1991), il cittadino risulta libero di scegliere – sottolineano ancora gli intervenienti – la struttura sanitaria e il professionista ai quali affidare la cura della sua salute.

3.2.— Tanto premesso, le parti private assumono che la norma di legge censurata, diversamente da come l’ha interpretata il giudice a quo, presuppone l’adozione, da parte delle Regioni, di un atto anch’esso di natura legislativa «che fissi quanto meno i criteri di attuazione della norma delegante». Infatti, la scelta di individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione delle stesse presso le strutture o i professionisti accreditati, implica – secondo le parti private – «una deroga al principio della libertà di scelta» e quindi richiede «una norma di pari forza» rispetto a quella che lo enuncia.

In altri termini, spetterebbe al legislatore regionale e non all’autorità amministrativa «il potere di stabilire in concreto, anche attraverso la previsione di specifici criteri di attuazione che si pongano come limiti all’esercizio del potere esecutivo in materia, le prestazioni o i gruppi di prestazioni per le quali sia necessaria la preventiva autorizzazione».

Accolta, pertanto, una simile interpretazione della norma censurata (coerente, peraltro, anche con l’inquadramento della regolamentazione dell’accreditamento presso strutture private o professionisti nella materia della tutela della salute, che in quanto oggetto di potestà legislativa concorrente richiede l’adozione di una legge regionale di dettaglio), le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la stessa dovrebbero ritenersi manifestamente inammissibili.

Difatti, «una volta escluso il potere dell’Assessore regionale della salute di individuare le prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione», i giudizi a quibus dovrebbero concludersi nel senso dell’annullamento del decreto impugnato.

3.3.— Le parti private, tuttavia, nell’ipotesi in cui la Corte costituzionale non dovesse accogliere tale interpretazione, prospettano l’illegittimità costituzionale della norma censurata per le medesime ragioni individuate nelle ordinanze di rimessione.

In particolare, muovendo dall’assunto che spetti allo Stato «assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali, tra cui indubbiamente va ascritto il diritto alla salute», si ribadisce come appartenga «alla sfera della legislazione statale la determinazione dei criteri necessari per l’individuazione delle prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali prevedere la necessità della preventiva autorizzazione amministrativa».

Diversamente opinando, infatti, resterebbe affidato a ciascuna Regione «un potere assolutamente illimitato e non circoscritto in materia, tale da pregiudicare l’uniforme tutela nell’ambito del territorio nazionale del diritto alla salute, soprattutto quando, come nel caso in esame, vengano in rilievo pratiche terapeutiche e cure salva vita».

Di qui, pertanto, l’ipotizzata violazione del principio di legalità sostanziale, e dunque degli artt. 24, 97 e 113 Cost., nonché il contrasto con gli artt. 3, 32 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, con tre ordinanze di analogo contenuto, ha sollevato altrettante questioni di legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 3, 32, 97, 113 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione – dell’articolo 8-quinquies, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’articolo 79, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

Si ipotizza, in primo luogo, che la norma – secondo cui le Regioni «possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati» – violerebbe gli artt. 3, 97 e 113 Cost., che danno fondamento al principio di «legalità sostanziale». In particolare, secondo il remittente, sebbene non sia censurabile ex se «la previsione dell’attribuzione alle Regioni del potere di introdurre una procedura autorizzatoria nel contesto della disciplina dell’accesso alla fruizione di prestazioni sanitarie presso strutture private accreditate (se non per il fatto che detta individuazione avvenga per atto unilaterale)», nella specie però, venendo oltretutto in rilievo prestazioni salvavita, il principio di legalità sostanziale risulterebbe disatteso a causa della «mancata previsione dei criteri alla stregua dei quali detto potere dovrebbe essere disciplinato su base regionale, e conseguentemente esercitato dalle aziende sanitarie locali».

In secondo luogo, viene ipotizzata la violazione degli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera m), Cost., giacché la norma censurata – ove ritenuta applicabile anche alle prestazioni afferenti i livelli essenziali di assistenza stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza), allegato 1, e dunque pure a quelle previste in favore di «nefropatici cronici in trattamento dialitico» e di «pazienti in fase terminale» – avrebbe reso «maggiormente difficoltoso, su base regionale, l’accesso ad una prestazione inclusa tra i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie che invece non devono patire una differenziazione territoriale».

Infine, si ipotizza la violazione degli artt. 3 e 32 Cost., sul presupposto che la norma censurata verrebbe a porre «una limitazione ulteriore, differenziata territorialmente, all’esercizio di un diritto fondamentale», qual è quello alla salute, incidendo in particolare sul principio della cosiddetta “libertà di scelta”.

2.— In via preliminare, deve essere disposta la riunione dei giudizi, atteso che la loro identità di oggetto ne rende possibile la definizione con un’unica pronuncia.

3.— Sempre in limine, risulta necessario ricostruire il contenuto della disposizione censurata, alla luce del contesto normativo complessivo in cui essa si inserisce.

3.1.— In proposito, deve rilevarsi che quella parte (la seconda) della lettera b) del comma 2 dell’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, contro cui si appuntano le censure del giudice remittente, risulta essere stata inserita dal già citato art. 79, comma 1-quinquies, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008. In base ad essa le Regioni «possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati».

Tale disposizione, tuttavia, risulta fare corpo con il restante contenuto del predetto art. 8-quinquies, che prevede – sempre al comma 2 – la definizione di «accordi con le strutture pubbliche ed equiparate, comprese le aziende ospedaliero-universitarie», e la conclusione di «contratti con quelle private e con i professionisti accreditati», gli uni come gli altri finalizzati ad indicare:

a) gli obiettivi di salute e i programmi di integrazione dei servizi;

b) il volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell’ambito territoriale della medesima unità sanitaria locale, si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza. Ed è con riferimento a tale disposizione che la stessa lettera b) prevede che le Regioni possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati;

c) i requisiti del servizio da rendere, con particolare riguardo ad accessibilità, appropriatezza clinica e organizzativa, tempi di attesa e continuità assistenziale;

d) il corrispettivo preventivato a fronte delle attività concordate, globalmente risultante dalla applicazione dei valori tariffari e della remunerazione extra-tariffaria delle funzioni incluse nell’accordo, da verificare a consuntivo sulla base dei risultati raggiunti e delle attività effettivamente svolte secondo le indicazioni regionali di cui al comma 1, lettera d);

e) il debito informativo delle strutture erogatrici per il monitoraggio degli accordi pattuiti e le procedure che dovranno essere seguite per il controllo esterno della appropriatezza e della qualità della assistenza prestata e delle prestazioni rese, secondo quanto previsto dall’articolo 8-octies;

e-bis) la modalità con cui viene comunque garantito il rispetto del limite di remunerazione delle strutture correlato ai volumi di prestazioni, concordato ai sensi della lettera d), prevedendo che in caso di incremento a seguito di modificazioni, comunque intervenute nel corso dell’anno, dei valori unitari dei tariffari regionali per la remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera, delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, nonché delle altre prestazioni comunque remunerate a tariffa, il volume massimo di prestazioni remunerate, di cui alla lettera b), si intende rideterminato nella misura necessaria al mantenimento dei limiti indicati alla lettera d), fatta salva la possibile stipula di accordi integrativi, nel rispetto dell’equilibrio economico-finanziario programmato.

3.2.— Tanto premesso, deve rilevarsi come sia possibile, nella specie, pervenire ad un’interpretazione sistematica della disposizione censurata, collocando l’attività da essa prevista – l’individuazione delle «prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell’azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati» – comunque all’interno degli «accordi con le strutture pubbliche ed equiparate, comprese le aziende ospedaliero-universitarie» e dei «contratti con quelle private e con i professionisti accreditati» (accordi e contratti che possono, rispettivamente, essere raggiunti e conclusi anche mediante intese con le organizzazioni rappresentative di quei soggetti), entrambi previsti dalla prima parte della lettera b) del comma 2 dell’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992.

Diversamente, infatti, da quanto ipotizza il giudice a quo, nulla osta a tale interpretazione: non la formulazione letterale della disposizione censurata (giacché proprio l’uso della locuzione “possono individuare” allude ad una possibilità dipendente, per l’appunto, dall’avvenuta conclusione degli accordi e contratti suddetti), né la sua collocazione sistematica (ponendosi la stessa all’interno di un articolo la cui rubrica è pur sempre intitolata «Accordi contrattuali»).

4.— Così ricostruito il contenuto della norma in esame, la censura di violazione degli artt. 3, 97 e 113 Cost., per asserito contrasto con il principio di legalità sostanziale,  non è fondata.

4.1.― Non è esatta, infatti, l’affermazione secondo cui difetterebbero, nel caso di specie, i criteri in grado di predeterminare le modalità di esercizio, da parte della Regione, del potere autorizzatorio.

Proprio il collegamento che unisce – nel testo della norma censurata – l’autorizzazione regionale e gli accordi con i soggetti interessati, nel rendere palese la finalizzazione di tali accordi al raggiungimento di determinati scopi (e particolarmente, l’individuazione degli «obiettivi di salute» e dei «programmi di integrazione dei servizi», nonché la determinazione del «volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell’ambito territoriale della medesima unità sanitaria locale, si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza»), definisce anche l’ambito entro il quale deve essere esercitato il potere autorizzatorio della Regione.

Particolare valore significativo, nel delineato contesto normativo, deve essere attribuito a quanto precisato nella lettera c) del citato comma 2, nella parte in cui indica, come necessari a giustificare l’intervento dell’autorità regionale in materia, i «requisiti del servizio da rendere, con particolare riguardo ad accessibilità, appropriatezza clinica e organizzativa, tempi di attesa e continuità assistenziale».

4.2.— Deve, pertanto, escludersi – nel caso in esame – la violazione del principio di legalità sostanziale, giacché esso può ritenersi soddisfatto ogni qual volta si rinvenga l’esistenza di criteri, nel testo normativo, in grado di orientare l’azione dell’autorità amministrativa.

In relazione a tale specifico profilo, deve ribadirsi – anche nel caso ora in esame – quanto affermato da questa Corte in sede di scrutinio di una norma di legge regionale, sospettata di illegittimità costituzionale proprio perché «avrebbe reintrodotto l’obbligo di un’autorizzazione per l’accesso alle strutture private accreditate, subordinando il suo rilascio all’insufficienza della struttura pubblica».

Infatti, muovendo dalla constatazione che – nel sistema sanitario nazionale – «il principio di libera scelta non appare affatto assoluto, dovendo invece essere contemperato con altri interessi, costituzionalmente tutelati, puntualmente indicati da norme di principio della legislazione statale», si è riconosciuto come, nell’evoluzione della disciplina in materia di sanità, «subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario» (sentenza n. 200 del 2005).

In questo modo, secondo la citata pronuncia, «si è temperato il predetto regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione propri delle Regioni e la stipula di appositi “accordi contrattuali” tra le USL competenti e le strutture interessate per la definizione di obiettivi, volume massimo e corrispettivo delle prestazioni erogabili» (ovvero proprio gli accordi previsti dall’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992).

Particolare rilievo, dunque, questa Corte ha attribuito – al fine di escludere la fondatezza della questione allora sollevata – alla stipulazione di tali accordi, giacché proprio l’esistenza di simili «forme di contrattazione», intercorrenti «tra Giunta regionale e USL, da un lato, ed i vari soggetti accreditati, pubblici e privati, erogatori delle prestazioni, dall’altro», costituisce la circostanza idonea ad escludere «il preteso carattere di arbitrarietà delle scelte poste in essere in questo settore dalle amministrazioni competenti».

4.3.— Anche nel caso ora in esame, pertanto, è proprio la circostanza che l’esercizio del potere di autorizzazione avvenga sulla base di tale attività di contrattazione ad escludere l’arbitrarietà del suo esercizio e, con esso, la violazione del principio di legalità sostanziale da parte della norma che detto potere contempla.

5.— Non fondata è la censura di violazione degli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.

5.1.— A parte, infatti, la constatazione che nel caso di specie si assume il contrasto di una norma statale con una disposizione costituzionale (la seconda delle due appena menzionate) che radica una competenza esclusiva dello Stato, deve osservarsi come la giurisprudenza della Corte sia costante nel ritenere che «la fissazione dei livelli essenziali di assistenza si identifica esclusivamente nella “determinazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni, da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale”, non essendo “pertanto inquadrabili in tale categoria le norme volte ad altri fini”» (ex multis, sentenza n. 371 del 2008).

Su tale presupposto, pertanto, si deve ribadire che la «natura intrinseca dei livelli essenziali delle prestazioni, previsti dalla norma costituzionale prima citata, esclude, per evidenti ragioni logico-giuridiche, che la stessa norma possa essere indicata come fondamento di un principio di libertà di scelta» delle strutture presso cui ricevere prestazioni di cura, giacché tale principio «introduce in capo all’utente un diritto non incidente sui livelli quantitativi e qualitativi delle prestazioni», sicché gli interventi del legislatore destinati ad influire su tale libertà non rilevano «sul versante delle prestazioni, ma su quello delle modalità con le quali l’utente può fruire delle stesse» (così la sentenza n. 387 del 2007, la quale, sebbene si riferisca specificamente alla scelta tra strutture pubbliche e private operanti nel campo della prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze, reca un’affermazione dotata di valenza generale).

6.— Neppure è fondata, infine, la censura di violazione degli artt. 3 e 32 Cost., sollevata sub specie di compressione che subirebbe la libertà di scelta dell’interessato.

6.1.— In relazione a tale aspetto, la costante giurisprudenza costituzionale non solo ha affermato che la «libertà di scegliere da parte dell’assistito chi chiamare a fornire le prestazioni sanitarie non comporta, affatto, una libertà sull’an e sull’esigenza delle prestazioni» (ciò che giustifica la previsione di «poteri di controllo, indirizzo e verifica delle regioni e delle unità sanitarie locali» e dunque il persistere del sistema autorizzatorio; sentenza n. 416 del 1995), ma ha anche precisato che l’esigenza di salvaguardare «il diritto alla scelta del medico e del luogo di cura» deve essere «contemperata con gli altri interessi costituzionalmente protetti» (sentenza n. 267 del 1998).

Questa Corte, in particolare, ha chiarito – come si è in precedenza ricordato – come «subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario» (citata sentenza n. 200 del 2005), sicché deve concludersi che «il principio di libera scelta non è assoluto e va contemperato con gli altri interessi costituzionalmente protetti, in considerazione dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore ordinario incontra in relazione alle risorse finanziarie disponibili» (sentenza n. 94 del 2009).

Questa conclusione è conforme, del resto, alla configurazione del diritto alle prestazioni sanitarie come “finanziariamente condizionato”, giacché «l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario» (ex multis, sentenza n. 111 del 2005).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8-quinquies, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’articolo 79, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sollevata – in riferimento agli articoli 3, 97 e 113 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo 8-quinquies, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dall’articolo 79, comma 1-quinquies, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, sollevate – in riferimento agli articoli 3, 32 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente e Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2011.