Sentenza n. 341 del 2007

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SENTENZA N. 341

ANNO 2007

 

Commento alla decisione di

Alessandro Pace

Anatocismo e riserva di legge

 

(per gentile concessione dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                    BILE                      Presidente

- Giovanni Maria       FLICK                    Giudice

- Francesco               AMIRANTE               "

- Ugo                        DE SIERVO                "

- Alfi                        FINOCCHIARO          "

- Alfonso                  QUARANTA               "

- Franco                    GALLO                       "

- Luigi                      MAZZELLA                "

- Gaetano                  SILVESTRI                 "

- Sabino                    CASSESE                    "

- Maria Rita              SAULLE                     "

- Giuseppe                TESAURO                   "

- Paolo Maria            NAPOLITANO            "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), aggiuntivo del comma 2 all’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), promosso con ordinanza del 9 agosto 2005 dal Tribunale ordinario di Catania nel procedimento civile vertente tra Garufi Carmelo e la Unicredit Banca S.p.A., iscritta al n. 112 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Visto l’atto di costituzione della Unicredit Banca S.p.A. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2007 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Antonio Baldassarre e Michele Sesta per la Unicredit Banca S.p.A e l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato, con riferimento agli artt. 1, 3, 70, 76 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), con il quale sono state apportate modifiche all’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).

La norma denunciata, in particolare, dopo il comma 1 dell’art. 120 del d. lgs. n. 385 del 1993, inserisce un comma 2 dal seguente tenore: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio della attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori».

Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in una causa civile nella quale la Unicredit Banca S.p.A. – convenuta in giudizio da un correntista in un’azione di risarcimento del danno – ha spiegato domanda riconvenzionale, chiedendo la condanna dell’attore al pagamento di una somma di danaro pari allo scoperto del conto corrente di corrispondenza a lui intestato al 14 novembre 2003, oltre ai successivi maturandi interessi.

Il rimettente aggiunge che, invitate le parti a dedurre in ordine alla operatività sul rapporto controverso della circolare del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR) 9 febbraio 2000 in relazione a quanto previsto dall’art. 1283 del codice civile, l’istituto bancario ha precisato che il rapporto in questione era disciplinato dalle condizioni contrattuali sottoscritte il 29 novembre 2000.

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, essendo il rapporto bancario dedotto in giudizio sorto il 29 novembre 2000, esso rientra nella «area di applicabilità della norma in questione». Prosegue il giudice a quo rilevando che – in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale, negata la natura normativa degli usi bancari che consentivano la capitalizzazione anatocistica degli interessi dovuti dal cliente, è stata affermata la nullità delle clausole che prevedevano tale metodo di calcolo degli interessi – in assenza della previsione contenuta nella norma della cui legittimità costituzionale dubita, «occorrerebbe, nell’accertare il saldo del conto corrente […], eliminare gli effetti […] della […] capitalizzazione degli interessi», essendo, al contrario, da escludere detta operazione  ove si ritenga la validità della clausola che, in condizioni di reciprocità, permette tale capitalizzazione. 

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente esprime dubbi in ordine al rispetto da parte della norma censurata del dettato dell’art. 76 della Costituzione.

Rammentato che l’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999 è stato emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997), la quale consentiva al Governo di emanare disposizioni integrative e correttive del d.lgs. n. 385 del 1993, nel rispetto dei principi direttivi già contenuti nella precedente legge delega 19 febbraio 1992, n. 142 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria per il 1991), lo stesso rimettente richiama la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale – proprio per eccesso di delega – del comma 3 del medesimo art. 25 del d.lgs. n. 342 del 1999, ritenendo che, sulla base degli stessi rilievi in tale occasione formulati, sia fondato il dubbio di costituzionalità anche del comma 2 del ricordato art. 25.

Il giudice a quo, onde dimostrare la violazione dell’art. 76 della Costituzione, rileva che i criteri indicati dalla norma di delega (cioè l’art. 25 della legge n. 142 del 1992, in particolare al comma 1, lettere a, b, c e d), esulano dalle tematiche relative alle modalità di produzione degli interessi in ambito bancario, e che il criterio di chiusura, dettato alla lettera e), a sua volta concerne il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’accesso e all’esercizio dell’attività creditizia, al fine di salvaguardare la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi in tale settore, in nulla interferendo con il tema dell’anatocismo, non trattato, peraltro, neppure dal testo unico delle leggi bancarie.

Il Tribunale di Catania ravvisa anche altri profili di illegittimità costituzionale della norma denunciata attinenti alla violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Infatti il censurato art. 25 avrebbe introdotto un’ingiustificata disparità di trattamento fra quanti, intrattenendo rapporti con istituti di credito, non possono giovarsi della nullità delle clausole anatocistiche ai sensi dell’art. 1283 cod. civ., e quanti, invece, stipulando contratti con soggetti diversi, sono tutelati da tale ultima disposizione.

Altra ingiustificata disparità di trattamento deriverebbe dalla diversità di disciplina applicabile ai contratti bancari in funzione del fatto che gli stessi siano sorti prima o dopo la delibera del CICR 9 febbraio 2000; per i primi, disciplinati dall’art. 1283 cod. civ., le clausole anatocistiche sarebbero viziate da nullità, mentre per i secondi le stesse sarebbero valide.

Il rimettente, infine, censura l’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999 anche per contrasto con gli artt. 1, 70, 76 e 77 della Costituzione. Al riguardo, ritiene che la legge debba orientare con criteri sufficientemente precisi e dettagliati l’esercizio del potere regolamentare. La norma censurata, invece, nel fissare i limiti della potestà regolamentare del CICR, detta solo il criterio secondo il quale, nelle «operazioni di (recte: in) conto corrente» deve essere assicurata la medesima periodicità di computo degli interessi, sia per il cliente che per la banca.

Ritiene il rimettente trattarsi di un criterio che, concernendo solo un aspetto della materia, lascia il CICR libero di stabilire qualunque periodicità nella capitalizzazione degli interessi nonché di diversificare la disciplina in relazione alle distinte operazioni bancarie.

Conclude il rimettente evidenziando che, attraverso la nuova disciplina, potrebbero essere eluse le finalità ispiratrici dell’art. 1283 cod. civ., da lui ravvisate nel contrasto all’usura e nell’intento di rendere edotto l’obbligato della reale portata del vincolo debitorio e delle conseguenze del suo inadempimento.

2. – Si è costituita in giudizio la Unicredit Banca S.p.a., chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata, riservandosi di meglio argomentare.

3. – E’, altresì, intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della questione.     

L’Avvocatura avanza un preliminare profilo di inammissibilità della questione derivante dalla sua irrilevanza nel giudizio a quo: in esso, infatti, il correntista, convenuto in riconvenzionale, non deduce l’invalidità del contratto di conto corrente né contesta il quantum del saldo debitorio. Poiché non sarebbe in discussione il criterio di computo degli interessi, la legittimità della norma che consente, a determinate condizioni, l’anatocismo esula dal thema decidendum sottoposto al rimettente.

Nel merito la questione sarebbe, comunque, infondata.

Ad avviso della Avvocatura erariale, non è pertinente il richiamo al precedente costituito dalla sentenza n. 425 del 2000 della Corte costituzionale, poiché il quel caso la Corte dichiarò la incostituzionalità di una disciplina transitoria il cui effetto era, in sostanza, la realizzazione, in assenza di qualsivoglia delega, di una generalizzata sanatoria dei contratti bancari già in essere.

Con riferimento, invece, alla disposizione ora censurata, si osserva che con l’art. 25 della legge n. 142 del 1992 sono state conferite due deleghe al Governo: alla prima ha fatto seguito l’emanazione del decreto legislativo 14 dicembre 1992,  n. 481 (Attuazione della direttiva 89/646/CEE, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all'attività degli enti creditizi e il suo esercizio e recante modifica della direttiva 77/780/CEE); alla seconda, relativa alla emanazione di un testo unico, di più ampio contenuto, concernente non solo l’attuazione della citata direttiva comunitaria, ma anche il coordinamento ad essa delle altre disposizioni vigenti in materia bancaria, ha fatto seguito il dlgs n. 385 del 1993, che, riordinata organicamente la disciplina in questione, ha sostituito la previgente "legge bancaria”.

Riguardo alla «trasparenza delle condizioni contrattuali», il d.lgs. n. 385 del 1993, già in origine, prevedeva, in particolare, il divieto di rinvio agli usi e la nullità delle clausole che, per la determinazione di tassi di interesse, prezzi o condizioni contrattuali, avessero rinviato agli usi; prevedeva, altresì, che il CICR stabilisse criteri uniformi sia per l’indicazione ed il computo degli interessi nonché degli altri elementi che incidono sul contenuto economico del contratto sia per la determinazione delle informazioni che periodicamente le banche debbono fornire alla clientela, ivi comprese quelle relative alla decorrenza delle valute e alla capitalizzazione degli interessi; infine disciplinava anche le modalità di conteggio degli interessi sui versamenti bancari.

Con la successiva legge n. 128 del 1998, prosegue l’Avvocatura, il Governo è stato delegato ad emanare disposizioni integrative e correttive del ricordato d.lgs. n. 385 del 1993, nel rispetto degli stessi criteri e principi direttivi indicati dall’art. 25 della legge n. 142 del 1992, cioè della precedente legge di delega.

Tale riferimento, ad avviso della Avvocatura, consente di affermare la congruità del contenuto del d.lgs. n. 385 del 1993 rispetto alla delega a suo tempo attribuita, la quale concerneva, a differenza di quanto ritenuto dal rimettente, anche la materia degli interessi – in cui è inserita la tematica dell’anatocismo – atteso che, sotto il profilo della trasparenza dei rapporti contrattuali (questione disciplinata dal d.lgs. n. 385), vengono in rilievo anche le modalità di stipulazione di clausole negoziali relative all’anatocismo.

E’ nell’esercizio della delega di cui alla legge n. 128 del 1998 che il legislatore è  intervenuto in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali novellando, con la disposizione censurata, il testo dell’art. 120 del d.lgs. n. 385, il quale già disciplinava temi relativi alla decorrenza degli interessi bancari.

La norma oggetto dell’incidente di costituzionalità si riconduce perciò, osserva la difesa erariale, linearmente alla delega di  cui all’art. 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998.

Tanto più ove si consideri che la delega, volta a permettere integrazioni e correzioni del d.lgs. n. 385 del 1993, consentiva anche di risolvere eventuali difficoltà emerse nella pratica operatività della norma; con particolare riguardo a ciò, la difesa pubblica ricorda che la tematica dell’anatocismo nei rapporti bancari, impostata dalla giurisprudenza, sino alla fine degli anni novanta dello scorso secolo, come problematica relativa alla legittimità di usi che, in quanto normativi, derogassero al divieto di cui all’art. 1283 cod. civ., era stato oggetto di un improvviso mutamento di indirizzo. Infatti, riscontrata la natura solo negoziale di tali usi, erano state ritenute nulle, in quanto in contrasto con l’art. 1283 cod. civ., le clausole che li riproducevano, comuni a quasi tutti i contratti di settore.

Con la disciplina censurata il legislatore ha inteso superare le problematiche scaturenti dal ricordato mutamento giurisprudenziale, rimettendo al CICR di stabilire modalità e criteri per il computo degli interessi anatocistici, fissando il principio delle medesima periodicità del calcolo sia in favore della banca che della clientela.

Sul punto la Avvocatura conclude affermando che il legislatore delegato, intervenendo attraverso un’opera di coordinamento normativo, ha inteso eliminare le incongruenze, le contraddizioni e le lacune presenti nel sistema legislativo interessato dall’intervento.

Quanto alla denunciata violazione del principio di legalità, la difesa pubblica rileva che, in assenza di una qualche riserva di legge, il legislatore ha affidato a un organo "tecnico-politico” il compito di stabilire modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi; ciò ha fatto in coerenza con altre analoghe scelte, già presenti nel d.lgs. n. 385 del 1993 sia all’art. 116, comma 3, lettera c), che all’art. 119, comma 1.

La norma denunziata, la quale consente in via di principio il meccanismo dell’anatocismo, non era tenuta ad un più elevato livello di puntualizzazione, avendo come scopo quello di ricondurre a sistema una pratica già oggetto di consolidati usi negoziali.

Con riferimento, infine, alla asserita ingiustificata disparità di trattamento,  la Avvocatura ritiene che essa non è riscontrabile né riguardo alla diversa disciplina applicabile a chi abbia contrattato con gli istituti bancari e chi, invece, lo abbia fatto con altri soggetti,  posto che – attesa la specificità della attività creditizia – la disomogeneità fra le due posizioni poste a confronto esclude che possa ritenersi arbitrario prevedere una disciplina differenziata, né riguardo al diverso trattamento normativo cui è sottoposto chi abbia sottoscritto contratti bancari prima della entrata in vigore della delibera del CICR 9 febbraio 2000 e chi li abbia sottoscritti in epoca successiva, essendo il diverso trattamento dovuto, in assenza di vincoli che impediscano deroghe alle prescrizioni codicistiche, alla applicabilità, ratione temporis, di due diverse discipline succedutesi nel tempo. 

4. – In prossimità dell’udienza, la costituita parte privata ha depositato una memoria illustrativa nella quale evidenzia due motivi di inammissibilità della sollevata questione: da una parte il giudice a quo, infatti, non avrebbe sperimentato, come invece doveroso, alcun tentativo di attribuire alla disposizione censurata un significato conforme a Costituzione, d’altra parte il rimettente invocherebbe, tramite la sentenza della Corte, un intervento, definito di «natura legislativa», il cui risultato sarebbe quello di «eliminare l’attuale disciplina legislativa e di restaurare quella precedentemente applicabile al settore bancario»; percorso questo che, stante la discrezionalità delle scelte poste a monte, sarebbe precluso al giudizio di legittimità costituzionale.

Ad avviso della difesa privata, la questione sarebbe, comunque, anche infondata. Ricostruita, infatti, la vicenda normativa che ha portato alla adozione della disposizione censurata, la parte privata osserva come, diversamente da quanto ritenuto dal rimettente, i principi e criteri direttivi sulla base dei quali scrutinare la legittimità dell’impugnato art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999, vanno ricercati non nel solo comma 1 dell’art. 25 della legge n. 142 del 1992, ma «vanno ricavati dall’insieme delle disposizioni oggetto del coordinamento proprio del testo unico»; cioè, nel caso di specie, oltre che nei cinque punti del comma 1 dell’art. 25 della legge di delega, anche nella disciplina legislativa vigente in materia di banche e credito.

In particolare, afferma che è proprio sulla base di questi principi e criteri direttivi che il governo ha adottato il d.lgs. n. 385 del  1993, recante il testo unico in materia bancaria il quale, al capo primo del titolo sesto, contiene disposizioni in materia di tassi di interesse applicabili alle operazioni bancarie. La successiva delega legislativa, emanata a distanza di circa 5 anni dal citato d.lgs. n. 385 del 1993, è volta, in sostanza,  a consentire l’eliminazione di eventuali distorsioni o lacune presenti nel testo preesistente; si tratterebbe, cioè, di una «prosecuzione» della redazione di detto testo, successiva ad una verifica degli effetti della originaria formulazione.

In ogni caso, trattandosi di integrazioni e correzioni al precedente Testo unico, il legislatore delegante del 1998 ha rinviato, al fine di un migliore e più efficace coordinamento fra la preesistente disciplina interna e quella comunitaria, ai medesimi principi in base ai quali era stata esercitata la originaria delega.

Aggiunge la difesa dell’istituto di credito che è indubbio che la disposizione impugnata «integra e corregge» il testo unico bancario, inserendosi fra quelle disposizioni, in tema di trasparenza delle condizioni bancarie, che regolano i poteri del CICR in materia di calcolo e disciplina dei tassi di interesse. «Essendo l’anatocismo nient’altro che una modalità di calcolo degli interessi», è certo – sempre secondo la difesa dell’istituto di credito -  che oggetto delle modifiche finalizzate a integrare e correggere il testo unico bancario potesse essere anche la disciplina dell’anatocismo.

Peraltro, la disciplina contenuta nella norma censurata è anche "coerente” con i principi della Direttiva n. 89/646/CEE in tema di trasparenza dei contratti bancari, intesa questa come «chiarezza della disciplina contrattuale e possibilità di conoscere preventivamente le condizioni dei medesimi contratti», nonché come «tendenza alla realizzazione di un ragionevole equilibrio fra le parti».

Rammenta ancora la difesa dell’istituto di credito come il Governo, rispettando le procedure previste dalla legge di delega n. 142 del 1992, abbia preventivamente sottoposto lo schema del decreto legislativo n. 342 del 1999 all’esame delle competenti Commissioni parlamentari, le quali hanno sollecitato la risoluzione delle problematiche connesse al contenzioso scaturito dalla decisione n. 2374 del 1999 della Corte di cassazione in materia di anatocismo bancario, proprio attraverso una «modifica del testo unico bancario, volta a rimuover(ne) le ragioni».

Conclude, sul punto, la memoria illustrativa col rilievo che le ragioni che hanno portato la Corte costituzionale ad affermare, con la sentenza n. 425 del 2000, la illegittimità del comma 3 dell’art. 25 del d.lgs. n. 342 del 1999, non consentono di dedurre, per estensione, la illegittimità anche del precedente comma 2.

Riguardo alla dedotta violazione del principio di eguaglianza, la questione sarebbe infondata con riferimento alla disparità di trattamento ipotizzata fra chi stipula contratti in conto corrente con le banche e chi, invece, li stipula con altri soggetti; l’applicabilità solo ai secondi dell’art. 1283 cod. civ. sarebbe giustificata dalla evidente eterogeneità delle due situazioni poste a confronto e dalla conseguente legittimità della scelta legislativa di prevedere per gli istituti di credito una disciplina speciale derogatoria di quella codicistica. D’altra parte la stessa normativa comunitaria e i principi direttivi stabiliti per la sua attuazione prefigurano una peculiare disciplina per gli enti creditizi.  Neppure sarebbe riscontrabile la violazione del principio di eguaglianza relativamente alla diversa disciplina applicabile a chi abbia stipulato contratti in conto corrente con banche, a seconda che questi siano stati conclusi prima o dopo l’entrata in vigore della deliberazione CICR 9 febbraio 2000; infatti, il diverso trattamento derivante dalla successione nel tempo di atti normativi non può essere addotto come motivo di irragionevole discriminazione.

Infine, riguardo alla violazione del principio di legalità, la difesa della Unicredit, al di là di ogni dubbio in ordine alla individuazione dei parametri costituzionali evocati, osserva che il rimettente erra nell’omologare il rapporto esistente fra la deliberazione del CICR e il principio di legalità con quello intercorrente fra i «regolamenti di attuazione e il predetto principio».

Le delibere CICR, secondo l’avviso della parte privata, infatti, sono atti di alta amministrazione che confinano, se non coincidono, con gli atti politici; perciò il rapporto fra tali atti e il principio di legalità é ben diverso da quello esistente fra detto principio e i regolamenti di attuazione.

Per i primi, infatti, contenenti direttive strettamente legate a valutazioni di politica monetaria e creditizia, fondate su esami tecnici dell’andamento economico, si prevede che la legge detti solo finalità da perseguire e criteri generali attinenti alla loro determinazione; cioè quanto  fissato dal contestato art. 25, comma 2, del d. lgs. n. 342 del 1999 attraverso l’attribuzione al CICR del compito di definire «modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi» nelle operazioni bancarie, col limite della «stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori».

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale ordinario di Catania dubita  della legittimità costituzionale  dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), nella parte in cui esso modificando l’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), vi inserisce un comma 2 dal seguente tenore: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio della attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori».

In particolare, il rimettente ritiene che la norma censurata ecceda la delega conferita al Governo per la sua emanazione e che la medesima violi, altresì, il principio di eguaglianza, di cui è espressione l’art. 3 della Costituzione, nonché il principio di legalità.

1.1. – Va preliminarmente valutata la eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, sollevata dalla Avvocatura erariale.

Tale eccezione non è meritevole di accoglimento.

Osserva questa Corte come risulti dalla ordinanza di rimessione che la tematica relativa alla compatibilità delle condizioni del contratto di conto corrente dedotto in giudizio, e del quantum pecuniario chiesto in via riconvenzionale, con l’art. 1283 del codice civile fa parte del giudizio principale. Vi è, altresì, ampia giurisprudenza del giudice di legittimità che afferma come non sia inibito al giudice scrutinare ex officio, in presenza di una sia pur generica contestazione, sotto il profilo della validità, il patto con il quale si è stabilita la capitalizzazione degli interessi passivi maturati e, quindi, la produzione da parte loro di ulteriori interessi (Corte di cassazione, sezione I civile, 1° marzo 2007, n. 4853; idem 28 ottobre 2005, n. 21080; idem 13 ottobre 2005, n. 19882; idem 25 febbraio 2005, n. 4092). Ciò è sufficiente, al limitato fine che in questa sede interessa, per escludere che possa ritenersi la questione irrilevante nel giudizio a quo.

2. – Passando all’esame del merito della sollevata questione di costituzionalità, essa non è fondata.

2.1 – La prima e principale censura che il rimettente muove all’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999, riguarda l’eccesso di delega, in quanto egli ritiene che la norma da cui il Governo ha tratto il suo potere di intervento legislativo, rappresentata dall’art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997), non contenesse "principi e criteri direttivi” che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 76 della Costituzione, avrebbero potuto legittimare il legislatore delegato ad intervenire sulla materia dell’anatocismo bancario.

2.2. – Al riguardo, questa Corte, anche recentemente, ha ribadito che «Secondo i principi più volte affermati, […] il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa postula che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si esplichi attraverso il confronto tra due processi ermeneutici paralleli: l’uno relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complesso di norme in cui si collocano e delle ragioni e finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l’altro relativo alle norme introdotte dal legislatore delegato» (sentenza n. 54 del 2007).

Una volta compiuti questi due processi ermeneutici paralleli, vi è poi la necessità di effettuare tra di essi un raffronto per esaminare la loro compatibilità, nel senso di valutare se il contenuto del decreto delegato possa essere ricondotto a quanto prevede la legge delega.

Circa i requisiti che si ritiene debbano fungere da cerniera tra questi due atti normativi, questa Corte ha elaborato una copiosa giurisprudenza.

Con particolare riferimento al caso, come quello in esame, in cui la legge delega è genericamente volta all’integrazione e correzione di una particolare disciplina, questa Corte, muovendosi nel solco di un orientamento già consolidato, ha affermato che «Se l’obiettivo è quello della coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non può essere solo formale […]. Inoltre, se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principi sono quelli già posti dal legislatore, non è necessario che sia espressamente enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata» (sentenza n. 53 del 2005).

Successivamente, in conformità a tale impostazione, questa Corte ha ritenuto compatibile con l’art. 76 Cost. anche «l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante» (sentenza n. 426 del 2006).

Questa Corte ha altresì ripetutamente affermato, con riferimento al contenuto dell’art. 76 Cost., che «i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge-delega» (sentenze n. 481 del 2005 e n. 308 del 2002; ordinanze n. 228 del 2005 e n. 248 del 2004) e che occorre tener conto delle finalità che, attraverso i principi ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste e tenere altresì conto che le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principi e criteri (sentenze n. 425 del 2000; n. 15 del 1999; ordinanza n. 213 del 2005).

2.3. – Per ciò che concerne la presente questione, la disposizione legislativa di delega, come detto,  è contenuta nell’art. 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998, il quale ha previsto che «Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di cui al comma 1, e con le modalità di cui ai commi 2 e 3, disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l’osservanza della procedura indicati nell’articolo 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142».

Tralasciando ciò che si riferisce agli aspetti procedurali, in quanto non contestati dal rimettente, e, comunque, già scrutinati, sotto il profilo della tempestività, dalla sentenza n. 425 del 2000, risulta che oggetto della delega era, dunque, la modifica, mediante integrazioni e correzioni, del d. lgs. n. 385 del 1993, nel rispetto dei principi e criteri direttivi previsti dall’art. 25 della legge n. 142 del 1992. Quest’ultima disposizione conferiva, a sua volta, due distinte deleghe legislative, da esercitarsi in successione cronologica.

La prima – prevista dall'art. 25, comma 1 – concerneva l'attuazione della direttiva del Consiglio 89/646/CEE del 15 dicembre 1989, in conformità: a) al principio secondo cui gli enti creditizi potevano prestare in Italia i servizi previsti nell'allegato alla direttiva immediatamente o per il tramite di succursali o filiazioni alle condizioni di cui alla direttiva medesima (sempre che tali attività fossero state autorizzate sulla base di requisiti oggettivi); b) al principio che gli enti suddetti potevano procedere alla pubblicità relativamente ai servizi offerti, alle condizioni previste per le medesime attività dalla disciplina italiana; c) al principio che doveva essere adottata ogni altra disposizione necessaria per adeguare alla direttiva la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia.

La seconda delega – prevista dall'art. 25, comma 2 – riguardava l'emanazione di un testo unico delle disposizioni attuative della direttiva e di quelle altre necessarie per l'adeguamento normativo alla medesima. Tale adeguamento doveva essere coordinato con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia (delega, questa, esercitata con l'emanazione del testo unico bancario di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993).

La reviviscenza, da parte del legislatore delegante del 1998, del contenuto della legge delega n. 142 del 1992, faceva quindi sì che il legislatore delegato del 1999 avesse come principi e criteri direttivi del suo intervento sul T. U. bancario l’adeguamento della «disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia» al contenuto della direttiva comunitaria innanzi citata e che i confini di detta azione adeguatrice potessero estendersi, qualora vi fosse la necessità di effettuare un coordinamento, alle «altre disposizioni vigenti nella stessa materia».  

2.4. – Nell’esercizio di tale delega, il legislatore delegato, con l’art. 25, comma 2, del decreto legislativo n. 342 del 1999, ha inserito nell’art. 120 del T.U. bancario n. 385 del 1993, il seguente comma 2: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori».

Tale disposizione, oggetto della censura del remittente, prevede quindi: a) che possono essere stabiliti «modalità e criteri» per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie così presupponendo, in tale ambito contrattuale, la liceità dell’anatocismo bancario; b) che il soggetto cui è demandato il compito di fissare tali «modalità e criteri» è il CICR; c) che, in ogni caso, non può essere stabilita una diversa periodicità nel conteggio degli interessi debitori e creditori.

Come si è detto, la questione di maggior rilievo posta dal giudice rimettente consiste nel valutare se l’introduzione nel nostro ordinamento dell’anatocismo bancario, in deroga al divieto contenuto nell’art. 1283 cod. civ., possa trovare copertura, ai sensi dell’art. 76 Cost., nei "principi e criteri direttivi” contenuti nella legge-delega. Le altre disposizioni contenute nella norma denunciata, infatti, si pongono in posizione di supporto rispetto a questa. Ne consegue che se il legislatore delegato poteva introdurre nell’ordinamento il suddetto istituto, non poteva essergli negato il potere di attribuire ad un determinato soggetto funzioni regolatorie (altra questione, che attiene a diverso motivo di censura, trattato al punto 3.3., è quella relativa alla corretta individuazione del soggetto cui queste attribuzioni erano state conferite), né poteva esimersi dal fissare regole minime circa i periodi da prendere a base per il consolidamento degli interessi in conto capitale.

 2.5. – Occorre, al riguardo, osservare che il recepimento nell’ordinamento italiano della Direttiva 89/646/CEE era già stato effettuato, ai sensi dell’art. 25 dell’originaria legge n. 142 del 1992, con il decreto legislativo n. 481 del 1992. Quindi il significato da attribuire all’espressione, contenuta nell’art. 1, comma 5, lettera e), della legge delega n. 128 del 1998 (deve «essere adottata ogni altra disposizione necessaria per adeguare alla direttiva del Consiglio 89/646/CEE la disciplina vigente per gli enti creditizi autorizzati in Italia»), non poteva che avere una portata più ampia e, in ogni caso, consequenziale rispetto all’avvenuto recepimento: quella cioè di intervenire per disciplinare le ipotesi in cui, con riferimento ad alcuni istituti, vi potevano essere motivi di contrasto o, comunque, di disarmonia tra l’ordinamento italiano e quello comunitario, verificando se potevano ancora individuarsi ostacoli alla piena realizzazione del principio di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi.

2.6. – L’art. 18 della citata direttiva – posto sotto il Titolo V recante "Disposizioni relative alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi” – disponeva al primo comma che «Gli Stati membri prevedono che le attività figuranti nell'elenco allegato possono essere esercitate nel loro territorio secondo le disposizioni degli articoli 19, 20 e 21, tramite lo stabilimento di una succursale o mediante prestazioni di servizi, da parte di tutti gli enti creditizi autorizzati e controllati dalle autorità competenti di un altro Stato membro, in conformità delle disposizioni della presente direttiva, sempre che tali attività siano coperte dall'autorizzazione» e, al secondo comma che «Gli Stati membri prevedono anche che le attività figuranti nell'elenco allegato possono essere esercitate nel loro territorio, secondo le disposizioni degli articoli 19, 20 e 21, tramite lo stabilimento di una succursale o mediante prestazioni di servizi, da parte di ogni ente finanziario di un altro Stato membro, filiazione di un ente creditizio o filiazione comune di più enti creditizi, il cui statuto legale permetta l'esercizio di tali attività [... ] ».

Gli enti creditizi di tutti i restanti Stati dell’Unione potevano quindi esercitare in Italia le attività bancarie sia direttamente, sia tramite succursali o filiazioni. Il sedicesimo "considerando” del preambolo prevedeva che «gli Stati membri [dovessero] vigilare affinché non vi [fosse] alcun ostacolo a che le attività ammesse a beneficiare del riconoscimento reciproco [potessero] essere esercitate allo stesso modo che nello Stato membro d’origine, purchè non [fossero] incompatibili con le disposizioni legali di interesse generale in vigore nello Stato membro ospitante».

Poiché tra le attività che, ai sensi della direttiva, beneficiavano «del mutuo riconoscimento» erano previste (punto 1 dell’allegato) la «raccolta di depositi o di altri fondi rimborsabili» e (punto 2 dell’allegato) le «operazioni di prestito», ne derivava che la questione dell’anatocismo bancario assumeva rilievo ai fini della definizione delle regole cui si dovevano attenere in Italia gli enti creditizi degli altri Paesi membri.

Nei principali Stati che allora costituivano l’Unione la disciplina prevista in materia di anatocismo per il sistema bancario o, più in generale, per le attività di natura commerciale (o in cui una delle parti fosse un istituto di credito) era diversa da quella prevista nei rapporti di diritto civile. Ad esempio, in Francia, l’art. 1154 code civil che, pur non vietandolo in assoluto, poneva forti restrizioni all’anatocismo (limitando, in via generale, all’anno il periodo di riferimento per il consolidamento degli interessi), non si applicava ai conti correnti bancari; in Germania, il § 355 HGB (applicabile negli accordi di conto corrente quando uno dei due contraenti era un istituto di credito) derogava il generale divieto di anatocismo previsto dal § 248 BGB; nel Regno Unito la no interest rule era, nell’ambito del diritto bancario, soverchiata da eccezioni che traevano il fondamento nel principio, di common law, di piena libertà delle parti nello stabilire contrattualmente i termini e le condizioni del rapporto obbligatorio; in Spagna, l’art. 317 del còdigo de comercio, richiamato dall’art. 1109 del còdigo civil, prevedeva per i «negozi commerciali» una disciplina che consentiva per le operazioni realizzate dagli enti creditizi il cosiddetto «anatocismo convenzionale». Analoghe a quelle della Germania e della Francia erano le discipline previste, rispettivamente, in Austria e nel Belgio.  

2.7. – Rientrava, quindi, nel processo di adeguamento del diritto allora vigente al contenuto della Direttiva e di coordinamento del T.U. bancario, precisare se l'anatocismo bancario poteva avere ingresso in Italia o se fosse «incompatibil[e] con le disposizioni legali di interesse generale [allora] in vigore» (sedicesimo "considerando” del preambolo). E, in caso affermativo, dare una risposta al quesito immediatamente collegato con l'anatocismo bancario, cioè l’individuazione del soggetto cui spettava determinare il periodo di tempo in cui la capitalizzazione degli interessi doveva avvenire.

Tanto più che proprio allora la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2374 del 1999, dava, dell'art. 1283 cod. civ., una lettura diversa dal passato, che escludeva, per gli enti creditizi, la possibilità di far valere "usi normativi” che valessero a superare il divieto di anatocismo preventivo in esso previsto, affermando «che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi».

Non può quindi negarsi, alla luce delle precedenti considerazioni, che la questione relativa alla capitalizzazione degli interessi nell’esercizio del credito bancario, per la quale vi erano nei principali Stati dell’Unione normative divergenti rispetto a quella che in Italia si era consolidata dopo la nuova lettura dell’art. 1283 cod. civ. da parte del giudice di legittimità, nonché, nel caso l’anatocismo bancario fosse stato ritenuto lecito, la relativa periodizzazione, rientravano nell’ambito delle attività di adeguamento che il legislatore delegante aveva demandato al legislatore delegato.

2.8. – Vi è altresì da considerare che a questa attività di "adeguamento” inducevano anche i più generali principi derivanti dall’ordinamento comunitario.

La Corte di giustizia della Comunità (Grande Sezione), nella sentenza che ha pronunciato qualche anno dopo rispetto al periodo di tempo in cui fu esercitata la delega (e cioè il 5 ottobre 2004, causa C–442/02, Caixa Bank France contro il Ministero dell’economia, delle finanze e dell’industria francese), ma che, data la sua natura esegetica, deve ritenersi abbia espresso principi valevoli anche per il periodo precedente alla sua pronuncia, ha affermato che costituisce  restrizione alla libertà di stabilimento, e quindi viene a violare l’art. 43 del Trattato, un divieto (come quello che in Francia, impedendo di remunerare i conti di deposito a vista, aveva dato origine alla causa) che costituisce (punto 12) «per le società di Stati membri diversi dalla Repubblica francese un serio ostacolo all’esercizio delle loro attività in Francia tramite filiali, il che pregiudica il loro accesso al mercato [atteso (punto 16) che] è pacifico che la raccolta di depositi presso il pubblico e la concessione di finanziamenti rappresentano le attività di base degli enti creditizi».

Ma se una normativa che avesse ristretto il campo di attività degli istituti bancari degli altri Stati dell’Unione si fosse posta in contrasto con la normativa comunitaria, ne sarebbe derivato che per evitare le cosiddette "discriminazioni a rovescio” (che la sentenza n. 443 del 1994 di questa Corte definisce come «situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese, come effetto indiretto dell’applicazione del diritto comunitario») tale disciplina doveva estendersi agli enti creditizi nazionali.

2.9. – Da quanto sopra evidenziato emerge che l’intervento del legislatore delegato, relativo all’introduzione nel d.lgs. n. 383 del 1993 del secondo comma dell’art. 120, rientrava nel perimetro normativo tracciato dal legislatore delegante, il quale aveva posto tra i principi e criteri direttivi del decreto delegato la necessità che il T.U. bancario fosse adeguato al quadro conseguente al recepimento della più volte citata direttiva comunitaria.

3. – Parimenti non fondati sono i restanti profili formulati dal rimettente.

3.1. – Quanto alla dedotta disparità di trattamento derivante dalla diversa disciplina applicabile a chi intrattenga rapporti concernenti obbligazioni pecuniarie, a seconda che essi riguardino o meno istituti di credito o comunque soggetti cui sia riferibile la normativa di cui al d.lgs. n. 385 del 1993, è palese che la diversa natura dei soggetti con cui il rapporto è intrattenuto (in un caso specificamente e professionalmente destinati allo svolgimento della funzione  creditizia e alla intermediazione finanziaria, nell’altro caso occasionalmente implicati in un rapporto obbligatorio avente a oggetto una somma di danaro) evidenzia la incomparabilità fra le due situazioni arbitrariamente poste a confronto.

3.2. – Priva di pregio è altresì la censura, sempre attinente ad una pretesa ingiustificata disparità di trattamento, riferita al fatto che, ad avviso del rimettente, la disciplina dell’anatocismo introdotta con la novella apportata all’art. 120 del d.lgs. n. 385 del 1993 sarebbe applicabile ai soli contratti sorti successivamente alla adozione della deliberazione del CICR del 9 febbraio 2000, mentre i rapporti preesistenti continuerebbero a essere regolati dalla previgente normativa.

Sul punto questa Corte, senza con ciò voler entrare nel merito della applicazione intertemporale della norma censurata, osserva che, comunque, secondo la sua costante giurisprudenza, non contrasta di per sé con il principio di eguaglianza un differenziato trattamento, pur applicato a una medesima categoria di soggetti, se riferito a momenti diversi del tempo, poiché proprio il fluire stesso del tempo costituisce un elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche.

3.3. – Quanto, infine, alla violazione degli artt. 1, 70, 76 e 77 della Costituzione, è sufficiente osservare, per disattendere la censura svolta dal rimettente, che la materia su cui incide la norma oggetto della questione di costituzionalità non risulta essere presidiata da alcuna specifica riserva di legge.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), sollevata, con riferimento agli artt. 1, 3, 70, 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore