Ordinanza n. 42 del 2009

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ORDINANZA N. 42

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria       FLICK                    Presidente

- Francesco               AMIRANTE             Giudice

- Ugo                        DE SIERVO                 "

- Alfio                      FINOCCHIARO           "

- Alfonso                  QUARANTA                "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                      MAZZELLA                 "

- Gaetano                  SILVESTRI                  "

- Sabino                    CASSESE                    "

- Maria Rita              SAULLE                      "

- Giuseppe                TESAURO                   "

- Paolo Maria            NAPOLITANO             "

- Giuseppe                FRIGO                         "

- Alessandro              CRISCUOLO               "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi con ordinanze dell’8 novembre 2007 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di D. N. V. e del 7 febbraio 2008 dal Tribunale di Sondrio nel procedimento penale a carico di C. G., iscritte ai nn. 137 e 170 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 20 e 24, prima serie speciale, dell’anno 2008.

       Udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 novembre 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace;

che la Corte di cassazione premette in fatto di dover esaminare il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Benevento avverso una sentenza di proscioglimento perché il fatto non sussiste, in ordine al reato di cui all’art. 638 del codice penale, fondata sull’assunto della mancanza di prova circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato;

che, in punto di rilevanza, il rimettente precisa che, in caso di accoglimento della questione, venendo meno la disposizione di legge censurata che ha soppresso la possibilità per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pene alternative, il ricorso al suo esame dovrebbe essere convertito in appello;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama interamente la sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006 nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, del medesimo codice se la nuova prova è decisiva, ritenendo applicabili anche alla disposizione censurata le ragioni poste a base della citata pronuncia;

che, in particolare, la Corte di cassazione evidenzia come il novellato art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000 realizzi la medesima asimmetria fra le parti che la Corte ha ritenuto incostituzionale in relazione all’art. 593 cod. proc. pen.;

che, infine, la norma sarebbe del tutto irragionevole, dal momento che consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna, cioè quando la sua domanda è stata almeno in parte accolta, e non quelle di proscioglimento, quando invece la domanda è stata integralmente rigettata;

che il Tribunale di Sondrio, quale giudice d’appello, con ordinanza del 7 febbraio 2008, ha sollevato, in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost.,  questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006 nella parte in cui  non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace;

che il rimettente premette, in fatto, di essere chiamato a giudicare dell’appello da parte del pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto emessa dal Giudice di pace di Tirano nei confronti di C. G. in ordine al reato di cui all’art. 187, commi 1 e 4, del codice della strada;

che il rimettente precisa, ai fini della rilevanza della questione, che in applicazione della disposizione censurata dovrebbe dichiarare improponibile l’appello con trasmissione degli atti alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia come, ai sensi dell’art. 37, comma 1, della legge n. 274 del 2000, l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che abbia irrogato una pena di specie diversa da quella pecuniaria nonché contro quelle che applichino la pena pecuniaria, qualora impugni il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno;

che, pertanto, a fronte del riconoscimento da parte del legislatore di un potere, in capo all’imputato, di appellare, sia pure nei limiti indicati,  le sentenze del giudice di pace, la norma censurata nega radicalmente il «correlativo potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento» pronunciate dal medesimo giudice;

che nelle sentenze della Corte costituzionale n. 320 e n. 26 del 2007, pur essendo ribadito che «per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà», si è affermato che «ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare – ai fini del rispetto del principio di parità – soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante – se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale – che l’evidenziata maggiore flessibilità della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità»;

che, a parere del rimettente, la «dissimetria radicale» riscontrata dalla Corte nelle norme allora censurate deve ravvisarsi anche con riferimento alla disposizione in esame, in quanto «a differenza dell’imputato il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati»;

che, inoltre, anche per le sentenze del giudice di pace, la rimozione del potere di appello del pubblico ministero si presenterebbe generalizzata e unilaterale; generalizzata perché non riferita a talune categorie di reati, ma estesa indistintamente a tutti i processi, unilaterale, perché non trova alcuna specifica «contropartita» in particolari modalità di svolgimento del processo, essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento, a differenza del giudizio abbreviato, è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito;

che, infine, a parere del rimettente, varrebbero anche nei confronti della norma censurata le argomentazioni esposte dalla Corte costituzionale nelle citate sentenze, secondo le quali «la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e unilaterale della menomazione stessa: oltre a risultare intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna».

Considerato che la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 novembre 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace;

che, secondo la Corte rimettente, risulterebbero violati gli artt. 3 e 111 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di eguaglianza e di quello della parità delle parti nel processo, atteso che la limitazione dei poteri del pubblico ministero risulta priva di idonee ragioni giustificative, rispetto agli omologhi poteri riconosciuti in capo all’imputato;

che l’art. 3 Cost. sarebbe, altresì, violato sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza, dal momento che la norma censurata consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna, con cui le sue richieste sono state in parte accolte, e non quelle di proscioglimento, con cui esse sono state integralmente respinte;

che anche il Tribunale di Sondrio, quale giudice d’appello, con ordinanza del 7 febbraio 2008, ha sollevato, in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost.,  questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui  non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace;

che, a parere del Tribunale rimettente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost. sotto il profilo della lesione del principio di eguaglianza e della parità delle parti nel processo, in quanto determinerebbe una «dissimetria radicale» tra i poteri delle parti stesse, eliminando il solo potere di appello del pubblico ministero senza che tale menomazione sia sorretta da una ratio adeguata in rapporto al suo carattere generale e unilaterale;

che, stante l’identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

che le questioni sono manifestamente infondate;

che analoga questione, sollevata dalla Corte di cassazione con una precedente ordinanza, è già stata dichiarata infondata da questa Corte con la sentenza n. 298 del 2008;

che, in tale occasione, si è affermato che «la limitazione del potere di appello del pubblico ministero, stabilita dal novellato art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, non è affatto “generalizzata”. Essa concerne, al contrario, i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale: figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive»;

che, nella citata sentenza, si è anche precisato che le regole del processo davanti al giudice di pace sono tutte improntate a finalità di snellezza e semplificazione oltre che di rapidità e, pertanto, il modulo processuale non è comparabile con quello davanti al tribunale, e comunque è tale da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario (ex plurimis, ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004);

che, inoltre, questa Corte ha anche evidenziato come la precedente disciplina, con specifico riguardo al regime delle impugnazioni, «vedeva l’imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico ministero in quanto in base al previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, […] la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; sia le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. Per contro, ai sensi dell’art. 37 del medesimo decreto legislativo, l’imputato era – ed è – ammesso ad appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria; nonché le sentenze di condanna a quest’ultima pena, ma solo ove venga congiuntamente impugnato il capo di condanna, anche generica, al risarcimento del danno»;

che, dunque, la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace non può ritenersi eccedente i limiti di compatibilità con il principio di parità delle parti, trovando «una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa”, all’esito di un procedimento improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme; sia – almeno in parte – nell’ottica del riequilibrio dei poteri rispetto ad un assetto nel quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l’imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza” rispetto a spinte di segno soppressivo»;

che, infine, nella sentenza n. 298 del 2008, con riferimento «alla denunciata incongruenza intrinseca alla disciplina dell’impugnazione della parte pubblica, conseguente alla conservazione del suo potere di appello avverso le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria e, cioè, contro sentenze che accolgono, anche se solo in parte, le istanze dell’accusa, mentre sono rese inappellabili le sentenze che disattendono in toto la pretesa punitiva», questa Corte ha affermato che «detta incongruenza, una volta escluso che la disposizione impugnata possa ritenersi di per sé contrastante con il principio di parità delle parti, non necessariamente dovrebbe essere rimossa nel senso auspicato dalla Corte rimettente: e, cioè, tramite l’ablazione della norma modificativa e il ripristino del regime pregresso», essendo ipotizzabile anche un intervento nel senso opposto;

che non risultando addotti profili o argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli già valutati nella precedente pronuncia di infondatezza, la questione, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve essere dichiarata manifestamente infondata (ex plurimis, sentenza n. 342 del 2008).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall’art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Sondrio con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2009.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2009.