Sentenza n. 113 del 1963
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SENTENZA N. 113

ANNO 1963

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1171, secondo comma, del Codice civile, promosso con ordinanza emessa il 7 settembre 1962 dal Pretore di Avezzano nel procedimento civile vertente tra Piccinelli Ida e Tommasoni Guido, iscritta al n. 175 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 293 del 17 novembre 1962.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 5 giugno 1963 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

In un giudizio per denuncia di nuova opera promosso davanti al Pretore di Avezzano da Piccinelli Ida nei confronti di Tommasoni Guido, il giudice, eseguita una ispezione dei luoghi e sentite le parti, vietava al Tommasoni la prosecuzione dell'opera, riservandosi di provvedere intorno alla imposizione alla denunciante di una idonea cautela, come richiesto dalla controparte. Scioglieva poi la riserva con ordinanza emessa il 7 settembre 1962, con la quale trasmetteva gli atti alla Corte costituzionale, proponendo d'ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 1171, secondo comma, del Codice civile, la quale prevede che il giudice ordini le opportune cautele per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell'opera oggetto della denuncia o, inversamente, per quello che possa soffrirne il denunciante, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

L'ordinanza, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, é stata pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 293 del 17 novembre 1962.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. Nell'atto di intervento l'Avvocatura chiede che la questione di legittimità sia dichiarata non fondata, tanto in riferimento all'art. 24 della Costituzione, quanto all'art. 3. Sostiene che la norma denunciata non subordina l'esercizio dell'azione ad adempimenti di carattere patrimoniale, a differenza del caso della cautio pro expensis. La cautela ordinata dal giudice per la sospensione o la prosecuzione dei lavori inerisce ad una fase preliminare ed urgente del giudizio e tende a garantire la parte, che risulterà vittoriosa in definitiva, dai danni eventuali conseguenti ad un provvedimento emesso in fase preliminare e suscettibile di riforma in quella finale. Per la stessa funzione della prestazione patrimoniale che il giudice "può ordinare", quale corrispettiva di un danno eventuale causato all'altra parte, la norma incide solo su particolari aspetti del rapporto processuale determinati dal comportamento personale delle parti e pertanto non può violare in alcun modo il principio di eguaglianza sancito nell'art. 3 della Costituzione.

Nello stesso atto di intervento e nella successiva memoria l'Avvocatura generale dello Stato richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di cauzioni ed i criteri seguiti dalla Corte per distinguere quelle che precluderebbero l'esercizio del diritto di azione da quelle che tendono soltanto a prevenire gli eventuali danni causati da un provvedimento emesso in corso di giudizio; e dall'esame compiuto trae la conseguenza che la questione proposta dal Pretore di Avezzano non può non essere dichiarata infondata.

All'udienza l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle precedenti conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

Il Pretore di Avezzano ha proposto la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 1171, secondo comma, del Codice civile, facendo riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione e richiamando le decisioni della Corte in tema di cautio pro expensis (

sentenza 23 novembre 1960, n. 67) e di solve et repete (sentenza 24 marzo 1961, n. 21).

Al pari di altre ordinanze precedenti, che hanno dato luogo ai giudizi di questa Corte sulla legittimità costituzionale dell'art. 624 del Cod. proc. civ. (

sentenza 12 aprile 1962, n. 40), dell'art. 651 del Cod. proc. civ. (sentenza 27 aprile 1963, n. 56) e dell'art. 668, terzo comma, del Cod. proc. civ. (sent. 25 maggio 1963, n. 83), l'ordinanza del Pretore di Avezzano sembra ravvisare un contrasto fra qualsiasi tipo di "cauzione" o "cautela", prescritta dal legislatore in relazione alla richiesta o alla esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, ed i principi costituzionali che garantiscono l'eguaglianza dei cittadini ed il loro diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

Tale non é - e non é mai stato - il pensiero della Corte costituzionale, la quale ha invece avuto cura di richiamare, fin dalle prime sentenze in materia, la necessità di mantenere ben distinte fra loro le figure dei singoli istituti, i quali prevedono l'adempimento di oneri, anche di natura patrimoniale, prima o nel corso di un processo.

L'onere é infatti un mezzo tipico, utilizzato frequentemente nel processo civile, nel quale hanno tanto peso gli interessi contrapposti dei soggetti parziali, allo scopo di indurre questi a compiere attività considerate utili affinché il processo possa meglio conseguire il suo scopo.

A questo fine può ben corrispondere anche la imposizione di cauzioni, quando si abbia ragione di temere che dal comportamento dell'uno o dell'altro contendente, nel corso del processo o anche fuori di esso, oppure dal decorso del tempo richiesto per giungere alla decisione finale ed alla esecuzione di questa, possano derivare danni sensibili proprio alla parte che risulti in definitiva avere ragione.

Tali misure trovano giustificazione precisamente in rapporto alla funzione del processo, del quale devono garantire anzitutto il regolare svolgimento e poi l'efficacia pratica, rendendo possibile l'attuazione in concreto della volontà di legge accertata. Pertanto, la imposizione di un onere, che sia tale e di tanta misura da rendere presumibilmente impossibile lo svolgimento delle attività processuali, é in evidente contraddizione logica con la funzione del processo e con il principio sancito nell'art. 24 della Costituzione; ma la conclusione deve essere, invece, del tutto diversa, se la prestazione richiesta abbia lo scopo e produca l'effetto di assicurare il migliore esercizio dei poteri processuali e la rispondenza di questi a quella funzione, se l'imposizione presupponga l'esistenza di un provvedimento precedente, anche suscettibile di impugnazione e di riforma, che consegua ad una cognizione, sia pure sommaria, dell'organo pubblico e, infine, se essa sia fondata su presupposti oggettivi e non abbia riguardo a quelle condizioni soggettive, personali o sociali, che l'art. 3 della Costituzione impone di considerare non influenti ai fini della tutela dell'eguaglianza giuridica.

Sulla base di queste considerazioni la Corte dichiarò la illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 98 del Cod. proc. civ., che prevedeva la così detta cautio pro expensis, rilevando che tale istituto non serviva neppure al fine pubblico inerente al processo, del quale costituiva piuttosto una remora (

sentenza n. 67 del 23 novembre 1960); analoghe considerazioni imposero la dichiarazione della illegittimità dell'istituto c. d. del solve et repete (sentenza n. 21 del 24 marzo 1961) e applicazioni specifiche successive, ritenute in evidente contraddizione con il fine del processo e con il diritto di azione. E proprio per le stesse considerazioni la Corte non ha ravvisato, invece, alcun vizio di illegittimità costituzionale nelle norme contenute nell'art. 624, ultima parte del primo comma, del Cod. proc. civ., che prevede la possibilità dell'imposizione di una cauzione a carico di chi domandi la sospensione dell'esecuzione forzata, osservando che si tratta di una cauzione collegata con la esecuzione e in un momento in cui questa é già iniziata, di una cauzione che presenta un accentuato carattere pubblicistico, diretta com'é a tutelare l'efficacia della funzione giurisdizionale o, com'é stato detto, l'imperium iudicis, e, soprattutto, di una cauzione che, qualora non sia prestata dall'opponente, non ha come sua conseguenza l'estinzione del processo, ma soltanto quella di far cessare la sospensione dell'esecuzione (sentenza n. 40 del 12 aprile 1962).

Non diversamente la Corte é pervenuta alla dichiarazione della non fondatezza della questione di legittimità costituzionale del l'art. 651 del Cod. proc. civ., che impone l'onere del deposito di una somma per il caso di soccombenza come condizione di ammissibilità dell'opposizione tardiva ad ingiunzione e dell'opposizione ad ingiunzione fondata su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato; essa osservava in proposito che la norma trova la ragione essenziale nella particolare forza del provvedimento impugnato, che é di interesse pubblico richiamare la parte ad una sua responsabilità nell'apprezzamento delle proprie ragioni, in modo che del diritto di azione non abusi e, abusandone, rechi intralcio all'amministrazione della giustizia, e, infine, che non ostano precetti costituzionali alla protezione di questo interesse pubblico, non essendo possibile dare al diritto alla tutela giurisdizionale una estensione tale da farne sviare la funzione, dirigendola ad uno scopo sterile o dilatorio (

sentenza n. 56 del 27 aprile 1963).

A breve distanza di tempo la Corte fu anche chiamata a pronunciare sulla legittimità costituzionale della norma contenuta nel terzo comma dell'art. 668 del Cod. proc. civ.; ricordata la sentenza precedente, la Corte osservava che il deposito di tenuissima entità previsto nella disposizione denunciata ha la funzione (che ben può considerarsi meramente ammonitrice) di invitare i soggetti interessati a mostrare un particolare senso di responsabilità in occasione dell'opposizione ad atti di esecuzione sui quali già abbia avuto modo di esercitarsi il vaglio del giudice; e concludeva che la disposizione stessa, anche se ispirata a criteri formalistici non adeguati all'importanza del precetto non osservato, non può dirsi lesiva del principio costituzionale che garantisce a tutti indistintamente la possibilità di agire in giudizio a tutela delle proprie posizioni soggettive tutelate dall'ordinamento giuridico (sentenza n. 83 del 25 maggio 1963).

Da questa esposizione riassuntiva della giurisprudenza della Corte risulta chiaro quale sia il criterio, al quale essa si é costantemente attenuta: quello di considerare illegittime, perché in contrasto con le norme contenute negli artt. 3 e 24 della Costituzione, le disposizioni legislative che frappongono ostacoli non giustificati da un preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo civile adeguato alla funzione a questo assegnata, nell'interesse generale, a protezione e attuazione dei diritti dei cittadini; le misure dirette invece a garantire quello svolgimento non possono considerarsi in contrasto né con la norma dell'art. 3 della Costituzione , né con quella dell'art. 24, anche se impongano qualche onere a carico di chi domandi un provvedimento giurisdizionale che potrebbe compromettere l'esito finale del processo.

É principio fondamentale della retta amministrazione della giustizia che chi promuove un processo (o una fase di questo) o, più ancora, intende provocare un provvedimento atto a modificare la situazione degli interessi coinvolti nel giudizio, debba affrontare una responsabilità, che si chiama appunto responsabilità processuale. Sarebbe in contrasto con la funzione del processo una struttura di questo che fosse regolata in modo da consentire l'eventuale abuso delle misure giudiziarie ai fini dell'utile di una sola parte, mossa da intenti defatigatori o addirittura ricattatori, e pertanto non meritevole di tutela giuridica.

I procedimenti per denuncia di nuova opera o di danno temuto sono fra quelli, nei quali non può escludersi a priori un pericolo simile; e pertanto la previsione della imposizione di cautele - anche se intesa come necessaria, quale é considerata da una parte della giurisprudenza e della dottrina - non si può considerare in contrasto con la funzione del processo, ma piuttosto come un mezzo opportuno nella maggior parte dei casi ad assicurarla. E ciò é sufficiente a far concludere nel senso che le censure di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata non sono fondate.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1171, secondo comma, del Codice civile, in riferimento alle norme contenute negli artt. 3 e 24 della Costituzione, proposta dal Pretore di Avezzano con l'ordinanza del 7 settembre 1962.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 giugno 1963.

GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE

NICOLA JAEGER, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 3 luglio 1963.