Sentenza n. 363/2001

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SENTENZA N. 363

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO            

- Massimo VARI                     

- Riccardo CHIEPPA             

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Giovanni Maria FLICK                    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 23 marzo 1999 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall'on. Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con ricorso della Corte di appello di Roma, sezione IV penale, notificato il 3 agosto 2000, depositato in Cancelleria l'11 successivo ed iscritto al n. 36 del registro conflitti 2000.

Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell'udienza pubblica del 5 giugno 2001 il Giudice relatore Valerio Onida;

udito l'avv. Roberto Nania per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. ― La Corte d’appello di Roma, IV sezione penale, ha proposto – con ordinanza in data 25 ottobre 1999, depositata nella cancelleria della Corte il 21 febbraio 2000, nel corso di un giudizio nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, per il delitto previsto dagli artt. 81, 595, primo, secondo e terzo comma, del codice penale, e dagli artt. 13 e 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in danno del dr. Giancarlo Caselli – conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in riferimento alla deliberazione, adottata dall’Assemblea nella seduta del 23 marzo 1999 (documento IV-quater, n. 65), con la quale é stata dichiarata l’insindacabilità delle dichiarazioni rese dal parlamentare.

2. ― La Corte d’appello premette che si procede in sede penale nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi per le seguenti dichiarazioni, da lui rese nel corso di un pubblico dibattito al Palalido di Milano: "solo la mente perversa di alcuni magistrati può permettere di attribuire a Berlusconi l’associazione mafiosa. Loro che arrivano dal Piemonte per inquinare la Sicilia", pubblicate nelle note A.G.I. ed A.N.S.A. del 27 marzo 1996. La Corte d’appello deduce altresì di avere già emesso sentenza di non luogo a procedere perchè il fatto non costituisce reato nei confronti degli autori delle due note d’agenzia e che la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile, per rinuncia, il ricorso proposto dalla parte civile, rinviando il giudizio alla stessa Corte d’appello per un nuovo esame nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi.

Dopo avere ricordato che la Camera dei deputati, in accoglimento della conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, ha dichiarato l’insidacabilità delle opinioni de quibus, la Corte d’appello sostiene che, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, dovrebbero ritenersi insindacabili esclusivamente gli atti tipici del mandato parlamentare compiuti nei vari organi parlamentari o "para-parlamentari" (gruppi), con esclusione, quindi, delle attività che, sebbene latamente connesse con l’esercizio di tali funzioni, siano ad esse estranee, quale appunto l’attività politica extra-parlamentare espletata all’interno dei partiti.

A suo avviso, poichè le dichiarazioni in esame sono state rese in occasione di un dibattito politico in corso in un pubblico locale, non sussisterebbe alcun nesso tra esse e le funzioni parlamentari, in quanto a detto fine sarebbe necessario che le opinioni siano strumentali rispetto all’ufficio ricoperto e alla funzione da svolgere, mentre la stessa Giunta per le autorizzazioni a procedere ha riconosciuto che il deputato Vittorio Sgarbi avrebbe esercitato il legittimo diritto di critica parlamentare "in modo paradossale e forse non conveniente".

La Corte d’appello conclude, infine, affermando che <<il dissenso in merito alla deliberazione della Camera dei deputati (...) comporta il dover sollevare il controllo sulla sua legittimità da parte della Corte costituzionale>>.

3. ― Nel giudizio preliminare di delibazione in camera di consiglio il conflitto é stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza del 20 luglio 2000, n. 315, notificata alla Camera dei deputati, il 3 agosto 2000.

4. ― La Camera dei deputati si é ritualmente costituita in giudizio, chiedendo che la Corte dichiari che spetta alla Camera affermare l’insindacabilità delle opinioni espresse dal proprio deputato.

Secondo la difesa della Camera, tra le opinioni dei parlamentari riconducibili alla previsione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione rientrerebbero anche quelle espresse, come nel caso in esame, "nel corso di un dibattito politico" ed in un "pubblico locale". A suo avviso, contrasterebbe con la logica dell’odierna società pluralista, che ruota attorno al rafforzamento del raccordo tra l’organo parlamentare e la società civile, un’interpretazione diretta a distinguere nettamente l’attività parlamentare e l’attività politica, soprattutto qualora quest’ultima sia svolta nell’imminenza delle elezioni. La relazione di "inerenza" delle opinioni all’esercizio delle funzioni parlamentari non potrebbe essere configurata in termini così restrittivi da rendere in sostanza inoperante il criterio dell’applicabilità della garanzia costituzionale alle dichiarazioni rese al di fuori della sede istituzionale, mentre la Corte d’appello avrebbe affermato in modo apodittico l’inesistenza del nesso funzionale.

4.1. ― La difesa della Camera sostiene che ricorrerebbero i presupposti per ritenere riconducibili le opinioni in esame alla previsione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, in quanto il deputato Vittorio Sgarbi, nell’esercizio dell’attività ispettiva, avrebbe costantemente manifestato un atteggiamento critico nei confronti dell’operato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, come dimostrerebbero molteplici interrogazioni: la n. 3/00009 e la n. 3/00010 dell’aprile 1994 (in cui si chiedono accertamenti ispettivi sull’ufficio di detta procura e la promozione dell’azione disciplinare nel confronti del dr. Caselli); la n. 4/08683 del marzo 1995 (avente ad oggetto l’operato del dr. Caselli); e ancora, fra le altre, la n. 3/01624 del 1997 (particolarmente critica nei confronti di alcuni magistrati di detta Procura).

Tra le dichiarazioni oggetto della delibera di insindacabilità e le opinioni formalizzate in sede ispettiva non intercorrerebbe soltanto un rapporto di comunanza tematica, ma una vera e propria identità di impostazione e di svolgimento dei medesimi contenuti critici: le prime costituirebbero anzi una mera divulgazione – sia pure nei termini sintetici ed icastici che sono propri degli interventi resi nel corso di manifestazioni politiche – delle seconde.

La difesa della Camera conclude, infine, sostenendo che la fattispecie in esame presenterebbe molteplici profili di analogia con quella decisa con la sentenza della Corte n. 321 del 2000 e chiede che il conflitto sia dichiarato infondato.

5. ― In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della Camera dei deputati ha depositato memoria, nella quale ha ribadito le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione.

6. ― All’udienza pubblica la difesa della Camera, in via preliminare, ha eccepito l’inammissibilità del conflitto per difetto dei presupposti, sostenendo, tra l’altro, che l’atto introduttivo mancherebbe della esposizione dei motivi del conflitto, i quali sarebbero stati affermati in modo apodittico e senza alcun riferimento alla fattispecie concreta. Nel merito ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. ― Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato con l'atto indicato in epigrafe, ha ad oggetto la deliberazione adottata nella seduta del 23 marzo 1999, con la quale la Camera dei deputati ha dichiarato che i fatti per i quali era in corso, innanzi alla Corte d'appello di Roma -IV sezione penale- il giudizio per diffamazione aggravata nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi concernono opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari e quindi insindacabili, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

La Corte d'appello di Roma -IV sezione penale- contesta la predetta deliberazione della Camera dei deputati, in quanto, a suo avviso, non sussisterebbe alcun nesso tra le funzioni parlamentari e le opinioni espresse dal deputato Sgarbi, che possa determinare la loro insindacabilità in base al primo comma dell'art. 68 della Costituzione, cosicchè deduce che l'adozione della delibera in oggetto "comporta il dover sollevare il controllo sulla sua legittimità" da parte della Corte costituzionale.

2. ― Va premesso che questa Corte con l'ordinanza n. 315 del 2000 ha ritenuto, in linea di prima e sommaria delibazione, ammissibile il conflitto, riservando peraltro espressamente ogni definitiva decisione sul punto all'attuale fase processuale, nella quale il giudizio si svolge nel contraddittorio tra le parti. In questa sede va quindi sciolta definitivamente, e con cognizione piena, la riserva formulata in ordine alle questioni di ammissibilità del proposto conflitto.

3. ― Il conflitto θ inammissibile.

All'udienza pubblica la difesa della Camera dei deputati ha formalmente eccepito, in via preliminare, l'inammissibilità del conflitto, sostenendo, tra l'altro, che l'atto introduttivo sarebbe carente di motivazione, mancando la puntuale esposizione dei motivi del conflitto, i quali sarebbero stati affermati in modo apodittico, senza un preciso riferimento alla fattispecie concreta, cosicchè difetterebbero i presupposti per ritenere ritualmente introdotto il giudizio.

L'eccezione va accolta e non può pertanto essere confermato l'esito della delibazione effettuata nella fase sommaria con la citata ordinanza n. 315 del 2000, poichè l'atto con il quale é stato sollevato il conflitto é carente dei requisiti stabiliti dagli artt. 37 e 38 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Va premesso che secondo la giurisprudenza costituzionale, ai fini dell'ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, é assolutamente rilevante che dall'atto introduttivo, indipendentemente dalla forma dell'ordinanza eventualmente rivestita, sia in ogni caso individuabile un duplice contenuto in relazione alla duplice funzione cui esso é diretto: per una parte, provvedendo in ordine al processo in corso; per l'altra, e contestualmente, denunciando l'insorto conflitto e chiedendone la risoluzione (cfr. ordinanze nn. 228 e 229 del 1975).

Ed infatti nel conflitto di attribuzione -a differenza che in sede di questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale- occorre che il giudice, quale titolare della funzione giurisdizionale, si faccia promotore del giudizio come parte ricorrente, in vista della tutela di un interesse astrattamente fornito di protezione costituzionale; a questo fine l'atto introduttivo deve assumere i contenuti e le forme del giudizio costituzionale sui conflitti e seguirne le regole (sentenza n. 10 del 2000). Occorre pertanto che tale atto contenga un preciso riferimento agli elementi indispensabili per l'identificazione delle "ragioni del conflitto" e inoltre non sia privo di una domanda chiaramente individuabile (cfr. ordinanza n. 264 del 2000), anche se implicitamente desumibile dal contesto dell'atto (sentenza n. 137 del 2001), consistente nella sostanziale richiesta di una pronuncia della Corte che dichiari non spettare alla Camera di appartenenza la valutazione contenuta nella deliberazione impugnata e che annulli quest'ultima (cfr. sentenza n. 10 del 2000).

L'ordinanza della Corte d'appello di Roma in esame non si conforma invece a queste regole, dal momento che difetta, innanzi tutto, la richiesta alla Corte di una declaratoria di non spettanza alla Camera dei deputati del potere in contestazione e di conseguente annullamento della deliberazione impugnata. Nè può ritenersi sufficiente, a tal fine, rilevare, come si legge nell'ordinanza in esame, che il dissenso in ordine alla delibera parlamentare "comporta il dover sollevare il controllo sulla sua legittimità da parte della Corte costituzionale, attraverso il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato", poichè é invece consolidato orientamento di questa Corte che la giurisdizione sui conflitti, essendo determinata in relazione alle competenze la cui integrità viene difesa dai soggetti confliggenti (sentenza n. 457 del 1999), non dà adito ad un generale controllo di legittimità dell'atto invasivo, ma consente la sola disamina delle censure che configurano una diretta lesione di tali attribuzioni.

D'altra parte, la richiesta del controllo sulla legittimità della delibera é l'unica forma di petitum indirettamente ricavabile nell'atto in questione, giacchè il dispositivo si limita a stabilire che la Corte d'appello di Roma "sospende" il giudizio in corso ed "ordina" l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "sollevando conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato". Si può quindi dire che, sotto questo aspetto, l'atto in esame si conforma, in modo inammissibile, allo schema del giudizio di legittimità in via incidentale, anzichè a quello del giudizio per risoluzione dei conflitti di attribuzione, giacchè sono individuabili solo i profili propri dell'ordinanza e sono invece del tutto carenti quelli propri del ricorso.

Appare poi lacunosa l'indicazione delle "ragioni del conflitto", in quanto esse vengono enunciate in modo generico ed astratto, prevalentemente attraverso citazioni della giurisprudenza, senza essere puntualmente riferite al caso concreto. Valga in proposito la considerazione che l'ordinanza afferma la pretesa inesistenza, nella specie, del nesso funzionale tra opinioni espresse ed attività parlamentare, sulla base della sola constatazione che le frasi incriminate sono state pronunciate nel corso di un dibattito politico in un pubblico locale. Ma non indica alcuna ragione di diritto o di fatto perchè, ad avviso del ricorrente, non sarebbe, nelle frasi considerate, individuabile un intento divulgativo di precedente attività ispettiva parlamentare e non sarebbe stato quindi correttamente usato "il potere di autotutela spettante alla Camera di appartenenza".

D'altra parte, il difetto di motivazione su questo profilo comporta anche il mancato chiarimento sui modi con cui si sarebbe verificata l'interferenza della Camera, che avrebbe determinato la menomazione delle prerogative costituzionali, subìta, nella fattispecie concreta, dal giudice ricorrente.

Difettano quindi in questa vicenda processuale i presupposti formali e sostanziali che possano far riconoscere il giudice come parte ricorrente di un conflitto di attribuzione, in quanto l'atto introduttivo, non osservando le regole del giudizio, sembra superare la fondamentale distinzione tra conflitto di attribuzione e controllo di costituzionalità. Inoltre non si consente a questa Corte un esame adeguato delle ragioni poste a base del sollevato conflitto, non risultando espressa in maniera compiuta la censura che si intende muovere nei confronti della delibera che ha dato origine al conflitto (ordinanza n. 318 del 1999), venendo così a "mancare un elemento essenziale del ricorso" (sentenza n. 477 del 2000).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dalla Corte d'appello di Roma, IV sezione penale, nei confronti della Camera dei deputati con l'atto indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2001.