Sentenza n. 229 del 2014

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SENTENZA N. 229

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Sabino                         CASSESE                                        Presidente

-           Giuseppe                     TESAURO                                         Giudice

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                       ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’art. 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze del 16 ottobre e del 20 dicembre 2012 (numero due ordinanze), rispettivamente iscritte ai nn. 8, 44 e 45 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di costituzione del Consiglio notarile dei distretti riuniti di Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo, del Consiglio notarile distrettuale di Arezzo e del Consiglio notarile di Reggio Emilia, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 giugno 2014 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Paolo Mazzoli per il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo e il Consiglio notarile distrettuale di Arezzo, Guglielmo Saporito per il Consiglio notarile di Reggio Emilia e l’avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 16 ottobre 2012 (r.o. n. 8 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’art. 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), in riferimento all’art. 76 della Costituzione.

La Corte ha esposto che il notaio V.T., ai sensi dell’art. 158 della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 45 del d.lgs. n. 249 del 2006, aveva proposto reclamo avverso la decisione, depositata il 18 gennaio 2010, con la quale la Commissione regionale di disciplina gli aveva irrogato la sanzione di euro 2.500,00 «in ordine alla violazione di cui all’art. 28 della legge notarile, in essa assorbita quella ulteriormente contestatagli di cui all’art. 48 della medesima legge, ritenendo la sussistenza della prima consistita nell’aver ricevuto, in data 10 luglio 2007, due procure generali nelle quali era stata inserita la clausola che prevedeva la facoltà del rappresentante di “stipulare convenzioni matrimoniali, ed in particolare convenzioni di separazioni dei beni, di comunioni convenzionali, di costituzione di fondi patrimoniali, e le medesime convenzioni modificare”».

La decisione era stata impugnata dal notaio dinanzi alla Corte d’appello di Torino. Quest’ultima, con sentenza 15 dicembre 2010, n. 123, aveva respinto il gravame, affermando la nullità delle due procure per impossibilità dell’oggetto e respingendo la tesi difensiva secondo cui gli atti compiuti dal notaio non avrebbero potuto essere considerati manifestamente contrari all’ordine pubblico, non essendosi ancora formato un consolidato orientamento interpretativo, contrario all’ammissibilità della rappresentanza volontaria in materia di convenzioni matrimoniali.

La Corte territoriale, inoltre, aveva respinto anche il reclamo incidentale, formulato dal Ministero della giustizia e dall’Archivio notarile distrettuale di Cuneo, confermando la decisione circa l’assorbimento della seconda contestazione, sul rilievo che i vincoli di forma imposti dall’art. 48 della legge notarile non potevano valere per i negozi nulli.

Avverso tale sentenza (non notificata), il notaio V.T. aveva proposto ricorso per cassazione. Il Ministero della giustizia, intimato, si era costituito in giudizio, con controricorso.

Tanto premesso, la Corte di legittimità ha esaminato due questioni: la prima attinente all’individuazione del rito applicabile ai ricorsi proposti dinanzi alla Corte di cassazione in materia disciplinare notarile; la seconda relativa all’eccezione di intempestività del ricorso, avanzata dal Ministero della giustizia sul presupposto che, nella specie, dovesse trovare applicazione il termine semestrale di decadenza dall’impugnazione attualmente previsto dall’art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, come novellato dall’art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), e non più il termine annuale.

Circa la prima questione «(che investe direttamente la valutazione sulla legittimità del rito instaurato in questa sede e la conseguente legittimazione della II Sezione ordinaria ad esaminare i motivi del ricorso)», il Collegio rimettente, con articolata motivazione non implausibile, ha ritenuto che il procedimento a quo «sia stato ritualmente incardinato presso questa Sezione per la conseguente trattazione camerale e la correlata decisione».

Quanto alla seconda questione, il rimettente, con motivazione ancora una volta non implausibile, ha ritenuto infondata l’eccezione di intempestività del ricorso, «dal momento che, nella fattispecie, il comma 2 del citato art. 158-ter della legge n. 89 del 1913 (come introdotto dall’art. 46 del d.lgs. n. 249 del 2006), applicabile appunto “ratione temporis”, prevede che, in difetto della notificazione della sentenza impugnata, il ricorso per cassazione deve essere proposto nel termine di un anno dal deposito della predetta sentenza, con ciò contemplando una disciplina “ad hoc” per la materia dei procedimenti disciplinari notarili, la cui specialità, perciò, non può ritenersi (anche in difetto della previsione di specifiche disposizioni contrarie) derogata dalla sopravvenuta previsione del novellato art. 327, comma 1, c. p. c., applicabile, invece, in generale, ove non diversamente disposto».

Superate così le questioni preliminari, la Corte ha osservato che il ricorrente, al fine di potersi giovare della prescrizione dell’infrazione ascrittagli, ha chiesto, con il primo motivo, di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge n. 89 del 1913.

La rimettente ha ricostruito sinteticamente il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, evidenziando, in particolare, quanto segue: a) l’art. 146, primo comma, della legge notarile n. 89 del 1913, «nella sua originaria formulazione, prevedeva, per le violazioni disciplinari in essa indicate, un termine prescrizionale di quattro anni, senza contemplare alcuna ipotesi di interruzione né di sospensione della prescrizione, neppure per l’eventualità in cui l’infrazione avesse rilievo penale»; b) secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, terza sezione civile, sentenze 15 gennaio 2007, n. 644; 28 marzo 2006, n. 7088; 17 dicembre 2004, n. 23515 e 17 febbraio 1998, n. 1766), detta prescrizione doveva considerarsi compiuta decorsi quattro anni dalla commissione dell’infrazione, «ancorché vi fossero stati atti di procedura»; c) nessuna interruzione, quindi, poteva ipotizzarsi «a causa del procedimento disciplinare, della contestazione delle violazioni, delle pronunce del Consiglio notarile o in sede giurisdizionale»; d) la Corte costituzionale, con sentenza n. 40 del 1990, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913 «nella parte in cui non prevede che l’azione disciplinare rimanga sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza quando, per il fatto illecito, sia promosso processo penale»; e) secondo la giurisprudenza di legittimità il decorso del termine prescrizionale costituisce causa di improcedibilità dell’azione disciplinare, operante ex lege, da rilevarsi anche d’ufficio e in sede di legittimità, con conseguente cassazione senza rinvio delle sentenze impugnate e, per altro verso, la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 249 del 2006, in virtù dell’art. 54 dello stesso decreto legislativo, è applicabile ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore solo se più favorevole (Corte di cassazione, terza sezione civile, sentenza 15 gennaio 2007, n. 644 e ordinanza 29 gennaio 2010, n. 2031).

La Corte rimettente ha quindi posto in evidenza che l’art. 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), indica, tra i principi e i criteri di delega, la «previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale e revisione dell’istituto della recidiva», mentre l’art. 146 della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, composto da quattro commi, contempla, al primo comma, «l’allungamento del termine di prescrizione da quattro a cinque anni» e al secondo comma «prevede una disciplina del tutto nuova in tema di interruzione della prescrizione, risultando stabilito che essa è, per l’appunto, interrotta dalla richiesta di apertura del procedimento disciplinare e dalle decisioni che applicano una sanzione disciplinare, aggiungendosi, altresì, che la prescrizione, se interrotta, ricomincia a decorrere dal giorno della interruzione, e con la precisazione che, in caso di esercizio di plurimi atti interruttivi, la prescrizione decorre nuovamente dall’ultimo di essi, prevedendosi, tuttavia, che, pur in caso di più interruzioni, non può essere superato il limite massimo di dieci anni».

Inoltre, ha rimarcato il Collegio, «Nell’articolato dello schema del decreto legislativo adottato dal Ministero della Giustizia in attuazione del richiamato art. 7 della legge n. 246 si affermava che, con l’art. 29, era stata appunto prevista la sostituzione dell’art. 146 della legge notarile relativo alla disciplina della prescrizione, evidenziandosi che, poiché la predetta disposizione aveva dato luogo a gravi problemi applicativi, a causa della brevità del termine e della mancata previsione di cause di interruzione, la nuova disposizione allungava questo termine e ne prevedeva espressamente l’interruzione e la sospensione, specificandosi che, in particolare, la previsione della sospensione della prescrizione in caso di azione penale era stata correlata alla previsione della sospensione dello stesso procedimento disciplinare, in pendenza di quello penale, in conformità alla sentenza della Corte costituzionale 2 febbraio 1990, n. 40, che aveva dichiarato, sul punto, l’incostituzionalità del precedente disposto del medesimo art. 146».

Alla luce di tutto ciò, la Corte di cassazione ha motivato la censura affermando che la disciplina dell’interruzione della prescrizione non sarebbe riconducibile ad alcuno dei princìpi e criteri direttivi elencati dall’art. 7, comma 1, lettera e), della legge delega n. 246 del 2005, posto che il citato riferimento alla «previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale e revisione dell’istituto della recidiva» concerne un diverso istituto, sebbene connesso.

In particolare, quanto alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, la Corte rimettente ha osservato che il legislatore delegato, «a fronte di una cornice di principi e criteri direttivi riferita ad un oggetto definito e ben delimitato, trasparente dall’art. 7 della legge n. 246 del 2005 (rivolto alla regolamentazione dell’istituto della sospensione della prescrizione in correlazione con la pendenza del procedimento penale e alla revisione della recidiva), ha stabilito – nei primi due commi dell’art. 146 della cosiddetta legge notarile riformata – una nuova disciplina che, pur attenendo all’istituto della prescrizione (anteriormente riferito all’azione disciplinare ed ora correlato propriamente all’illecito disciplinare), ha involto la regolamentazione dell’aspetto della sua interruzione (al comma 2), prima del tutto assente nella predetta legge (e ritenuto assolutamente inoperativo in tale materia dalla consolidata giurisprudenza), con la ulteriore previsione dell’allungamento a cinque anni del relativo termine prescrizionale (al comma 1). In tal senso si reputa che con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006 il Governo delegato abbia violato i principi e criteri direttivi e superato il limite oggettivo presenti nella delega, coinvolgendo altre situazioni che, sia pur connesse, hanno determinato un illegittimo esercizio del potere legislativo discrezionale, siccome svincolato, appunto, dai rigidi criteri direttivi predeterminati dalla legge delega, essendo indubbia la diversa natura e la differente efficacia tra gli istituti della sospensione e della interruzione della prescrizione, i quali non presentano alcun rapporto di progressività (cfr. Cass. n. 6901 del 2003 e Cass. 10254 del 2002)». Il d.lgs. n. 249 del 2006, secondo la Corte, avrebbe dunque introdotto un trattamento normativo peggiorativo in assenza di un esplicito ed inequivoco riferimento nella legge delega.

In punto di rilevanza, il giudice a quo ha poi osservato che, «ricadendo l’illecito disciplinare per il quale il ricorrente è stato sanzionato nell’ambito temporale di applicabilità del nuovo art. 146 della legge n. 89 del 1913 (essendo stato riportato in atti come commesso il 10 luglio 2007), l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dei primi due commi dello stesso art. 146, come riformato con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, comporterebbe, non applicandosi ipotesi interruttive e non tenendosi conto dell’allungamento del termine prescrizionale a cinque anni, che l’infrazione disciplinare (in virtù della reviviscenza del precedente disposto dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913, il quale prevedeva la durata della prescrizione in quattro anni senza contemplare ipotesi interruttive) si sarebbe già prescritta al 10 luglio 2011, con la conseguenza che, nella presente sede di legittimità, dovrebbe pervenirsi (secondo la costante giurisprudenza di questa Corte) alla declaratoria di improcedibilità dell’azione disciplinare a carico del dr.» V.T.

Con atto depositato il 25 febbraio 2013, si è costituito il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo eccependo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Con atto del 26 febbraio 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte costituzionale di «rigettare siccome infondata la questione di costituzionalità».

Secondo la difesa statale, la norma di delega deve essere interpretata alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 1990, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913 nella parte in cui non prevede che l’azione disciplinare rimanga sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza quando, per il fatto illecito, sia promosso processo penale.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale in ordine al rapporto tra legge delega e legge delegata ai sensi dell’art. 76 Cost., ha evidenziato che la finalità della norma, nel suo collegamento con la citata sentenza n. 40 del 1990, «stava nel rendere applicabile nell’ordinamento notarile la sanzione disciplinare della destituzione, a fronte, oltre tutto, di una durata della prescrizione (quattro anni) oltremodo breve». Infatti, ha proseguito la difesa dello Stato, «nel ragionamento della sentenza la preoccupazione di incostituzionalità stava nella circostanza che “il breve termine di prescrizione previsto dalla legge” andasse a pregiudizio della irrogazione della sanzione in ragione delle lungaggini processuali, oltretutto in un contesto nel quale al procedimento disciplinare doveva poi sommarsi il giudizio disciplinare».

Pertanto, secondo l’Avvocatura generale, il legislatore delegato, attraverso l’istituto dell’interruzione della prescrizione e il maggior termine per essa previsto, avrebbe inteso garantire proprio l’applicabilità in concreto della destituzione.

2.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 20 dicembre 2012, (r.o. n. 44 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, in riferimento all’art. 76 Cost., affermando che il legislatore delegato sarebbe incorso in un eccesso di delega.

Il Collegio rimettente ha precisato che il giudizio a quo concerne il ricorso per cassazione proposto dal notaio A.V. avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 1° aprile 2011, depositata il 19 aprile 2011, con cui il giudice di secondo grado aveva respinto il reclamo contro la decisione della Commissione regionale di disciplina per l’Emilia-Romagna del 4 giugno 2009, che aveva riconosciuto il professionista colpevole degli addebiti di cui agli artt. 36 e 38 del codice deontologico, per aver redatto un gran numero di atti tra il giugno ed il 28 dicembre 2007, dimostrando frettolosità e violazione del principio di personalità della prestazione notarile.

In particolare, la Corte di cassazione ha premesso che, secondo la Corte territoriale, l’elevato numero degli appuntamenti e degli atti raccolti non si conciliava con la possibilità che la prestazione del notaio fosse stata resa personalmente. Né ciò poteva essere smentito dal collegamento fra vari atti, non essendo possibile ipotizzarne la lettura completa in pochi minuti, come nel caso emblematico in cui 29 atti collegati risultavano sottoscritti alle ore 19,05, alle ore 19,06 ed alle ore 19,10 del 18 luglio 2007. La Corte d’appello, pertanto, riteneva congrua l’applicazione della misura di quattro mesi di sospensione, considerato anche che, in precedenza, era stata inflitta all’incolpato la sanzione della censura per altra violazione. Avverso questa sentenza il notaio A.V. proponeva ricorso per cassazione. Resisteva, con controricorso, il Consiglio notarile di Reggio Emilia, che ha anche presentato ricorso incidentale.

Con memoria presentata a norma dell’art. 380-bis, secondo comma, cod. proc. civ., il ricorrente, in via preliminare, deduceva l’intervenuta prescrizione dell’illecito disciplinare, prospettando la non manifesta infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, per supposto eccesso di delega della nuova previsione rispetto alla legge delega n. 246 del 2005, con violazione dell’art. 76 Cost.

Ciò premesso, la rimettente, dopo aver dichiarato di «far proprie le osservazioni già mosse da questa Corte (Sez. II) con ordinanza n. 17697/2012», ne ha riproposto il contenuto specificando, quanto alla rilevanza nel giudizio a quo, che «ricadendo l’illecito disciplinare per il quale il ricorrente è stato sanzionato nell’ambito temporale di applicabilità del nuovo art. 146 della legge n. 89 del 1913 (essendo stato riportato in atti come commesso entro il dicembre 2007), l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dei primi due commi dello stesso art. 146, come riformato con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, comporterebbe, non applicandosi ipotesi interruttive e non tenendosi conto dell’allungamento del termine prescrizionale a cinque anni, che l’infrazione disciplinare (in virtù della reviviscenza del precedente disposto dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913, il quale prevedeva la durata della prescrizione in quattro anni senza contemplare ipotesi interruttive) si sarebbe già prescritta nel dicembre 2011, con la conseguenza che, nella presente sede di legittimità, dovrebbe pervenirsi (secondo la costante giurisprudenza di questa Corte) alla declaratoria di improcedibilità dell’azione disciplinare a carico del dr.» A.V.

Con atto depositato il 27 marzo 2013, si è costituito il Consiglio notarile di Reggio Emilia chiedendo «che la questione di legittimità costituzionale venga risolta escludendo l’ipotizzato contrasto con l’art. 76 Cost.».

Con atto depositato il 28 marzo 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte costituzionale di «rigettare siccome infondata la questione di costituzionalità», riproponendo le medesime osservazioni già articolate con riferimento alla ordinanza di rimessione redatta dalla sezione seconda della Corte di legittimità.

3.– La Corte di cassazione, con ordinanza del 20 dicembre 2012 (r.o. n. 45 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, in riferimento all’art. 76 Cost., affermando che il legislatore delegato sarebbe incorso in un eccesso di delega.

La Corte rimettente ha precisato che il giudizio a quo concerne il ricorso per cassazione proposto dal Consiglio notarile distrettuale di Arezzo avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze depositata il 19 aprile 2010, con cui il giudice di secondo grado, su reclamo del notaio F.M., aveva annullato la decisione della Commissione regionale di disciplina per la Toscana del 20 aprile 2009, che aveva inflitto al professionista la sanzione dell’avvertimento, riconoscendolo responsabile della violazione di norme deontologiche, per aver omesso di indicare i luoghi di nascita in alcuni atti, per non aver indicato la cittadinanza in atti in cui erano intervenuti stranieri, per aver indicato prezzi di acquisto incongrui rispetto ai mutui contratti, per aver indicato che il soggetto acquirente avrebbe trasferito la sua residenza nel Comune dell’acquisto, quando già era ivi residente, e, soprattutto, per aver posto in essere varie incongruenze grammaticali nei contratti stipulati.

In particolare, la Corte di cassazione ha premesso che la Corte territoriale, evidenziato che la sanzione era stata irrogata dalla Commissione perché i comportamenti del notaio integravano «reiterate omissioni di diligenza nell’esecuzione degli incarichi a lui affidati e conseguente inosservanza del contenuto di norme deontologiche, artt. 50 e 59», affermava che il «richiamo all’art. 50 del codice deontologico era fuori di luogo, perché atteneva alla vendita di autoveicoli, mentre l’art. 59 era norma pleonastica, poiché richiamava l’esigibilità del rispetto delle norme deontologiche; che nella fattispecie non si trattava di violazione di norme deontologiche, ma solo di attività disordinata […] da parte del notaio».

Con memoria presentata a norma dell’art. 380-bis, secondo comma, cod. proc. civ., il ricorrente, in via preliminare, deduceva l’intervenuta prescrizione dell’illecito disciplinare, prospettando, la non manifesta infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, per supposto eccesso di delega della nuova previsione rispetto alla legge delega n. 246 del 2005, con violazione dell’art. 76 Cost.

Ciò premesso, la Corte rimettente, dopo aver dichiarato di «far proprie le osservazioni già mosse da questa Corte (Sez. II) con ordinanza n. 17697/2012», ne ha riproposto il contenuto specificando, quanto alla rilevanza nel giudizio a quo, che «ricadendo l’illecito disciplinare per il quale il ricorrente è stato sanzionato nell’ambito temporale di applicabilità del nuovo art. 146 della legge n. 89 del 1913 (essendo stato riportato in atti come commesso entro il 12 marzo 2008), l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dei primi due commi dello stesso art. 146, come riformato con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, comporterebbe, non applicandosi ipotesi interruttive e non tenendosi conto dell’allungamento del termine prescrizionale a cinque anni, che l’infrazione disciplinare (in virtù della reviviscenza del precedente disposto dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913, il quale prevedeva la durata della prescrizione in quattro anni senza contemplare ipotesi interruttive), si sarebbe già prescritta il 12 marzo 2012, con la conseguenza che, nella presente sede di legittimità, dovrebbe pervenirsi (secondo la costante giurisprudenza di questa Corte) alla declaratoria di improcedibilità dell’azione disciplinare a carico del dr.» F.M.

Con atto depositato il 19 marzo 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo a questa Corte di «rigettare siccome infondata la questione di costituzionalità», riproponendo le medesime osservazioni già articolate con riferimento all’ordinanza di rimessione della sezione seconda della Corte di cassazione.

Con atto depositato il 2 aprile 2013, si è costituito il Consiglio notarile distrettuale di Arezzo eccependo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Il 30 maggio 2014 il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo, e il Consiglio notarile distrettuale di Arezzo hanno depositato memorie di identico contenuto, chiedendo alla Corte di dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale.

Le difese dei detti Consigli hanno illustrato preliminarmente il quadro normativo precedente alla legge delega n. 246 del 2005 ponendo in evidenza, in particolare, il problema legato alla sostanziale impossibilità di concludere il procedimento disciplinare entro il termine quadriennale di prescrizione e ricordando, in proposito, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 40 del 1990, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 146 della legge n. 89 del 1913 nella parte in cui non prevedeva che l’azione disciplinare rimanesse sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza quando, per il fatto illecito, fosse stato promosso processo penale. Le parti hanno poi sottolineato che la legge n. 246 del 2005, in quanto legge di semplificazione, è soggetta ai principi e criteri direttivi indicati dall’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa) per le leggi annuali di semplificazione e riassetto normativo. Tale articolo – è evidenziato – «ha modificato l’idea stessa di semplificazione […] introducendo l’idea del riassetto sostanziale delle materie, da attuare mediante decreti legislativi di riforma dei singoli settori».

Solo in questa prospettiva, secondo la tesi difensiva, sarebbe possibile individuare la reale ampiezza della delega e addivenire ad una corretta interpretazione della disposizione impugnata.

In particolare, circa la ratio della legge di semplificazione, è richiamato il parere n. 2 del 2004 reso dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato, nella parte in cui, con riferimento alla legge n. 229 del 2003 che aveva riformulato il citato art. 20 della legge n. 59 del 1997, si afferma che «ciò che cambia è la portata, per così dire, “quantitativa” dell’intervento innovativo, poiché per i decreti legislativi di riassetto vi sono criteri di delega più ampi e incisivi, che autorizzano il legislatore delegato non soltanto ad apportare modifiche di coordinamento formale alla disciplina di rango legislativo, ma anche a consistenti innovazioni di merito alla disciplina codificata».

Del resto, hanno proseguito le parti, la sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato, con il parere n. 1063 del 2006, si è espressa favorevolmente sullo schema di decreto legislativo «affermando la corrispondenza del testo alle finalità espressamente indicate dal legislatore delegato, ritenendolo un intervento normativo finalizzato al riordino complessivo della materia». Peraltro, nel periodo di applicazione, la disposizione censurata avrebbe mostrato una «oggettiva efficacia nel contrasto (e, pertanto, nella prevenzione) di fenomeni di violazione di legge o del Codice deontologico da parte della classe notarile».

Dunque, secondo le difese, la norma impugnata sarebbe stata male interpretata dal collegio rimettente in quanto «La Corte di Cassazione […] sostanzialmente si è limitata alla analisi della lettera dell’art. 7, comma 1, lett. e), n. 3 della legge n. 246 del 2005, senza cogliere le più ampie finalità del contesto di semplificazione in cui esso si inserisce e dal quale […] discendono criteri direttivi senz’altro più ampi».

A sostegno della tesi è richiamata la giurisprudenza costituzionale relativa al rapporto tra legge delegante e legge delegata e, in particolare, il principio secondo cui «la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno larga in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega, sicché la valutazione dell’eccesso di delega va fatta in rapporto alla ratio della delega, onde stabilire se la norma delegata sia con questa coerente» (sono citate le sentenze n. 119 del 2013; n. 162 del 2012 e n. 280 del 2004).

I Consigli notarili pervengono alla conclusione che «Le innovazioni autorizzate dal legislatore delegante sono pertanto strettamente funzionali al migliore adempimento di tale compito di sistemazione normativa». Del resto, «la stessa Corte di Cassazione, nel ricostruire il complesso sistema del c.d. potere disciplinare […], definisce “coessenziali allo stesso concetto di prescrizione” gli istituti della interruzione e della sospensione (Cassazione Civile, II, n. 1172 del 21 gennaio 2014)». Il legislatore si sarebbe, dunque, «scrupolosamente attenuto ai criteri dettati dall’esigenza di semplificazione, oltre a quelli specifici per la revisione dell’ordinamento disciplinare, introducendo tutte le misure atte a rendere effettivo l’esercizio dell’azione disciplinare».

Il 30 maggio 2014 il Consiglio notarile di Reggio Emilia ha depositato una memoria, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia risolta escludendo l’ipotizzato contrasto con l’art. 76 Cost.

Premessi brevi cenni in ordine alla rilevanza della questione ed al sistema previgente alla legge delega n. 246 del 2005, la difesa ha posto l’accento sulla necessità di leggere la disposizione censurata alla luce dei principi e criteri direttivi indicati dall’art. 20 della legge n. 59 del 1997 per le leggi annuali di semplificazione e riassetto normativo.

Ciò consentirebbe di cogliere ancor più chiaramente che tra la legge delega e la legge delegata sussiste, in effetti, un naturale rapporto “di riempimento”, secondo lo schema indicato dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 426 del 2006 e n. 308 del 2002).

Per altro verso, dall’utilizzo dell’espressione «revisione, riordino e riassetto normativo» da parte del legislatore delegante si desumerebbe che al legislatore delegato è stato affidato il compito di adeguare la «disciplina al nuovo quadro normativo complessivo» anche mediante «soluzioni sostanzialmente innovative, con l’unico limite di non stravolgere i principi e i criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante (sentenze n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003)». Si tratterebbe, quindi, dell’attribuzione di «poteri impliciti, soprattutto per evitare soluzioni illogiche o irragionevoli».

La difesa ha quindi richiamato la giurisprudenza costituzionale relativa al rapporto tra legge delegante e legge delegata. In particolare, è stato posto in evidenza che «L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (sentenza n. 293 del 2010)» e che «per valutare se il legislatore abbia ecceduto i – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega» (sentenze n. 80 del 2012 e n. 230 del 2010).

Il Consiglio notarile di Reggio Emilia ha poi ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162 del 2012, relativa al codice del processo amministrativo, ha affermato «il principio che, in base alla delega conferitagli, il legislatore delegato, nel momento in cui intervenga in modo innovativo, deve tener conto della giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori». La parte ha chiarito che in tal modo «si dà rilievo al diritto vivente, con un principio traslabile anche nella vicenda odierna, che presenta infatti un consistente diritto forgiato dagli orientamenti della Corte costituzionale (40/1990) e della Cassazione».

La difesa ha, inoltre, sostenuto che il riferimento contenuto nella legge delega al citato art. 20 della legge n. 59 del 1997, avrebbe determinato un effetto ampliativo della delega stessa. Al contempo, si è rimarcato che sospensione e interruzione della prescrizione sono elementi omogenei, accessori del sistema sanzionatorio.

Concludendo, la norma censurata – sopraggiunta in un momento successivo alla sentenza n. 40 del 1990 con cui la Corte costituzionale aveva «inserito il temperamento della sospensione del procedimento, come meccanismo fisiologico qualora un’azione disciplinare sia coeva ad un procedimento penale» – lungi dall’aver ecceduto rispetto ai criteri di delega, avrebbe, secondo il Consiglio notarile, «solo riordinato un istituto già presente (la sospensione), del quale era stata già percepita la necessità e la piena coerenza con l’ordinamento».

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, con tre ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 8, 44 e 45 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’art. 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), in riferimento all’art. 76 della Costituzione.

La Corte rimettente, dopo aver superato con motivazione non implausibile due pregiudiziali di rito inerenti all’ammissibilità dei ricorsi, ha considerato rilevante e non manifestamente infondata la citata questione di legittimità costituzionale. Essa ricorda che l’art. 146, primo comma, della legge n. 89 del 1913, nella sua originaria formulazione, prevedeva per le violazioni disciplinari previste un termine di prescrizione di quattro anni, senza contemplare ipotesi di interruzione e di sospensione della prescrizione. Sulla base di tale dato normativo, la giurisprudenza di legittimità era costante nel ritenere che la prescrizione dell’azione disciplinare contro i notai si sarebbe compiuta con il decorso di quattro anni dal giorno in cui la violazione era stata commessa, «ancorché vi fossero stati atti di procedura». Pertanto, non avrebbe potuto subire alcuna interruzione, salva la sospensione della prescrizione stessa in conseguenza della pendenza di un procedimento penale. Ciò a seguito della sentenza di questa Corte n. 40 del 1990.

Si era statuito, altresì, che la prescrizione determinava l’improcedibilità dell’azione disciplinare, operante ex lege, rilevabile anche d’ufficio e in sede di legittimità, con cassazione senza rinvio delle sentenze impugnate.

La Corte rimettente prosegue osservando che, con l’art. 7 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), il Governo fu delegato ad adottare appositi decreti legislativi per il «riassetto normativo in materia di ordinamento del notariato e degli archivi notarili», stabilendo che si sarebbe dovuto legiferare anche in ordine alla «previsione della sospensione della prescrizione in caso di procedimento penale e revisione dell’istituto della recidiva».

In relazione a tale contenuto della legge delega il legislatore delegato, con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2006, ha sostituito il precedente art. 146 della legge n. 89 del 1913 con la previsione di quattro commi. In particolare, il primo comma prevede l’allungamento del termine di prescrizione da quattro a cinque anni, mentre il secondo detta una disciplina del tutto nuova in tema di interruzione della prescrizione stessa.

La Corte di cassazione precisa che, nell’articolato dello schema del decreto legislativo adottato dal Ministero della giustizia in attuazione del citato art. 7 della legge n. 246 del 2005, si affermava che, con l’art. 29, era stata appunto prevista la sostituzione dell’art. 146 della legge notarile relativo alla disciplina della prescrizione, ponendosi in evidenza che, poiché la detta disposizione aveva dato luogo a gravi problemi applicativi a causa della brevità del termine e della mancata previsione di cause di interruzione, la nuova disposizione allungava il termine e ne prevedeva la sospensione e l’interruzione.

Sulla scorta di questo quadro normativo e del rapporto tra legge delega e decreto legislativo delegato, ad avviso della rimettente non sembra si possa dubitare che il legislatore delegato sia incorso in un eccesso di delega, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost., dal momento che, a fronte di una cornice di principi e criteri direttivi riferita ad un oggetto definito e ben delimitato, emergente dall’art. 7 delle legge n. 246 del 2005, ha stabilito, nei primi due commi dell’art. 146 della cosiddetta legge notarile riformata, una nuova disciplina che, pur attenendo all’istituto della prescrizione, «ha involto la regolamentazione dell’aspetto della sua interruzione (al comma 2), prima del tutto assente nella predetta legge (e ritenuto assolutamente inoperativo in tale materia dalla consolidata giurisprudenza), con l’ulteriore previsione dell’allungamento a cinque anni del relativo termine prescrizionale (al comma 1)». Pertanto, con l’art. 29 del d.lgs. n. 249 del 2005, il legislatore delegato avrebbe violato i principi e criteri direttivi e superato il limite oggettivo presenti nella delega, «coinvolgendo altre situazioni che, sia pur connesse, hanno determinato un illegittimo esercizio del potere legislativo discrezionale, siccome svincolato, appunto, dai rigidi criteri direttivi predeterminati dalla legge delega, essendo indubbia la diversa natura e la differente efficacia tra gli istituti della sospensione e della interruzione della prescrizione, i quali non presentano alcun rapporto di progressività».

Sarebbe vero che i criteri direttivi della legge delega vanno valutati, al fine di verificare se la norma delegata sia ad essi rispondente, anche alla luce delle finalità ispiratrici della legge stessa, ma non potrebbe dirsi che, nella specie, il legislatore delegato si sia mosso nel solco di tali scopi, perché il campo della sua azione normativa era stato limitato ad armonizzare il solo istituto della sospensione con l’eventualità della contemporanea pendenza del procedimento penale relativo allo stesso fatto rilevante anche come illecito disciplinare.

Con il d.lgs. n. 249 del 2006, dunque, si sarebbe previsto un trattamento normativo peggiorativo nella suddetta materia per la categoria notarile, in assenza di un esplicito riferimento della legge delega.

2.– Le tre ordinanze di rimessione, indicate in epigrafe, pongono questioni identiche. Pertanto, i relativi giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia.

3.– Le questioni non sono fondate.

L’art. 146, primo comma, della legge n. 89 del 1913, come sostituito dall’art. 29 del d.lgs. n. 246 del 2006, stabilisce che «L’illecito disciplinare del notaio si prescrive in cinque anni decorrenti dal giorno in cui l’infrazione è stata commessa ovvero, per le infrazioni di cui all’articolo 128, comma 3, commesse nel biennio, dal primo giorno dell’anno successivo».

Il successivo secondo comma della menzionata norma dispone che «La prescrizione è interrotta dalla richiesta di apertura del procedimento disciplinare e dalle decisioni che applicano una sanzione disciplinare. La prescrizione, se interrotta, ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre nuovamente dall’ultimo di essi. In nessun caso di interruzione può essere superato il termine di dieci anni».

Il terzo comma statuisce che «Se per il fatto addebitato è iniziato procedimento penale, il decorso della prescrizione è sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza penale».

Il quarto comma prevede che «L’esecuzione della condanna alla sanzione disciplinare si prescriva nel termine di cinque anni dal giorno in cui il provvedimento è divenuto definitivo».

I primi due commi sono censurati dalla Corte rimettente, la quale ritiene che il legislatore delegato sia incorso in un eccesso di delega, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost., sia per aver portato da quattro a cinque anni il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare del notaio (comma 1), sia per avere introdotto l’istituto dell’interruzione del corso della prescrizione (comma 2).

L’art. 146 della legge n. 89 del 1913, nel testo anteriore alla riforma, disponeva che «L’azione disciplinare contro i notai per le infrazioni da loro commesse alle disposizioni della presente legge, punibili con l’avvertimento, la censura e l’ammenda, la sospensione e la destituzione, si prescrive in quattro anni dal giorno della commessa infrazione, ancorché vi siano stati atti di procedura. La condanna ad una delle dette pene si prescrive nel termine di cinque anni compiuti dal giorno in cui fu pronunciata».

Orbene, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno relativo alla disposizione che determina l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi della delega; l’altro concernente la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (ex plurimis, sentenze n. 230 del 2010, n. 112 e n. 98 del 2008, n. 140 del 2007).

Relativamente al primo di essi, il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega ed i relativi princìpi e criteri direttivi, nonché delle finalità che lo ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (ex plurimis, sentenze n. 341 del 2007, n. 426 e n. 285 del 2006).

I principi posti dal legislatore delegante costituiscono, poi, non soltanto base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, finché sia possibile, nel significato compatibile con tali principi, i quali a loro volta vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2013, n. 119 del 2013, n. 272 del 2012 e n. 98 del 2008). Infatti, l’art. 76 Cost. non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, nella specie, come in precedenza posto in rilievo, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo; dunque, nell’attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000).

Nel caso de quo, alla luce dei suddetti principi, deve escludersi che l’aver portato da quattro a cinque anni il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare del notaio e l’avere introdotto l’istituto dell’interruzione del corso della prescrizione abbia violato il menzionato parametro costituzionale, trattandosi di scelte del legislatore delegato coerenti con gli indirizzi generali della delega e compatibili con la ratio di questa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), sollevate, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le tre ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2014.

F.to:

Sabino CASSESE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 ottobre 2014.