Sentenza n. 10 del 2000

SENTENZA N. 10

ANNO 2000

 

Commento alla decisione di

Pasquale Costanzo

La “giurisprudenza Sgarbi” alla ricerca di un punto fermo

(nella Rubrica Studi e Commenti della Sezione Studi 2002-2000 di questa Rivista)

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof.  Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

- Dott. Franco BILE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del 16 settembre 1998 della Camera dei deputati relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con atto del Tribunale di Roma – sez. X penale, notificato il 16 giugno 1999, depositato in cancelleria il 22 successivo ed iscritto al n. 20 del registro conflitti 1999.

 Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

 udito nell’udienza pubblica del 9 novembre 1999 il Giudice relatore Valerio Onida;

 udito l’avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale di Roma, davanti al quale pende un procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, ha promosso, con ordinanza emessa il 18 gennaio 1999, trasmessa a questa Corte il 22 giugno 1999, conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla deliberazione di detta Camera, adottata il 16 settembre 1998, su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, con la quale si è dichiarato che i fatti per i quali è in corso il predetto procedimento penale concernono opinioni espresse dal deputato nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Il Tribunale premette che l’on. Sgarbi è imputato di diffamazione col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, per averne offeso la reputazione, anche con l’attribuzione di fatto determinato, affermando, in dichiarazioni rese alle agenzie giornalistiche ANSA ed AGI rese pubbliche il 27 aprile 1994, in relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Giulio Andreotti, indagato da quella Procura, di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato; che “il processo Andreotti è un processo politico”; ed ancora che avrebbe denunciato il Caselli per “truffa aggravata e abuso d’ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per un’azione politica”.

Premette inoltre che la relazione della Giunta, nel motivare la proposta poi accolta dalla Camera, aveva rilevato anzitutto che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’on. Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni parlamentari”; aveva richiamato la tesi, sostenuta dal parlamentare in sede di audizione, secondo cui “le sue affermazioni avevano un contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la persona del Procuratore della Repubblica di Palermo”, osservando che tale era stata anche l’opinione della giunta stessa, la quale aveva rilevato “che i suddetti temi sono stati a lungo – e permangono tali anche al momento attuale – al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni”.

Ciò premesso, il Tribunale osserva che “la dichiarazione con la quale si attribuisce ad una persona la commissione di delitti – accompagnata dal preannuncio dell’esercizio di un diritto-dovere (quello di denuncia) riconosciuto dall’ordinamento a tutti i soggetti” - sarebbe condotta esulante dall’esercizio delle funzioni di parlamentare.

Né, secondo il Tribunale, varrebbero in contrario le considerazioni svolte dalla Giunta della Camera: perché il lancio di agenzia non sarebbe avvenuto sulla base del recepimento di una interrogazione parlamentare, bensì sulla scorta di una mera dichiarazione resa, non in veste di parlamentare, dall’on. Sgarbi; e perché “su uno stesso argomento – benché oggetto centrale di lungo, attuale e diffuso dibattito parlamentare e politico – possono esser espresse, accanto o in contrapposizione a legittime opinioni, dichiarazioni astrattamente o potenzialmente lesive dell’altrui reputazione”.

Quanto all’affermazione del deputato di non aver inteso diffamare la persona del magistrato, il Tribunale osserva che essa non riuscirebbe a scalfire la convinzione, secondo cui una critica politica non potrebbe impunemente “consistere nell’attribuzione, ad una persona nominativamente indicata, della perpetrazione di delitti, attribuzione avvenuta in assenza, secondo l’ipotesi accusatoria, dei canoni della verità e della continenza, in grado di scriminare la condotta diffamatoria”.

2.— Il conflitto è stato dichiarato ammissibile, in sede di delibazione ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953, con ordinanza di questa Corte n. 238 del 1999; l’atto introduttivo e l’ordinanza sono stati successivamente, nei termini assegnati, notificati alla Camera dei deputati e depositati con la prova dell’avvenuta notifica.

3.— Si è costituita la Camera dei deputati, chiedendo in via principale che il conflitto sia dichiarato irricevibile per inidoneità dell’atto – l’ordinanza emessa dal Tribunale - con cui è stato promosso; in subordine, che sia dichiarato che spettava alla Camera affermare l’insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Sgarbi.

La difesa della Camera dà atto della risalente giurisprudenza di questa Corte che ha considerato ammissibile il conflitto sollevato da autorità giudiziaria mediante ordinanza e non già mediante ricorso, ma prospetta articolate argomentazioni intese a dimostrare l’infondatezza di tale assunto, invitando la Corte a rivedere il proprio indirizzo sul punto.

Pur ammettendo che l’ordinanza del Tribunale di Roma presenta un duplice contenuto, disponendo da una parte la sospensione del processo e la trasmissione degli atti a questa Corte, chiedendo dall’altra di dichiarare che non spetta alla Camera dei deputati ritenere coperte da insindacabilità le opinioni espresse dall’on. Sgarbi, la difesa della parte sostiene la infungibilità del ricorso e dell’ordinanza. Quest’ultima sarebbe un provvedimento giurisdizionale, compiuto, ai sensi dell’art. 101, primo comma, della Costituzione, “in nome del popolo italiano”, e soggetto all’obbligo di motivazione di cui all’art. 111, primo comma, della Costituzione. Il ricorso invece è atto di parte, che non deve essere motivato ma deve contenere l’esposizione sommaria delle ragioni di conflitto e l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia, ai sensi dell’art. 26 delle norme integrative. Inoltre la forma dell’ordinanza, che è provvedimento giurisdizionale, renderebbe difficile applicare la normativa sulla rinuncia al ricorso e la sua accettazione; e sarebbe inidonea a formalizzare il rapporto fra l’organo collegiale e il suo Presidente, cui spetterebbe la legittimazione processuale. Il Tribunale avrebbe sovrapposto la logica del giudizio costituzionale incidentale a quella del conflitto di attribuzioni, come sarebbe dimostrato anche dalla trasmissione alla Corte degli atti del processo, che invece, essendo documenti del ricorrente, dovrebbero essere depositati presso la Corte, nel numero di copie prescritto dall’art. 6 delle norme integrative. Tale norma verrebbe invece, secondo la prassi attuale, aggirata dall’autorità giurisdizionale, con violazione del principio di parità fra le parti del giudizio.

D’altra parte, secondo la difesa della Camera, se fosse possibile scindere le due parti dell’ordinanza, allora dovrebbe distinguersi fra ordinanza, relativa al giudizio pendente, e ricorso; e verrebbe meno l’argomento, addotto a giustificazione dell’impiego dell’ordinanza, della tipicità dei provvedimenti dei giudici; l’atto di promozione del conflitto sarebbe esercizio del diritto di difesa in giudizio, e dunque sarebbe tipico, ma non in quanto atto del giudice, bensì come atto di parte. Non sarebbe costituzionalmente giustificata la diversità di trattamento dei conflitti promossi dall’autorità giudiziaria rispetto a quelli promossi da altri poteri.

Né potrebbe farsi leva sul principio di economia processuale, perché il ricorso non è un atto del processo, ma atto di impulso del diverso giudizio davanti alla Corte; e quanto a quest’ultimo, le esigenze di economia processuale non dovrebbero far aggio sul doveroso rispetto delle norme di procedura, così come è avvenuto quando la Corte ha dichiarato improcedibili ricorsi per conflitto depositati tardivamente, nonostante la possibilità di riproposizione dei conflitti medesimi.

4.— Nel merito, la difesa della Camera muove dalla tesi, che qualifica intermedia, secondo cui la insindacabilità coprirebbe non tutta l’attività politica svolta dal parlamentare, ma, oltre agli atti tipici, le opinioni collegate da nesso funzionale con il mandato parlamentare; e sottolinea il carattere politico della rappresentanza della nazione, nel senso che essa attiene alla generalità degli interessi della polis, non predeterminabili a priori, e che devono essere apprezzati in concreto sulla base di una valutazione schiettamente politica: l’attività parlamentare, in quanto “libera nel fine”, non avrebbe contorni definibili in astratto. Pur non dovendosi confondere fra la funzione parlamentare e l’attività del singolo parlamentare, pur tuttavia la vastità dell’ambito funzionale coperto dal mandato imporrebbe di negare la riconducibilità ad esso delle sole attività del singolo membro delle Camere che siano manifestamente estranee alla funzione. Questa Corte, il cui controllo in questo caso confinerebbe con apprezzamenti di tipo essenzialmente politico, non potrebbe che limitarsi ad un controllo “esterno”, attinente alla manifesta inattendibilità degli apprezzamenti compiuti dall’organo autore dell’atto controllato.

Nella specie, ad avviso della Camera, sussisterebbe quella specifica connessione con atti tipici della funzione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sarebbe condizione necessaria e sufficiente perché l’opinione espressa si debba considerare coperta dalla garanzia di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione. Infatti, in primo luogo, l’on. Sgarbi avrebbe già manifestato il proprio dissenso nei confronti del procedimento penale instaurato a carico del sen. Andreotti, prima dei fatti oggi a lui contestati, in occasione del dibattito al Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dello stesso sen. Andreotti, cui lo Sgarbi assisteva dalla tribuna riservata ai deputati: nel corso di quel dibattito il suo dissenso era stato manifestato così fermamente e vivacemente, che il Presidente del Senato aveva disposto il suo allontanamento dall’aula, informandone il Presidente della Camera, il quale, a sua volta, espresse rammarico per l’impossibilità, allo stato dei regolamenti parlamentari, di infliggere all’on. Sgarbi una sanzione disciplinare, così implicitamente statuendo che la vicenda atteneva esclusivamente alla vita interna delle Camere.

In secondo luogo, sussisterebbe una stretta connessione fra le dichiarazioni contestate e l’esercizio, da parte dell’on. Sgarbi, del potere di sindacato ispettivo parlamentare, esplicatosi anzitutto con la presentazione, un anno prima dei fatti di cui è giudizio, e cioè il 28 aprile 1993, di un’interrogazione in merito all’uso “politico” dei “pentiti”; e poi con la presentazione, in data 29 aprile 1994, di due interrogazioni al Ministro della giustizia (di cui la prima presentata in realtà il giorno 28, ancorché registrata il 29), coincidenti nella sostanza con le dichiarazioni contestate, risolvendosi nella imputazione al dott. Caselli dell’accusa di avere esercitato l’azione penale nei confronti del sen. Andreotti “per motivi inesistenti e infondati”, tali da imporre l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato. La difesa osserva che, trattandosi di interrogazione rivolta al Ministro della giustizia, l’on. Sgarbi faceva riferimento alla sola responsabilità disciplinare, che il Ministro può attivare, e non parlava della responsabilità penale, evocata invece nelle dichiarazioni contestate, ma che la sostanza delle critiche e delle loro conseguenze era identica.

Non varrebbe obiettare che le predette interrogazioni sono successive rispetto alle dichiarazioni, poiché in realtà esse sarebbero contemporanee, e nelle dichiarazioni si afferma di avere già predisposto le interrogazioni, mentre il ritardo nel deposito delle stesse sarebbe meramente accidentale.

La vicenda in discussione andrebbe inoltre inquadrata nel contesto del dibattito politico-parlamentare sul “caso Andreotti”, concernente un processo di portata storica: dibattito nel cui ambito si sono registrati interventi volti a censurare l’operato dei magistrati e a sottolineare la natura politica del processo: questo sarebbe anche l’addebito formulato dall’on. Sgarbi.

La parte rileva infine che la deliberazione della Camera è intervenuta nel rispetto delle regole procedurali, dopo che la Giunta aveva proceduto in contraddittorio con l’on. Sgarbi, e sulla base di una puntuale illustrazione del deputato che faceva funzione di relatore: onde la Camera avrebbe puntualmente e precisamente apprezzato la consistenza politica delle dichiarazioni dell’on. Sgarbi, indicando con precisione le ragioni del nesso funzionale che le legavano all’esercizio del mandato parlamentare, e dunque riscontrando esattamente l’esistenza dei presupposti dell’insindacabilità.

5.— In una successiva memoria depositata in vista dell’udienza, la difesa della Camera ribadisce anzitutto, richiamando la più recente giurisprudenza di questa Corte, la tesi per cui le opinioni espresse dal parlamentare extra moenia sarebbero assistite dalla garanzia costituzionale dell’insindacabilità ove ricorra il nesso funzionale con il mandato parlamentare, e ricorda un orientamento espresso dalla Corte di cassazione, secondo cui il controllo, in sede di conflitto, sulle deliberazioni parlamentari sarebbe assimilabile a quello sull’eccesso di potere, e le opinioni espresse da un parlamentare sarebbero insindacabili anche solo quando siano “plausibilmente ricollegabili” alla sua funzione.

La stessa Camera, nella specie, avrebbe motivato la propria deliberazione non in ragione di una presunta “copertura” generale di qualunque attività politica, ma proprio in ragione del nesso funzionale che impone il riconoscimento della garanzia dell’insindacabilità. Non potrebbe dunque riscontrasi alcun vizio di procedimento, né alcun sintomo di “eccesso di potere”.

In particolare, la difesa ribadisce che non vi sarebbe stato da parte della Camera un erroneo apprezzamento dei presupposti dell’insindacabilità, posto che le dichiarazioni contestate non erano altro che la prosecuzione extra moenia dell’attività di parlamentare. Quanto alle due più recenti interrogazioni presentate dall’on. Sgarbi, solo formalmente posteriori rispetto alle dichiarazioni, sarebbe da escludere la possibilità che esse siano state presentate per legittimare artificiosamente a posteriori dichiarazioni altrimenti non coperte da insindacabilità. Le dichiarazioni dell’on. Sgarbi sarebbero in realtà unite in inscindibile nesso logico, e quindi funzionale, con i suoi atti di sindacato ispettivo.

Considerato in diritto

1. — Il conflitto di attribuzioni promosso dal Tribunale di Roma nei confronti della Camera dei deputati – dichiarato ammissibile in sede di delibazione con la ordinanza n. 238 del 1999 – investe la deliberazione del 16 settembre 1998 con la quale l’assemblea, su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha dichiarato che i fatti per i quali è in corso, davanti al Tribunale ricorrente, un procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, per il reato di diffamazione col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, concernono opinioni espresse da quel parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi del primo comma dell’articolo 68 della Costituzione.

Con dichiarazioni rese a due agenzie giornalistiche, che le diffondevano il 27 aprile 1994, il deputato Sgarbi, secondo l’accusa, avrebbe offeso, anche con l’attribuzione di un fatto determinato, la reputazione del magistrato affermando, in relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Andreotti indagato dalla Procura della Repubblica di Palermo, che “il processo Andreotti è un processo politico” ; e annunciando di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato, capo di detta Procura, per “truffa aggravata e abuso di ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per una azione politica”.

La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati, nella relazione che accompagnava la proposta accolta dall’assemblea, rilevava che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni parlamentari”; esprimeva l’opinione che, come fatto presente dal deputato, le sue affermazioni avevano un contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la persona del Procuratore della Repubblica di Palermo; rilevava che “i suddetti temi sono stati a lungo – e permangono tali anche al momento attuale – al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni”.

Il Tribunale ricorrente ritiene che la Camera, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio potere, perché avrebbe arbitrariamente valutato il presupposto del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare: infatti, ad avviso del ricorrente, la dichiarazione con la quale si attribuisce ad una persona la commissione di delitti, accompagnata dal preannuncio dell’esercizio del diritto-dovere di denuncia, riconosciuto dall’ordinamento a tutti i soggetti, sarebbe condotta esulante dall’esercizio della funzione di parlamentare.

2. — L’eccezione di irricevibilità del conflitto per inidoneità dell’atto introduttivo, sollevata dalla difesa della Camera dei deputati, non può essere accolta.

E’ ben vero che nel conflitto di attribuzioni – a differenza che nella questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale – il giudice, quale titolare della funzione giurisdizionale, si fa promotore del giudizio come parte ricorrente, in vista della tutela di un interesse potenzialmente fornito di protezione costituzionale; e dunque l’atto introduttivo è un atto del giudizio costituzionale, ne assume i contenuti e le forme e ne segue le regole procedurali. Ma da ciò non si può trarre la conclusione della irricevibilità del presente conflitto in quanto promosso con ordinanza. Quella del Tribunale di Roma, infatti, al di là del nomen juris, possiede i requisiti necessari di un valido ricorso, come definiti dall’art. 37 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale: vi è l’identificazione del soggetto ricorrente (l’organo giudiziario procedente) e dell’atto da cui si afferma discendere la lamentata lesione di attribuzioni ad esso spettanti (la deliberazione della Camera dei deputati); vi è l’espressione della volontà di promuovere il conflitto e la richiesta di una pronuncia della Corte che dichiari non spettare alla Camera la valutazione contenuta nella deliberazione impugnata, e che annulli quest’ultima; vi è l’indicazione delle “ragioni del conflitto” e delle “norme costituzionali che regolano la materia”, nonché la sottoscrizione del soggetto ricorrente, nella persona del Presidente e dei membri del collegio giudicante. L’atto è pervenuto alla cancelleria di questa Corte in forma che può assimilarsi al “deposito” di cui al citato art. 26 delle norme integrative, ed è stato, dopo l’ordinanza di ammissibilità, regolarmente notificato a cura del ricorrente e depositato con la prova dell’avvenuta notifica.

Tanto basta perché si debba procedere all’esame del merito.

3. — Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito precisati.

Questa Corte, ai fini della risoluzione del conflitto, è chiamata a decidere se le dichiarazioni dell’on. Sgarbi possano dirsi, ed eventualmente in quali limiti, rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Esula quindi dal compito della Corte, la risposta al quesito se le dichiarazioni in questione integrino gli estremi del reato ascritto al deputato, o non concretino piuttosto la manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al pari di qualsiasi altro soggetto, fruisce, e che certamente comprende il diritto di critica anche nei confronti della magistratura e dell’operato di suoi membri: diritto a sua volta tutelato dall’art. 21 della Costituzione. A questa domanda è chiamato a rispondere il giudice del processo penale, al quale spetta pronunciarsi in concreto sul rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero, in particolare in campo politico, e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritenga leso dall’opinione espressa.

Il giudizio della Corte verte, invece, sulla tutela delle rispettive sfere di attribuzioni, ed investe la controversia sull’applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, originata dal contrasto tra la valutazione della Camera e quella dell’autorità giurisdizionale procedente.

A tal fine, la Corte non può limitarsi a verificare la validità o la congruità delle motivazioni – ove siano espresse – con le quali la Camera di appartenenza del parlamentare abbia dichiarato insindacabile una determinata opinione. Il giudizio in sede di conflitto fra poteri non si atteggia a giudizio sindacatorio (assimilabile a quello del giudice amministrativo chiamato a valutare un atto cui si imputi il vizio di eccesso di potere) su di una determinazione discrezionale dell’assemblea politica. In questo senso va precisato e in parte corretto quanto affermato nella pregressa giurisprudenza, circa i caratteri del controllo di questa Corte sulle deliberazioni di insindacabilità adottate dalle Camere (cfr. sentenza n. 265 del 1997): la Corte, chiamata a svolgere, in posizione di terzietà, una funzione di garanzia, da un lato dell’autonomia della Camera di appartenenza del parlamentare, dall’altro della sfera di attribuzione dell’autorità giurisdizionale, non può verificare la correttezza, sul piano costituzionale, di una pronuncia di insindacabilità senza verificare se, nella specie, l’insindacabilità sussista, cioè se l’opinione di cui si discute sia stata espressa nell’esercizio delle funzioni parlamentari, alla luce della nozione di tale esercizio che si desume dalla Costituzione (cfr. sentenza in pari data, n. 11 del 2000).

4. — Questa Corte ha già più volte sottolineato che la prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da “nesso funzionale” con le attività svolte “nella qualità” di membro delle Camere (sentenze n. 375 del 1997, n. 289 del 1998, n. 329 e n. 417 del 1999). Si tratta ora di precisare, rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte ed anche in vista di esigenze di certezza, quando ricorra tale nesso funzionale.

E’ pacifico che costituiscono opinioni espresse nell’esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell’assemblea.

Invece l’attività politica svolta dal parlamentare al di fuori di questo ambito non può dirsi di per sé esplicazione della funzione parlamentare nel senso preciso cui si riferisce l’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e dalle attività propri delle assemblee rappresentano piuttosto esercizio della libertà di espressione comune a tutti i consociati: ad esse dunque non può estendersi, senza snaturarla, una immunità che la Costituzione ha voluto, in deroga al generale principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, riservare alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.

La linea di confine fra la tutela dell’autonomia e della libertà delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall’espressione di opinioni, dall’altro lato, è fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell’ambito della prerogativa. Senza questa delimitazione, l’applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr. sentenza n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore quanto all’ambito e ai limiti della loro libertà di manifestazione del pensiero: con possibili distorsioni anche del principio di eguaglianza e di parità di opportunità fra cittadini nella dialettica politica.

Né si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della “funzione” del parlamentare così generica da ricomprendervi l’attività politica che egli svolga in qualsiasi sede, e nella quale la sua qualità di membro delle Camere sia irrilevante. Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le “funzioni” riferite agli organi non indicano generiche finalità, ma riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche per la funzione parlamentare, ancorché essa si connoti per il suo carattere non “specializzato” (cfr. sentenze n. 148 del 1983; n. 375 del 1997).

5. — Discende da quanto osservato che la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non può bastare a fondare l’estensione alla prima della immunità che copre le seconde. Tanto meno può bastare a tal fine la ricorrenza di un contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca. Siffatto tipo di collegamenti non può valere di per sé a conferire carattere di attività parlamentare a manifestazioni di opinioni che siano oggettivamente ad essa estranee. Sarebbe, oltre tutto, contraddittorio da un lato negare – come è inevitabile negare – che di per sé l’espressione di opinioni nelle più diverse sedi pubbliche costituisca esercizio di funzione parlamentare, e dall’altro lato ammettere che essa invece acquisti tale carattere e valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attività parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere.

In questo senso va precisato il significato del “nesso funzionale” che deve riscontrarsi, per poter ritenere l’insindacabilità, tra la dichiarazione e l’attività parlamentare. Non cioè come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare (cfr. sentenza, in pari data, n. 11 del 2000).

6. — Nella specie qui in esame si tratta di dichiarazioni rese dal deputato a due agenzie giornalistiche, evidentemente al di fuori dell’esercizio di funzioni parlamentari. La considerazione dell’intento politico e non diffamatorio delle dichiarazioni, e della collocazione del tema trattato al centro del dibattito politico e parlamentare – cioè di due degli argomenti addotti dalla Giunta della Camera a fondamento della dichiarazione di insindacabilità – resta estranea all’oggetto del presente giudizio, attenendo piuttosto alla verifica della compatibilità della opinione espressa con i limiti del diritto di critica politica.

Vero è invece, come pure ricordato dalla Giunta, che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni parlamentari”. Ma, per quanto si è detto sopra, non basta il mero collegamento di argomento con atti di sindacato ispettivo; tanto meno basta il richiamo, effettuato dalla difesa della Camera, alla manifestazione di dissenso del deputato, espressa in Senato dove egli assisteva alla seduta, circa il processo intentato a carico del sen. Andreotti e la relativa richiesta di autorizzazione a procedere della Procura di Palermo, sottoposta in quella circostanza al Senato.

Le dichiarazioni potrebbero dunque essere coperte dalla immunità solo in quanto risultassero sostanzialmente riproduttive di un’opinione espressa in sede parlamentare. Infatti l’opinione espressa nell’esercizio della funzione non è protetta da immunità solo nell’occasione specifica in cui viene manifestata nell’ambito parlamentare, ricadendo al di fuori della sfera della prerogativa se venga riprodotta in sede diversa. L’immunità riguarda non già solo l’occasione specifica in cui le opinioni sono manifestate nell’ambito parlamentare, ma il contenuto storico di esse, anche quando ne sia realizzata la diffusione pubblica, in ogni sede e con ogni mezzo. La pubblicità, infatti, e anzi la naturale destinazione, per così dire, alla collettività dei rappresentati, che caratterizza normalmente le attività e gli atti del Parlamento, proprio per assicurarne la funzione di sede massima della libera dialettica politica, comporta che l’immunità si estenda a tutte le altre sedi ed occasioni in cui l’opinione venga riprodotta al di fuori dell’ambito parlamentare.

Ma l’immunità è limitata a quel contenuto storico: e dunque, nel caso di riproduzione all’esterno della sede parlamentare, è necessario, per ritenere che sussista l’insindacabilità, che si riscontri la identità sostanziale di contenuto fra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede “esterna”.

Ciò che si richiede, ovviamente, non è una puntuale coincidenza testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti.

7. — Nella specie, non può aver rilievo il richiamo – pure fatto dalla difesa della Camera – alla interrogazione n. 3/00937 presentata dall’on. Sgarbi il 28 aprile 1993, cioè un anno prima delle dichiarazioni contestate, in quanto tale interrogazione verteva solo sul cosiddetto “uso politico dei pentiti” e sul “pericolo di inchieste giudiziarie pilotate attraverso i pentiti”, essendo volta a conoscere le iniziative del Governo per far sì che il fenomeno del “pentitismo” “non si presti ad essere gestito e politicamente utilizzato in modo disinvolto per interessi di parte”. L’oggetto e il contenuto di tale atto ispettivo (ove non compare alcun riferimento all’attuale querelante dott. Caselli) non hanno dunque più che un generico collegamento tematico con il contenuto delle dichiarazioni in questione.

Restano le due interrogazioni n. 3/00009 e n. 3/00010, presentate dall’on. Sgarbi rispettivamente il 28 e il 29 aprile 1994 (ancorché registrate entrambe in data 29 aprile), cioè nei giorni immediatamente successivi alle dichiarazioni, nelle quali ci si riferiva appunto ad una interrogazione. Può convenirsi con la difesa della Camera che, in questo caso, vi è sostanziale contestualità fra le une e le altre.

Egualmente però le dichiarazioni non possono considerarsi come divulgazione del contenuto delle interrogazioni, in quanto la sostanziale corrispondenza di contenuto fra le une e le altre è solo parziale.

La prima delle due interrogazioni si riferisce alle presunte dichiarazioni di un testimone, che avrebbe smentito un assunto della Procura di Palermo, e chiede al Ministro della giustizia “se non ritenga di disporre accertamenti ispettivi circa la correttezza delle procedure giudiziarie in questione ed eventualmente promuovere l’azione disciplinare davanti al CSM nei confronti del dottor Caselli, che, se quanto esposto in premessa risultasse vero, avrebbe chiesto l’autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti per motivi inesistenti e infondati”. Nella seconda interrogazione si riferisce il contenuto di un articolo pubblicato dal settimanale Epoca, da cui sarebbe risultato fra l’altro che nell’indagine di Palermo non erano emerse prove concrete a carico del sen. Andreotti, si chiede se risulti al Governo che quanto riportato dal settimanale risponda al vero, e si chiede al Ministro “se non ritenga, in caso affermativo, di disporre accertamenti ispettivi ai fini di un’eventuale promozione di un procedimento disciplinare davanti al CSM”.

Anche nelle dichiarazioni alle agenzie il deputato faceva riferimento all’articolo pubblicato da Epoca e alla mancanza di prove nel processo Andreotti; nelle interrogazioni non si trova invece né la testuale affermazione, contenuta nelle dichiarazioni, secondo cui “il processo Andreotti è un processo politico”, né alcun accenno alla preannunciata denuncia nei confronti del dott. Caselli per truffa e abuso d’ufficio, per avere utilizzato il proprio ruolo per una azione politica: cioè non si trovano le due affermazioni sulle quali si basa l’ipotesi accusatoria relativa al reato di diffamazione contestato al deputato. E se la prima di esse, relativa al carattere “politico” del processo di Palermo, potrebbe trovare una certa sostanziale corrispondenza nell’addebito, peraltro solo ipotizzato, nella prima interrogazione, di aver chiesto l’autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti “per motivi inesistenti e infondati”, la seconda, cioè l’annuncio di una denuncia per reati determinati, in relazione all’addebito di strumentalizzazione politica del ruolo del Procuratore, non trova alcuna corrispondenza sostanziale negli atti ispettivi.

Né può equivalere ad essa il riferimento ad eventuali azioni disciplinari, una volta (nella prima interrogazione) in relazione alla “correttezza delle procedure giudiziarie in questione”, e un’altra volta (nella seconda interrogazione) in via del tutto generica. Non vale osservare che al Ministro, per la sua competenza, non si poteva che prospettare la sola ipotesi di responsabilità disciplinare, e non quella di una responsabilità penale. Proprio questo rilievo sulla competenza ministeriale, evocabile ed evocata nell’interrogazione, non fa che sottolineare la differenza di contenuto fra gli atti ispettivi, esercizio della funzione parlamentare, e le dichiarazioni alle agenzie, ove si muove un addebito determinato di (affermata) rilevanza penale: elemento, quest’ultimo, specificamente posto a base dell’imputazione mossa al deputato.

8. — Si deve dunque concludere che le dichiarazioni dell’on. Sgarbi, per la parte priva di sostanziale corrispondenza con il contenuto degli atti ispettivi citati, non possono ritenersi rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari, e dunque coperte dall’immunità ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; in relazione a tale parte, dunque, va annullata la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati dichiarare che i fatti per i quali è in corso presso il Tribunale di Roma il procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, per diffamazione a danno dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, limitatamente al contenuto delle dichiarazioni del medesimo deputato non corrispondente sostanzialmente a quello delle interrogazioni da lui presentate al Ministro della giustizia il 29 aprile 1994, concernono opinioni espresse dal deputato Sgarbi nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione; di conseguenza annulla, nella parte in cui si riferisce al predetto contenuto delle dichiarazioni, la deliberazione in tal senso adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 16 settembre 1998.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 2000.

Giuliano VASSALLI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 gennaio 2000.