SENTENZA N. 195
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
Presidente
Prof.
Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott.
Francesco GRECO
Avv. Ugo
SPAGNOLI
Prof.
Antonio BALDASSARRE
Prof.
Vincenzo CAIANIELLO
Avv.
Mauro FERRI
Prof.
Luigi MENGONI
Prof.
Enzo CHELI
Dott.
Renato GRANATA
Prof.
Giuliano VASSALLI
Prof.
Francesco GUIZZI
Prof.
Cesare MIRABELLI
Prof.
Fernando SANTOSUOSSO
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 5, terzo comma, della
legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29, recante "Disciplina
urbanistica dei servizi religiosi", promosso con ordinanza emessa il 19
febbraio 1992 dal Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo sul ricorso
proposto dalla Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova contro il Comune
dell'Aquila, iscritta al n. 549 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno
1992.
Visti gli
atti di costituzione della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e del
Comune dell'Aquila nonchè l'atto di intervento del
Presidente della Regione Abruzzo;
udito
nell'udienza pubblica del 9 febbraio 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri;
uditi gli
avvocati Stefano Grassi, Pietro Rescigno e Angelo Clarizia
per la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e l'Avvocato dello Stato
Carlo Salimei per la Regione Abruzzo.
Ritenuto in fatto
l. La
Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, con istanza del 19 giugno 1988,
ha chiesto al Comune dell'Aquila la concessione dei contributi di cui alla
legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29, recante "Disciplina
urbanistica dei servizi religiosi", al fine di poter realizzare un
edificio di culto. La richiesta è stata respinta dal Sindaco dell'Aquila, con
provvedimento del 21 settembre 1990, con il motivo che la richiedente non è in
possesso del requisito di cui all'art. 8, terzo comma, della Costituzione (previsto
dall'art. 1 della citata L.R.), in quanto i rapporti fra la Congregazione e lo
Stato italiano non sono regolati "per legge, sulla base di intese".
Avverso
il provvedimento di diniego la Congregazione dei Testimoni di Geova ha
presentato ricorso avanti il T.A.R. per l'Abruzzo, deducendo la violazione
degli artt. 1 e 5 della legge regionale in esame ed assumendo che
l'interpretazione restrittiva adottata dal Sindaco si poneva in contrasto con i
principi costituzionali in materia.
Il T.A.R.
adito, ritenuta la normativa regionale insuscettibile di un'interpretazione
diversa, ed estensiva, rispetto a quella enunciata nell'impugnato
provvedimento, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli
artt.1 e 5, terzo comma, della predetta legge, in riferimento agli artt. 2, 3,
primo e secondo comma, 8, primo comma, 19, 20, 117 e 120, terzo comma, della
Costituzione, nella parte in cui dette norme prevedono la possibilità di
concedere contributi alle sole confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato
siano regolati per legge, sulla base di intese, ai sensi dell'art. 8, terzo
comma, della Costituzione.
2. Ad
avviso del giudice remittente il prevedere anche detto requisito, al fine di
accedere ai contributi regionali, introduce una ingiustificata discriminazione
tra confessioni religiose, suscettibile di incidere sulla libertà di culto in
danno di una Congregazione che detti contributi per l'edilizia religiosa già
percepisce in altre Regioni e che ripetutamente ha chiesto allo Stato italiano
di stipulare l'intesa prevista dal ricordato art.8 della Costituzione.
In
particolare, il T.A.R. dell'Abruzzo, premesso ancora che con d.P.R. 31 ottobre 1986 è stata riconosciuta personalità
giuridica alla Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, ritiene non
manifestamente infondato il dubbio che le disposizioni impugnate si pongano in
contrasto con le seguenti norme della carta costituzionale:
- l'art.
2, in quanto vengono ad incidere sui diritti inviolabili dell'uomo che detta
norma tende a tutelare;
- l'art.
3, primo comma, per la creazione di inammissibili discriminazioni fra cittadini
in base alla loro religione, anche con riferimento alla diversa
regolamentazione della materia da parte di altre Regioni;
- l'art.
3, secondo comma, che impone di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che
limitano di fatto l'eguaglianza dei cittadini (quali le difficoltà di poter
costruire edifici di culto);
- l'art.
8, che garantisce la libertà religiosa nell'eguaglianza e che non può
risolversi in danno di una Confessione religiosa che ha ripetutamente chiesto
di concludere l'intesa di cui al terzo comma;
- l'art.
19, che garantisce il diritto di professare liberamente la fede religiosa e di
esercitarne il culto e che viene violato con l'introduzione di ingiustificati e
maggiori ostacoli alla realizzazione di edifici di culto;
- l'art.
20, che vieta ogni discriminazione fra associazioni ed istituzioni in relazione
al loro fine religioso o di culto;
- l'art.
117, che, attribuendo alle regioni potestà legislativa nella materia
"urbanistica", non consente però di incidere sulla libertà religiosa
o sulla disciplina delle confessioni religiose;
- l'art.
120, terzo comma, in quanto il requisito richiesto viene di fatto a limitare il
libero esercizio, in una parte del territorio nazionale, dell'attività dei
ministri del culto della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova.
3. É
intervenuto nel giudizio il Presidente della Regione Abruzzo, rappresentato
dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della
questione sotto ogni profilo.
La difesa
della Regione rileva che l'illegittimità della normativa regionale è
prospettata fondamentalmente sulla base dell'allegata discriminazione tra
confessioni religiose che abbiano posto in essere il regime delle intese con lo
Stato italiano e quelle che viceversa non lo abbiano posto in essere.
Ma detto
differente trattamento, a suo avviso, non costituisce un'illegittima
discriminazione ma, al contrario, rappresenta una razionale e legittima
conseguenza di situazioni non omogenee.
Non è
infatti contestabile, afferma l'Avvocatura, che le intese, e la successiva
regolamentazione per legge, intervengano solo nei confronti delle comunità
religiose che siano istituzionalmente ed effettivamente organizzate quale corpo
sociale, e, quindi, consolidate dal punto di vista storico-giuridico. E
nell'ambito stesso delle confessioni religiose, cioé
delle comunità di fedeli che abbiano quelle caratteristiche, è indubbio che le
intese e la regolamentazione per legge intervengano solo con quelle che hanno
una maggiore presenza nella popolazione, una maggior estensione sul territorio;
in breve, solo con quelle di rilievo nazionale. La norma costituzionale non prevede
l'assoluta necessità di una legislazione sulle confessioni religiose; questa
interviene solo se il Governo valuti positivamente l'opportunità delle intese,
se le intese effettivamente si raggiungano e se, infine, il Parlamento,
condividendo l'opportunità della regolamentazione per legge dei rapporti e
condividendo il merito delle intese raggiunte, recepisca queste in una legge.
Poichè, quindi, la
devoluzione dei contributi urbanistici è operata al fine della costruzione e
della manutenzione degli edifici destinati al culto, risulterebbe del tutto
ragionevole la previsione della normativa regionale di ripartire tali fondi
esclusivamente tra le comunità religiose che, per la loro diffusione tra la
popolazione e la loro estensione nel territorio nazionale, abbiano raggiunto un
rilievo di indubbio interesse; cioè solo tra quelle comunità religiose cui lo
Stato riconosca rilievo tale da meritare che i reciproci rapporti siano
regolati per legge.
Nè sarebbe configurabile,
prosegue l'Avvocatura, alcuna violazione dei principi consacrati nell'art. 8
della Costituzione. Tale norma non afferma che tutte le confessioni religiose
siano eguali, il che comporterebbe un'assurda equiparazione di fenomeni
diversi, ma che sono tutte ugualmente libere.
La
Costituzione, in altri termini, affermerebbe solennemente che non possono farsi
limitazioni in base al culto delle confessioni, ma non giungerebbe a dire che
il trattamento deve necessariamente essere uguale anche se si tratti di
fenomeni di dimensioni totalmente diverse.
Altrettanto
la difesa della Regione rileva in ordine alla libertà di associazione. Se il
diritto della Congregazione dei Testimoni di Geova di professare la loro fede,
sia in forma individuale sia associativa, di farne propaganda e di esercitarne
il culto è fuori discussione, nondimeno il diritto ad ottenere un contributo
pubblico non attiene alla libertà di associazione e non potrebbe certo
configurarsi come un diritto costituzionalmente garantito.
Del tutto
fuor di luogo sarebbe anche il richiamo ai principi consacrati nell'art. 20
della Costituzione. La normativa regionale non porrebbe infatti limitazioni nè gravami fiscali diversi a seconda del culto o della
religione, limitandosi soltanto a prevedere la ripartizione di contributi. Nei
limiti entro i quali la differenza di trattamento sia ragionevole o
giustificata da una effettiva diversità di situazione non vi sarebbe alcuna
illegittima discriminazione.
Del pari
infondato, ad avviso dell'Avvocatura, sarebbe anche il richiamo alle competenze
regionali. Rientrano infatti indubbiamente nella materia urbanistica tanto le
prescrizioni che la Regione impone ai Comuni affinchè
negli strumenti urbanistici generali siano previsti i servizi di tipo religioso
quanto le norme sulla destinazione dei contributi alla realizzazione di quei
servizi.
Incomprensibile,
infine, risulterebbe il riferimento agli articoli 2 e 120 della Costituzione.
Il diritto di ricevere contributi pubblici non è un diritto inviolabile
dell'uomo, neppure se considerato parte di formazione sociali, e l'assenza di
questi contributi certo non può configurare, di per sè,
un limite all'esercizio del culto nel territorio nazionale.
4. Si è
costituita in giudizio la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova,
ricorrente nel giudizio a quo, instando per la declaratoria d'illegittimità
costituzionale delle norme censurate dal T.A.R. per l'Abruzzo.
La difesa
della Congregazione rammenta, in primo luogo, di aver ottenuto fin dal 1986 la
personalità giuridica e di aver altresì stipulato, ai sensi della legge 22
dicembre 1973 n.903, le cosiddette "piccole intese", ottenendo a
favore dei propri ministri di culto l'applicazione delle norme in materia
assistenziale e previdenziale nonchè l'autorizzazione
a celebrare matrimoni validi agli effetti civili ed a prestare assistenza
religiosa ai detenuti ed ai ricoverati nelle case di cura.
La
Congregazione, inoltre, rammenta di aver presentato fin dal 1977 formale
richiesta di stipulazione dell'intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della
Costituzione, senza - finora - alcun esito.
Ciò
premesso, la parte costituita afferma che a tenore del principio di eguale
libertà religiosa sancito nell'art.8, primo comma, della Costituzione, le
confessioni religiose devono godere in egual misura, non solo di un generico
diritto alla libertà religiosa, ma di tutte le facoltà previste dall'art. 19
della Costituzione, nonchè di tutti gli altri diritti
garantiti dalla Costituzione, che, in via diretta o strumentale, possono
rilevare nell'esercizio del diritto di libertà religiosa.
Tutte le
confessioni religiose, a suo avviso, devono godere di "assoluta parità di
trattamento, quanto all'esercizio di tutte le libertà garantite dalla
Costituzione", assicurandosi, a prescindere dall'esistenza di concordati o
di intese, la stessa misura di libertà, sia per ciò che concerne
l'organizzazione, sia per ciò che concerne il culto o la propaganda.
La norma
costituzionale imporrebbe quindi di disciplinare gli interventi legislativi
senza discriminare tra un culto e un altro, garantendo, a tutti, quei mezzi e
strumenti predisposti per rendere effettivi i medesimi diritti di libertà, in
quanto non potrebbe affermarsi che esista libertà veramente eguale laddove le
condizioni di esercizio di essa siano diverse per i vari soggetti.
Il
principio di "eguale libertà di culto" sancito dall'art. 8, primo
comma, della Costituzione, sarebbe dunque violato dalle norme regionali che prevedono
soltanto per la Chiesa cattolica e per la confessioni religiose che hanno
stipulato un'intesa con lo Stato una disciplina urbanistica specifica e
l'assegnazione di contributi: tali norme, afferma la Congregazione, vengono a
determinare esclusivamente per alcune confessioni religiose una situazione di
privilegio che incide in definitiva sulla concreta possibilità di costruire e
di aprire templi e quindi sul concreto godimento del diritto - che deve invece
essere assicurato in modo eguale a tutte le confessioni - di esercitare in
pubblico il culto.
5. Si è
parimenti costituito in giudizio il Comune dell'Aquila, parte resistente nel
giudizio a quo, deducendo l'inammissibilità, e comunque l'infondatezza, della
questione sollevata dal T.A.R. per l'Abruzzo.
La difesa
dell'Amministrazione comunale rileva come la Costituzione italiana, nella parte
relativa alle confessioni religiose, abbia seguito un duplice criterio: ha
garantito la libertà religiosa individuale e dei gruppi informali, ma ha anche
garantito la libertà delle confessioni religiose in misura uguale per tutte
(art. 8 primo comma, Cost.), riconoscendo il
carattere originario e indipendente della Chiesa cattolica e delle altre
confessioni.
Inoltre
nell'art. 20 ha garantito la libertà ed il trattamento paritario degli Enti di
religione o di culto e negli artt. 7, secondo comma, e 8, terzo comma, ha
dettato norme riguardanti le forme del diritto idonee a disciplinare i rapporti
tra lo Stato e le confessioni religiose.
Quest'ultime
disposizioni artt. 7 e 8, terzo comma, esprimono quello che autorevole dottrina
ha definito, il "principio pattizio" tra Stato e confessioni
religiose (concordato con la Chiesa cattolica e "intese" con le altre
confessioni).
La natura
giuridica dei rapporti pattizi non sarebbe dunque quella di meri atti politici,
ma condizione di legittimità costituzionale delle confessioni religiose.
La legge
diretta ad eseguire le intese, prosegue il Comune dell'Aquila, consente non
solo di dare una disciplina pubblicistica ai rapporti tra Stato e confessioni
religiose, ma anche il controllo di costituzionalità sulla legge esecutiva
delle intese stesse.
La
rilevanza giuridica così conseguita dalle confessioni religiose è stato il
criterio seguito dal legislatore della Regione Abruzzo: il 10% del contributo
degli oneri di urbanizzazione va erogato dai Comuni entro il 30 marzo di
ciascun anno a favore della Chiesa Cattolica e delle altre confessioni che
hanno stipulato le intese con lo Stato italiano (e quindi abbiano acquistato
rilevanza giuridica con la legge che dichiara esecutive le intese stesse) e che
abbiano una presenza organizzata nell'ambito del territorio comunale.
In
conclusione, non solo non sussisterebbe alcun contrasto della legge regionale
con gli invocati principi della Costituzione che attengono al principio della
libertà religiosa, ma anzi questa risulterebbe pienamente conforme all'art. 8,
terzo comma, che disciplina i rapporti, anche economici, per l'esercizio della
libertà religiosa.
Considerato in diritto
l. Il
Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt.1 e 5, terzo comma, della legge regionale
Abruzzo 16 marzo 1988 n. 29, recante la disciplina urbanistica dei servizi
religiosi, nella parte in cui prevedono l'erogazione di con tributi solamente a
favore delle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano regolati
sulla base di intese, ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione.
Siffatte
disposizioni - ad avviso del giudice remittente - si porrebbero in contrasto
con gli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 8, primo comma, 19, 20, 117 e 120,
terzo comma, della Costituzione.
2. La
legge della Regione Abruzzo deferita al vaglio di questa Corte disciplina -
come è espressamente enunciato nell'art. 1 - "i rapporti intercorrenti tra
insediamenti residenziali e servizi religiosi ad essi pertinenti, nel quadro
delle attribuzioni spettanti rispettivamente ai comuni ed agli enti
istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa cattolica e delle
altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai
sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione e che abbiano una presenza
organizzata nell'ambito dei comuni interessati dalle previsioni urbanistiche di
cui ai successivi articoli".
L'art. 5,
poi, prevede, al primo comma, che "I comuni devolvono entro il 31 marzo di
ogni anno alle competenti autorità religiose di cui alla presente legge una
aliquota pari al 10% dei contributi per urbanizzazione secondaria loro
dovuti"; successivamente, dopo aver regolato le modalità di determinazione
delle somme, il terzo comma del medesimo art. 5 dispone: "i contributi
sono corrisposti alle confessioni religiose che facciano richiesta e che
abbiano i requisiti di cui al precedente art. 1: proporzionalmente alla loro
consistenza ed incidenza sociale".
Questa
Corte è pertanto chiamata a decidere se la riserva esclusiva dei detti
contributi in favore, oltre naturalmente che della Chiesa cattolica, delle sole
confessioni religiose che abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato
attraverso le intese previste dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione,
contrasti con il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose
e con il diritto assicurato a tutti di professare la propria fede religiosa e
di esercitarne in pubblico il culto; in particolare, quindi, con riferimento
agli artt. 8, primo comma, e 19 della Costituzione.
. La
questione è fondata.
La norma
sottoposta al vaglio della Corte è compresa nella "disciplina urbanistica
dei servizi religiosi" adottata dalla Regione Abruzzo nell'ambito della
propria competenza in materia urbanistica, e nel contesto delle disposizioni
statali che comprendono le chiese e gli altri edifici per i servizi religiosi
tra le opere di urbanizzazione secondaria, al pari di altri servizi di pubblico
interesse (cfr. legge n. 167 del 1962 modificata dalla legge n. 865 del 1971).
La disciplina della Regione Abruzzo prevede fra l'altro, all'art.3, una
dotazione di aree specificamente riservate ai servizi religiosi sino ad un
massimo del 20% di quelle obbligatoriamente previste per attrezzature di
interesse comune, nonchè all'art. 5 l'erogazione di
contributi nella misura pari al 10% dei contributi per urbanizzazione
secondaria dovuti ai comuni, da utilizzarsi per la realizzazione di
attrezzature di interesse comune di tipo religioso.
Si è di
fronte quindi ad un intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri che
trova la sua ragione e giustificazione - propria della materia urbanistica -
nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri
abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro
più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi.
La
realizzazione di questi ultimi ha per effetto di rendere concretamente
possibile, e comunque di facilitare, le attività di culto, che rappresentano
un'estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà
religiosa espressamente enunciata nell'art. 19 della Costituzione.
In tale
campo perciò l'intervento dei pubblici poteri deve uniformarsi al principio
supremo "della laicità dello Stato che è uno dei profili della forma di
Stato delineata nella Carta Costituzionale della Repubblica", principio
che "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime
di pluralismo confessionale e culturale" (cfr. sent.
n. 203 del 1989).
4. La
tesi difensiva della Regione Abruzzo si basa in sostanza sull'argomento secondo
cui l'esclusione dai contributi delle confessioni religiose che non abbiano
regolato per legge i propri rapporti con lo Stato mediante intese non darebbe
luogo a violazione dei principi di libertà e di uguaglianza essendo il
differente trattamento legittima conseguenza di situazioni non omogenee.
Ma
l'argomento è fuorviante: il rispetto dei principi di libertà e di uguaglianza
nel caso in esame va garantito non tanto in raffronto alle situazioni delle
diverse confessioni religiose, (fra l'altro sarebbe difficile negare la
diversità di situazione della Chiesa cattolica), quanto in riferimento al
medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni
religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale
dalla disciplina comune dettata dallo Stato perchè
ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria
fede religiosa.
Se la
diversità di trattamento ai fini dell'ammissione al contributo pubblico, come
la stessa difesa della Regione sottolinea, è collegata alla entità della
presenza nel territorio dell'una o dell'altra confessione religiosa, il
criterio è del tutto logico e legittimo, e la previsione in tal senso della
legge regionale (artt. 1 e 5) non è contestabile; essa non integra nemmeno stricto sensu una discriminazione
in quanto si limita a condizionare e a proporzionare l'intervento all'esistenza
e all'entità dei bisogni al cui soddisfacimento l'intervento stesso è
finalizzato.
Rispetto,
però, alla esigenza sopra enunciata di assicurare edifici aperti al culto
pubblico mediante l'assegnazione delle aree necessarie e delle relative
agevolazioni, la posizione delle confessioni religiose va presa in
considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi
dei cittadini, e cioé in funzione di un effettivo
godimento del diritto di libertà religiosa, che comprende l'esercizio pubblico
del culto professato come esplicitamente sancito dall'art. 19 della
Costituzione.
In questa
prospettiva tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli
interessi religiosi dei loro appartenenti. L'aver stipulato l'intesa prevista
dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione per regolare in modo speciale i
rapporti con lo Stato non può quindi costituire l'elemento di discriminazione
nell'applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad
agevolare l'esercizio di un diritto di libertà dei cittadini.
5.
Invero, tutte le confessioni religiose sono - secondo il dettato dell'art. 8,
primo comma, della Costituzione - egualmente libere davanti alla legge. A
questo principio generale si aggiunge, nella disciplina del citato art. 8,
l'affermazione del diritto delle confessioni di "organizzarsi secondo i
propri statuti in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico
italiano" (secondo comma), cui segue la facoltà di aver rapporti con lo
Stato, da disciplinare per legge sulla base di intese con le rappresentanze
delle confessioni organizzate (terzo comma).
Possono
quindi sussistere confessioni religiose che non vogliono ricercare un'intesa
con lo Stato, o pur volendola non l'abbiano ottenuta, ed anche confessioni
religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano
organizzazioni regolate da speciali statuti. Per tutte, anche quindi per queste
ultime - ed è ipotesi certo più rara rispetto a quella della sola mancanza
d'intesa - vale il principio dell'uguale libertà davanti alla legge.
Una
volta, dunque, che lo Stato e i poteri pubblici in genere ritengano di
intervenire con una disciplina comune, quale è quella urbanistica, per
agevolare la realizzazione di edifici e di attrezzature destinati al culto
mediante l'attribuzione di risorse finanziarie ricavate dagli oneri di
urbanizzazione, la esclusione da tali benefici di una confessione religiosa in
dipendenza dello "status" della medesima, e cioé
in relazione alla sussistenza o meno delle condizioni di cui al secondo e terzo
comma dell'art. 8 della Costituzione, viene a integrare una violazione del
principio affermato nel primo comma del medesimo articolo.
Resta
fermo che per l'ammissione ai benefici sopra descritti non può bastare che il
richiedente si autoqualifichi come confessione
religiosa.
Nulla
quaestio quando sussista un'intesa con lo Stato. In mancanza di questa, la
natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti
pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque
dalla comune considerazione.
Ferma
restando quindi la natura di confessione religiosa, l'attribuzione dei
contributi previsti dalla legge per gli edifici destinati al culto rimane
condizionata soltanto alla consistenza ed incidenza sociale della confessione
richiedente e all'accettazione da parte della medesima delle relative condizioni
e vincoli di destinazione.
6. Quanto
è stato detto fin qui in riferimento a tutte le confessioni religiose e
all'art. 8 della Costituzione, trova ulteriore ed ampia conferma se si esamina
più specificamente la questione sotto il profilo dell'art. 19 della
Costituzione e dei diritti della persona.
L'Assemblea
Costituente pervenne alla definitiva formulazione del testo così da garantire a
chiunque il "diritto di professare liberamente la propria fede religiosa
in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè
non si tratti di riti contrari al buon costume". L'esercizio del culto -
come si è già accennato - è dunque componente essenziale della libertà
religiosa, conseguenziale alla stessa professione di una fede religiosa, non
soggetto anche nella sua forma pubblica a nessun controllo, salvo la
condizione, in un certo senso ovvia e naturale, che "non si tratti di riti
contrari al buon costume" (A.C. pagg. 2773 e
segg.).
Già nella
sentenza n. 59
del 1958 questa Corte aveva ritenuto di dover "stabilire con chiarezza
la distinzione, da cui si disnodano poi tutte le conseguenze, fra la libertà di
esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la
organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato",
distinzione "evidente dal punto di vista logico e positivamente fondata
negli artt. 8 e 19 della Costituzione".
A parte
la terminologia di "culti acattolici", che trova la sua spiegazione
nella natura del giudizio che investiva la legge 24 giugno 1929 n. 1159 e il
regio decreto 28 febbraio 1930 n. 289, concernenti appunto i culti definiti
acattolici, la Corte sottolineò che la formula dell'art. 19 non potrebbe essere
più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, e
conseguentemente dichiarò l'illegittimità costituzionale della norma che
richiedeva l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi od oratori per
l'esercizio del culto.
7. In
definitiva anche la decisione della questione oggi in esame è conseguenziale
alle affermazioni di quella pronuncia e alla lettura che essa ha data degli
artt. 8 e 19 della Costituzione.
Esattamente
pertanto il T.A.R. remittente, nel riferirsi ai suddetti articoli, li ha
collegati con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, richiamando perciò la
garanzia dei diritti inviolabili della persona ed il principio di uguaglianza
nella sua più ampia accezione, comprendente la considerazione dei contenuti di
libertà "in positivo" giusta la formulazione del secondo comma del
citato art. 3.
Infatti
gli interventi pubblici previsti dalla disposizione sottoposta al vaglio di
questa Corte vengono ad incidere positivamente proprio sull'esercizio in
concreto del diritto fondamentale e inviolabile della libertà religiosa ed in
particolare sul diritto di professare la propria fede religiosa in forma
associata e di esercitarne in privato o in pubblico il culto. Ne consegue che
qualsiasi discriminazione in danno dell'una o dell'altra fede religiosa è costituzionalmente
inammissibile in quanto contrasta con il diritto di libertà e con il principio
di uguaglianza. Nè siffatte conclusioni possono
cambiare in dipendenza del fatto che i contributi pubblici per le finalità
sopra descritte e con i controlli circa la loro effettiva destinazione e
utilizzazione che la stessa legge prevede, vengano richiesti e percepiti dalle
confessioni religiose, che provvedono a realizzare in rapporto alle esigenze
della popolazione gli edifici di culto.
É
determinante la finalità che caratterizza la disposizione impugnata e l'effetto
che ne discende: finalità ed effetto essendo quelli di facilitare l'esercizio
del culto, l'agevolazione non può essere subordinata alla condizione che il
culto si riferisca ad una confessione religiosa la quale abbia chiesto e
ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi
dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione.
Restano
assorbiti gli altri parametri costituzionali invocati nell'ordinanza di rimessione.
8. La
questione sollevata dal giudice a quo investe l'art.1 e l'art. 5, terzo comma,
della legge regionale dell'Abruzzo n. 29 del 1988.
Invero la
norma discriminatrice riconosciuta costituzionalmente illegittima è enunciata
nell'art. 1 ed ha effetto non solo per l'art. 5 che espressamente la richiama a
proposito dei contributi, bensì delimita l'area di applicazione dell'intera
legge con effetto quindi per tutti gli interventi in essa previsti.
Per le
ragioni su svolte la illegittimità costituzionale della norma discriminatrice
contenuta nell'art. 1 non può non avere effetto per tutte le disposizioni della
legge che la presuppongono o ad essa fanno esplicito riferimento.
Deve
dunque dichiararsi la illegittimità costituzionale dell'art. 1 nella parte che
enuncia l'anzidetto criterio discriminante.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Abruzzo 16
marzo 1988 n. 29 ("Disciplina urbanistica dei servizi religiosi")
limitatamente alle parole "i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati
ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione e".
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 19/04/93.
Francesco
Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro
FERRI, Redattore
Depositata
in cancelleria il 27/04/93.