Sentenza n. 227/99

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SENTENZA N. 227

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356; giudizi promossi con ordinanze emesse il 26 maggio 1998 dal Tribunale di sorveglianza di Torino, il 31 e il 18 marzo, e il 15 settembre 1998 dal Tribunale di sorveglianza di Roma, rispettivamente iscritte ai nn. 644, 668, 714 e 893 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 38, 39, 41 e 52, prima serie speciale, dell’anno 1998.

  Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito, nella camera di consiglio del 10 marzo 1999, il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

  1.1. — In deroga alle disposizioni riguardanti i limiti di pena di cui all’art. 47-ter, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), il Tribunale di sorveglianza di Roma concedeva a un collaboratore di giustizia il beneficio dell’espiazione della pena di 26 anni di reclusione, in forma alternativa, per essere il condannato titolare dello speciale programma di protezione di cui all'art. 10 del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82.

  Nel corso del procedimento inerente alla revoca della detenzione domiciliare nei confronti del predetto condannato, trasmesso per competenza dal Tribunale di sorveglianza di Roma in accoglimento dell’eccezione sollevata dal difensore, il Tribunale di sorveglianza di Torino prendeva atto che la Commissione centrale per i servizi speciali di protezione - senza che vi fosse stata inosservanza degli impegni assunti dall'interessato con la sottoscrizione del programma di protezione - non aveva prorogato le misure per la tutela dell’incolumità.

  All'udienza camerale, la difesa del detenuto invocava il non luogo alla revoca del beneficio, invitando il magistrato di sorveglianza ad accogliere soltanto le richieste modificazioni inerenti alla misura, ai sensi dell'art. 5 del decreto ministeriale 24 novembre 1994, n. 687 (Regolamento recante norme dirette ad individuare i criteri di formulazione del programma di protezione di coloro che collaborano con la giustizia e le relative modalità di attuazione).

  Il pubblico ministero concludeva sostenendo la necessità della revoca della misura, ma eccepiva l’illegittimità dell’art. 13-ter, aggiunto al citato decreto-legge n. 8 del 1991 dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che fa dipendere l’espiazione della pena in forma alternativa dal programma di protezione.

  Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha quindi sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter. In proposito il Collegio rileva che le misure alternative alla detenzione o equivalenti sono subordinate al parere preventivo dell'autorità competente a predisporre il programma, sì che - al fine di garantire l'incolumità personale di tali soggetti - le misure possono essere concesse anche in deroga alle vigenti disposizioni. Tuttavia la norma denunciata nulla statuirebbe in merito alle determinazioni da adottare in caso di revoca del programma di protezione, per cui si porrebbe il problema di quella disposta per ragioni non attinenti al comportamento del soggetto protetto, essendo venuto meno il pericolo, grave e attuale, per la sua incolumità.

  Il dubbio interpretativo, continua il remittente, non potrebbe essere risolto dalla disposizione contenuta nel regolamento esecutivo approvato con il citato decreto ministeriale n. 687 del 1994, ove si prevede la non automaticità della revoca, trattandosi di una fonte subordinata alla legge che non inciderebbe sulla sfera di valutazione del Tribunale di sorveglianza.

  La disposizione denunciata sarebbe dunque in contrasto sia con il principio di emenda, contenuto nell’art. 27, terzo comma, il quale esclude ogni mutamento della pena in senso peggiorativo e restrittivo - allorchè l’evento non dipenda dal condannato - sia con l’art. 13 della Costituzione, perchè il ripristino della detenzione in forma ordinaria per il collaboratore incolpevole introdurrebbe una limitazione immotivata della libertà personale, con evidente lesione del suo carattere di inviolabilità.

  Il giudice a quo sembra invocare, infine, il principio di eguaglianza sostanziale ai sensi dell’art 3, capoverso, della Costituzione, che legittimerebbe "il trattamento dei collaboratori di giustizia in presenza di diversità di situazioni oggettive rispetto agli altri condannati", in considerazione del rilevante contributo fornito alla giustizia.

  1.2. — E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza, rilevando che la revoca dei benefici penitenziari in caso di cessazione del programma, "per essere venuta meno la situazione di pericolo", risponderebbe alla logica "remota causa, removitur et effectum", senza violazione del principio della finalità rieducativa della pena e di quello della libertà personale.

  2.1. — Nel corso di tre distinti procedimenti per la prosecuzione della detenzione domiciliare di cui al programma di protezione, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 102, primo e secondo comma, 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, altra questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3.       Osserva in proposito il rimettente che per i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 della disposizione in esame "la competenza appartiene al tribunale e al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha il domicilio"; e che ai sensi dell’art. 12, comma 3, "all’atto della sottoscrizione del programma l’interessato elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la commissione di cui all’art. 10". Sennonchè la Corte di cassazione ha interpretato i suddetti articoli, in combinato disposto, sostenendo che, a seguito dell’elezione (amministrativa) di domicilio nel luogo ove ha sede la Commissione centrale, deve intendersi che le persone sottoposte al programma di protezione abbiano anche il loro domicilio processuale a Roma, presso tale organismo.

  Ad avviso del giudice a quo, tale interpretazione non troverebbe conforto nella lettera della legge e nei lavori parlamentari. La disposizione censurata riguarderebbe infatti il domicilio effettivo, senza contenere alcun riferimento al meccanismo elettivo che servirebbe al solo scopo di indicare il recapito per le comunicazioni e le notifiche. Non ne deriverebbe pertanto una deroga al criterio di competenza territoriale, di cui all’art. 677 del codice di procedura penale, poichè il legislatore si é limitato a rendere più facile il reperimento dei collaboratori di giustizia, assicurando nel contempo la riservatezza delle informazioni concentrate presso l’autorità amministrativa centrale. Ne conseguirebbe che la certificazione sul domicilio, proveniente dall’organismo preposto alla protezione di questi soggetti, si rivelerebbe strumento idoneo a garantire l’efficienza delle attività processuali.

  L’interpretazione della Cassazione si configurerebbe ormai come diritto vivente, palesemente però in contrasto con i parametri costituzionali in precedenza richiamati, giacchè introduce di fatto una norma eccezionale e anomala. Essa recherebbe innanzitutto lesione all’art. 102, primo e secondo comma, della Costituzione, perchè la disposizione denunciata porrebbe un giudice speciale, competente in via esclusiva su tutto il territorio nazionale per i procedimenti riguardanti i titolari del programma di protezione. Il carattere della straordinarietà risulterebbe - ad avviso del rimettente - dalla deroga sostanziale alle "vigenti disposizioni" dell’ordinamento penitenziario, in considerazione del particolare status di tali soggetti e dei poteri attribuiti alla Commissione, che attraverso i pareri obbligatori resi inciderebbe inevitabilmente sui procedimenti giudiziari. Sì che nel caso di specie si sarebbe creata una sezione specializzata in materia penale, con competenza allargata a tutto il territorio nazionale; nè d’altra parte sarebbe giustificabile la previsione di una competenza accentrata, anzichè il collegamento con il domicilio effettivo dei collaboratori di giustizia.

  Per quanto attiene poi al principio di emenda, non sarebbe legittima la deroga al criterio secondo cui spetta al magistrato che ha la giurisdizione e la sorveglianza sull’istituto carcerario seguire il processo rieducativo del detenuto, avendone conoscenza diretta. E sarebbe altresì leso il principio del giudice naturale precostituito per legge, poichè la Commissione centrale, che attualmente ha sede a Roma, potrebbe essere trasferita altrove. In questo caso, tenendo ferma la linea interpretativa della Corte di cassazione, la competenza in ordine a tali procedimenti sarebbe sottratta al giudice di Roma, dato che la legge non individua il luogo ove ha sede la Commissione e, quindi, non stabilisce alcun collegamento normativo.

  In via gradata, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, "in relazione alla competenza territoriale del tribunale di sorveglianza (di Roma) nei confronti di soggetti collaboratori di giustizia, titolari di speciale programma di protezione, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della legge n. 82 del 1991, che siano detenuti in istituti penitenziari (posti) fuori del distretto della Corte di appello di Roma".

  2.2. — E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per la infondatezza. Le decisioni della Cassazione richiamate dal giudice a quo come ius receptum, ricorda la difesa erariale, sarebbero soltanto quattro, nessuna delle quali pronunciata dalle sezioni unite, onde la possibilità di una diversa interpretazione secundum constitutionem. Comunque non vi sarebbe - alla luce delle argomentazioni che si riportano - alcun vulnus dei parametri costituzionali indicati. Innanzitutto, non sarebbe violato l’art. 102 della Costituzione, dal momento che la concentrazione della competenza presso un unico giudice per l’intero territorio nazionale non implicherebbe la creazione nè di un giudice straordinario, nè di un giudice speciale.

  In secondo luogo, non vi sarebbe lesione del principio di ragionevolezza, poichè si giustificherebbe siffatta competenza sia con la necessità di mantenere il riserbo sul luogo in cui il collaboratore vive, sia con l’esigenza di collegare i benefici penitenziari con l’operato della Commissione centrale.

   In terzo luogo, non sarebbe vanificato il principio di emenda, posto che il giudice diverso da quello del luogo di detenzione avrebbe gli strumenti informativi per apprezzare il percorso di risocializzazione.

  Infine, sarebbe da escludere il contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge, giacchè verrebbe soddisfatta la condizione secondo cui il giudice deve essere istituito in base a criteri generali fissati in anticipo, cioé rispetto a fattispecie astratte e non in vista di determinate controversie. Onde sarebbe ininfluente il mutamento di sede dell’organismo pubblico.

Considerato in diritto

  1. — Vengono all’esame della Corte due distinte questioni di legittimità costituzionale concernenti la medesima disposizione: l’art. 13-ter del decreto-legge n. 8 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 82 del 1991, aggiunto dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del 1992.

  In quella sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Torino si ipotizza il contrasto con gli artt. 27, terzo comma, e 13 della Costituzione, perchè il condannato che subisca la revoca dello speciale programma di protezione, anche nel caso di incolpevole comportamento, si vedrebbe privato della misura alternativa alla detenzione o dei benefici equiparati, con lesione sia del principio di emenda, in ragione del trattamento in peius, sia di quello della libertà personale. L’ordinanza sembra inoltre sostenere che il principio di eguaglianza sostanziale, ai sensi dell’art. 3, capoverso, della Costituzione, legittimerebbe il trattamento dei collaboratori di giustizia in presenza di diversità di situazioni oggettive rispetto agli altri condannati. Ciò in considerazione del rilevante contributo fornito alla giustizia.

  Quella promossa con tre ordinanze dal Tribunale di sorveglianza di Roma riguarda più specificamente il comma 3 del citato art. 13-ter, nell’interpretazione uniforme della Cassazione che intende fissata la competenza territoriale presso il Tribunale di sorveglianza della capitale per effetto dell’elezione di domicilio presso la sede della Commissione centrale, prevista come obbligatoria dall’art. 12, comma 3, dello stesso decreto-legge. Tale norma contrasterebbe con:

- l’art. 102, primo e secondo comma, della Costituzione, che statuisce il divieto di istituire giudici straordinari o speciali;

- con il principio di ragionevolezza, non essendovi alcuna giustificazione per la deroga ai criteri di competenza e all’assetto degli organi giusdicenti previsti dall’ordinamento giudiziario;

- con la finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, poichè sottrae al magistrato di sorveglianza competente per territorio il compito di seguire i percorsi emendativi del collaboratore di giustizia;

- con il principio del giudice naturale precostituito per legge, contenuto nell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, giacchè la Commissione centrale - attualmente con sede a Roma - potrebbe essere trasferita altrove.

  2. — Le due questioni, che per la connessione dell’oggetto vanno trattate congiuntamente e decise con unica pronuncia, sono entrambe infondate.

  2.1. — Quanto alla questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Torino, la disposizione censurata, quale che ne sia l’interpretazione, non presenta i vizi di costituzionalità prospettati. Infatti, anche a voler condividere l’ermeneutica adottata dal rimettente, la norma non lede il principio della inviolabilità della libertà personale, che é palesemente estraneo al caso esaminato, trattandosi di esecuzione di pena conseguente a sentenza di condanna; nè viola quello dell’emenda, in quanto l’eventuale revoca del provvedimento troverebbe la sua ragion d’essere nel venir meno dell’atto presupposto, a cui non risulta più agganciato. Sulla base dell’opzione interpretativa del rimettente, il regime derogatorio in tema di misure alternative alla detenzione, previsto dall’art. 13-ter, comma 2, del decreto-legge n. 8 del 1991, introdotto dall’art. 13, comma 2, del decreto-legge n. 306 del 1992, sarebbe, cioé, inscindibilmente connesso al permanere del programma di protezione. E tanto darebbe ragione anche del medesimo trattamento riservato agli ex collaboratori di giustizia sia nel caso di revoca cosiddetta "incolpevole" dello speciale programma di protezione, sia nel caso di revoca per fatto a loro imputabile.

  2.2. — Del pari infondata é l’altra questione.

  La previsione della competenza esclusiva attribuita al Tribunale di sorveglianza di Roma risponde alla necessità di garantire la maggiore protezione possibile ai collaboratori di giustizia, impedendo che si possa risalire al luogo ove costoro sono ristretti o comunque sottoposti a regime protettivo. Sì che non é leso il principio di emenda, non soltanto perchè la Commissione centrale per i servizi di protezione é in grado di fornire ogni chiarimento agli organi giurisdizionali preposti alla sorveglianza, ma anche perchè questi ultimi possono avvalersi di tutte le articolazioni degli istituti penitenziari per l’osservazione del percorso rieducativo dei collaboratori detenuti in strutture carcerarie non comprese nella circoscrizione dell’ufficio romano. Comunque, ogni doglianza circa gli strumenti esistenti riguarderebbe il momento organizzatorio, non quello processuale che concerne la normativa in materia di competenza. E va pure osservato che, sotto il profilo dell’organizzazione giurisdizionale la previsione d’una speciale competenza territoriale non ha mai portato questa Corte ad affermare la violazione del principio del divieto d’istituzione di giudici straordinari o speciali a proposito di organi giurisdizionali "centralizzati" che assorbivano una speciale competenza in ordine a particolari affari (v. le sentenze nn. 336 del 1995, 231 del 1994, 369 del 1993, 189 del 1992, 477 del 1991, 117 del 1990, 217 del 1984, 12 del 1974, 4 del 1969).

  Quanto al fatto che la Commissione centrale ha sede nella capitale solo per una scelta dell’amministrazione dell’Interno, si osserva che la precostituzione viene in tal modo riferita non al giudice, bensì alla Commissione che non é organo giurisdizionale, per la quale non vige, quindi, il principio del giudice naturale. Del resto, mutamenti del regime della competenza dovuti a fatti modificativi, in ragione dell’applicazione delle sue stesse regole, sono possibili senza che ciò comporti una lesione del principio di precostituzione del giudice naturale.

  Le questioni vanno, pertanto, dichiarate non fondate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  riuniti i giudizi,

  1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n 82, aggiunto dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, con riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 13 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Torino con l’ordinanza in epigrafe;

  2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13-ter, comma 3, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del 1992, sollevata, con riferimento agli artt. 102, primo e secondo comma, 3, 27, terzo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Roma, con le tre ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria l’11 giugno 1999.