Sentenza n. 149 del 1995

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SENTENZA N.149

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 20 luglio 1994 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Angerame Lucia e Di Ciommo Lu ciano ed altra iscritta al n. 619 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un giudizio promosso per ottenere il risarcimento dei danni da responsabilità civile per circolazione di veicoli, nel quale un teste, ammonito a prestare giuramento secondo la formula stabilita dall'art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, si è rifiutato di giurare adducendo che le sue convinzioni religiose gli impedivano di prestare qualsiasi giuramento, il Pretore di Torino ha sollevato, d'ufficio, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice di procedure civile, nella parte in cui tale norma prevede che il giudice istruttore <ammonisce il teste sull'importanza religiosa, se credente, e morale del giuramento> e gli legge la seguente formula: "Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire la verità, null'altro che la verità" e non prevede che il teste debba pronunciare, così come avviene nel pro cesso penale (art. 497, comma 2, del codice di procedura penale), la seguente formula: "Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza", oltrechè nella parte in cui prevede che il testimone pronunci le parole "lo giuro".

Dopo aver ricordato che, prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447) la formula di giuramento del testimone nel processo civile e in quello penale era la medesima e che il nuovo codice del 1988 ha introdotto una norma (art. 497 cod. proc. pen.) priva dell'ammonizione del teste e contenente una formula di impegno senza riferimenti religiosi, il giudice a quo muove dal rilievo che, con la sentenza n. 117 del 1979, questa Corte, parificando le formule di giuramento utilizzate nel processo civile e in quello penale, sulla base della considerazione che identici erano gli scopi perseguiti dal legislatore con il giuramento del teste (maggior sprono a dire la verità) e identiche erano le conseguenze sul piano penale, ha aggiunto le parole "se credente" sia in relazione all'ammonimento del teste sull'importanza religiosa dell'atto, sia in relazione al giuramento prestato davanti a Dio. Ma, continua il giudice a quo, tale decisione non ha risolto il problema di veder esclusa dal processo la testimonianza di coloro che per convinzioni religiose si rifiutano di prestare giuramento con qualsiasi formula e di evitare a chi sta per prestare la testimonianza i turbamenti di coscienza legati al fatto che egli non crede alla sacramentalità del giuramento comunque prestato.

Più precisamente, ad avviso del giudice rimettente, la Corte con quella decisione, mentre ha risolto il problema dell'obiezione di coscienza al giuramento dei soli testimoni non credenti, ha invece lasciato irrisolto il problema dei testimoni credenti che, per motivi di fede o in adesione ai principii della propria confessione religiosa, ricusino di prestare giuramento con qualunque formula ovvero con una formula, come quella attuale del processo civile, contenente un esplicito riferimento alla divinità. Di tali problemi si sono dati carico vari giudici che negli anni successivi hanno sollevato questioni di costituzionalità -- vòlte a sostituire il "giuramento" con altre formule come l'"impegno", la "promessa" e simili -- che la Corte, con sentenza n. 234 del 1984, ha dichiarato inammissibili, in quanto le modifiche richieste comportavano <una pluralità di scelte discrezionali individuabili dal solo legislatore>.

Tuttavia, ora, continua il giudice a quo, avendo adottato l'art. 497, comma 2, cod. proc. pen., che ha sostituito alla formula del "giuramento" una di "impegno" scevra dal riferimento alla divinità, il legislatore ha operato la sua scelta almeno per quanto riguarda il processo penale, creando così una differenza incostituzionale con il processo civile a causa della mancata previsione in quest'ultimo di una formula di impegno del teste a dire la verità identica a quella.

Questa omissione, ad avviso del giudice rimettente, determina una disparità in conseguenza della quale l'art. 252, secondo comma, cod. proc. civ., si pone in contrasto con l'art. 19 della Costituzione, dove è garantita la libertà di coscienza religiosa, sotto un triplice profilo: a) rispetto a colui che, pur credente, è impedito dal suo credo religioso di prestare comunque il giuramento; b) rispetto a coloro che, pur credenti, non venerano la stessa divinità cui fa riferimento il legislatore nella norma impugnata; c) rispetto a coloro che, in quanto non credenti, sono comunque costretti a far riferimento a formule sacramentali, quali il giuramento, che creano ad essi conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle convinzioni del non credente.

Infine, sempre secondo il giudice a quo, l'art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., sembra contrastare anche con l'art. 24 della Costituzione, poichè, finendo con l'escludere dal processo la testimonianza di coloro che per convinzioni religiose non possono giurare e, quindi, testimoniare, determina un'irragionevole compressione del diritto alla prova, nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa.

A conclusione della sua ordinanza di rimessione, il giudice a quo motiva sulla rilevanza osservando che, a seguito dell'eventuale pronunzia di accoglimento, il giudice del processo principale potrebbe richiamare il teste ex art. 257 cod. proc. civ., ovvero potrebbe sempre sentirlo d'ufficio ex art. 317 cod. proc. civ. e invitarlo, così, a pronunziare la formula di impegno stabilita dall'art. 497, comma 2, cod. proc. pen. Inoltre, sempre nell'ipotesi di una pronunzia favorevole di codesta Corte, lo stesso teste, oltre a risparmiarsi le conseguenze penali del suo mancato giuramento, potrebbe esser finalmente sentito ex art. 253 cod. proc. civ. e la sua testimonianza non andrebbe perduta.

Considerato in diritto

1. -- Adìto per ottenere il risarcimento dei danni da responsabilità civile, il Pretore di Torino, dopo che un testimone si era rifiutato di prestare giuramento adducendo un impedimento di coscienza a causa delle proprie convinzioni religiose, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 19 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che il giudice istruttore <ammonisce il testimone sulla importanza religiosa, se credente, e morale del giuramento> e gli legge la formula: "Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire la verità, null'altro che la verità", anzichè disporre, come nell'art. 497, comma 2, del codice di procedura penale, che il giudice istruttore <lo invita a rendere la seguente dichiarazione: "Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza">; nonchè nella parte in cui lo stesso art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile, prevede che <il testimone presta il giuramento pronunciando le parole: "lo giuro">.

2. -- La questione è fondata, dal momento che le norme contestate si pongono in contrasto con gli artt. 3 e 19 della Costituzione.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. sentenza n. 467 del 1991, nonchè sentenza n. 422 del 1993), <poichè la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima>.

Ciò significa -- si legge ancora nella sentenza ora citata -- che, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale, la libertà di coscienza -- specie se correlata all'espressione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) ovvero, come nel caso, alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 della Costituzione) -- dev'essere protetta in misura proporzionata <alla priorità assoluta e al carattere fondante> ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana.

In tema di giuramento dei testimoni, tali principii, di validità generale, sono stati affermati da questa Corte in varie occasioni. Una prima volta, chiamata a giudicare della compatibilità del richiamo, operato proprio dalla norma ora impugnata (art. 251, secondo comma, cod. proc. civ.), alla responsabilità che il testimone assume davanti a Dio rispetto alla tutela accordata dall'art. 19 della Costituzione alla libertà di coscienza dei non credenti, quale libertà "negativa" di professare una fede o un'opinione religiosa, questa Corte, con la sentenza n. 117 del 1979, ha riconosciuto che l'imposizione a tutti indiscriminatamente di una formula di giuramento comportante l'assunzione di responsabilità davanti a Dio può provocare nei non credenti <turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni>, così da rappresentare un ingiustificato ostacolo alla piena garanzia del valore costituzionale della libertà di coscienza. In conseguenza della decisione ora ricordata e dell'addizione dell'inciso "se credente" da essa operata in riferimento al giuramento di fronte a Dio, la formula del giuramento del testimone nel processo civile (e, a seguito della dichiarazione di invalidità consequenziale, anche nel processo penale, come regolato dal codice di procedura previgente), ha assunto un duplice e distinto significato: per i credenti il giuramento ha una valenza sia religiosa che morale, con conseguente assunzione di responsabilità tanto avanti a Dio quanto avanti agli uomini; per i non credenti lo stesso giuramento ha una valenza esclusivamente morale, comportante un'assunzione di responsabilità soltanto verso gli uomini.

In una successiva occasione, che costituisce precedente specifico della decisione in esame, la Corte, chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del dovere del testimone di prestare giuramento tanto nel processo civile (art. 251 cod. proc. civ.) quanto in quello penale (artt. 142 e 449 cod. proc. pen. previgente), ha implicitamente riconosciuto il conflitto di tale dovere con la libertà di coscienza del testimone la cui religione di appartenenza faccia divieto di prestare comunque giuramento e, persino, di pronunziare le parole "lo giuro", ma, rilevando che la decisione comportava una pluralità di soluzioni alternative, fra le quali soltanto il legislatore, nell'esercizio del suo insindacabile potere discrezionale, era autorizzato a scegliere (come la sostituzione del "giuramento" con formule diverse, quali l'"impegno" o la "promessa"; la previsione di una formula unica ovvero la predeterminazione di due o più formule alternative la cui scelta fosse personalmente demandata al testimone, etc.), ha dichiarato, con la sentenza n. 234 del 1984, l'inammissibilità delle questioni allora sollevate. Analoga pronunzia è stata resa da questa Corte, l'anno dopo, riguardo a un'identica questione sollevata nei confronti delle norme sul giuramento del testimone nel processo penale (v. ordinanza n. 278 del 1985).

3. -- Successivamente alle decisioni ora ricordate, il legislatore, adottando il nuovo codice di procedura penale, è intervenuto sul problema escludendo l'opzione, pur non incompatibile con i principii costituzionali, implicante la predeterminazione legislativa di formule di "impegno" o di "promessa" accanto a quella di "giuramento" al fine di lasciare alla libertà dei singoli testimoni la scelta dell'una o dell'altra formula in armonia con le proprie convinzioni morali o religiose. In luogo di questa opzione, vigente in altri ordinamenti, il facitore del codice di procedura penale del 1988 ha scelto la soluzione legislativa di un'unica formula (art. 497 cod. proc. pen.) contenente l'"impegno" solenne del teste a dire la verità, nella quale, <in omaggio alla tutela della libertà di coscienza>, come si legge nella <Relazione al progetto>, il testimone, dopo essere stato avvertito dal giudice relativamente all'obbligo di dire la verità e alle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti, è invitato a rendere la seguente dichiarazione: "Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza".

In conseguenza di questa scelta del legislatore, limitata al solo processo penale, il giudice a quo ritiene che si sia creata nell'ordinamento un'irragionevole differenziazione in danno della disciplina normativa prevista per l'esame dei testimoni nel processo civile, disciplina tuttora basata sulla formula di giuramento comune ai due processi anteriormente all'emanazione del nuovo codice di procedura penale. Infatti, secondo il giudice rimettente, si è venuta a determinare una differente tutela del valore costituzionale della libertà di coscienza nei preliminari della testimonianza nei due distinti procedimenti, per il fatto che, diversamente da quanto è garantito ai testimoni nel processo penale, a coloro che sono chiamati a testimoniare nel processo civile non è evitato il rischio di essere sottoposti a gravi turbamenti di coscienza a causa del conflitto interno fra il dovere civile di contribuire all'accertamento della verità giudiziale e il dovere morale di osservare un imperativo religioso da essi condiviso (con conseguente pregiudizio, nei casi di rifiuto a testimoniare, nei confronti del diritto di difesa, sotto specie di diritto alla prova).

Ed invero l'asimmetria sussistente nell'ordinamento quanto alla differente tutela accordata al la libertà di coscienza del testimone nel processo penale e in quello civile manifesta un'irragionevole disparità di trattamento in relazione alla protezione di un diritto inviolabile dell'uomo, la libertà di coscienza, che, come tale, esige una garanzia uniforme o, almeno, omogenea nei vari ambiti in cui si esplica.

Nè, d'altra parte, può logicamente affermarsi che la diversità di trattamento contestata sia giustificabile in dipendenza della differente struttura dei due procedimenti, dal momento che, come ha già implicitamente ammesso questa Corte con la sentenza n. 117 del 1979 allorchè ha esteso la declaratoria d'incostituzionalità della disciplina processual-civilistica a quella processual- penalistica, il trattamento normativo del giuramento del testimone nei due distinti procedimenti concerne aspetti comuni o, comunque, omogenei. Infatti, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, identica è nei due casi la ratio legis (spronare il teste a dire la verità) e identiche sono le conseguenze penali per chi si rifiuta, nell'uno o nell'altro dei processi, di prestare giuramento.

Il particolare profilo sottoposto al presente giudizio, cioè l'irragionevole disparità di tratta mento in relazione alla garanzia della libertà di coscienza religiosa, non consente di oltrepassare i confini del giuramento del testimone e di affrontare il problema del giuramento in generale (anche alla luce dell'art. 54 della Costituzione).

Tuttavia non è senza significato sottolineare che la soluzione prescelta dal legislatore per il processo penale -- nella specie assunta come tertium comparationis -- rappresenta un'attuazione, fra quelle possibili, del <principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica>: un principio che <implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale> (v. sentenza n. 203 del 1989, nonchè sentenze nn. 195 del 1993 e 259 del 1990).

Pertanto, al fine di assicurare tale pari tutela al valore della libertà di coscienza riguardo all'obbligo del testimone di impegnarsi a dire la verità, si impone l'estensione all'art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., della disciplina e della formula previste dall'art. 497, comma 2, cod. proc. pen., le quali sono scevre da qualsiasi riferimento a prestazioni di giuramento. Di modo che, a seguito di questa pronunzia di accoglimento, l'art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., risulta così formulato: <Il giudice istruttore avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e delle conseguenze penali delle dichiarazioni false e reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: "Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza">.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice di procedura civile: a) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore <ammonisce il testimone sull'importanza religiosa, se credente, e morale del giuramento e sulle>, anzichè stabilire che il giudice istruttore <avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e delle>; b) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore <legge la formula: "Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete da vanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire la verità, null'altro che la verità">, anzichè stabilire che il giudice istruttore <lo invita a rendere la seguente dichiarazione: "Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza">; c) nella parte in cui prevede: <Quindi il testimone, in piedi, presta il giuramento pronunciando le parole: "lo giuro">.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 05/05/95.