Sentenza n. 232 del 2021

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SENTENZA N. 232

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis del codice penale, nella versione precedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), promosso dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, nel procedimento penale a carico di A. R., con ordinanza del 30 dicembre 2020, iscritta al n. 22 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione di A. R., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 novembre 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi l’avvocato Jacopo Barzellotti per A. R. e l’avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 10 novembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 30 dicembre 2020 (r.o. n. 22 del 2021), la Corte di cassazione, sezione sesta penale, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis del codice penale, nella versione precedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), «nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione».

1.1.– La Corte di cassazione premette di essere stata investita di un ricorso proposto da A. R., persona nei cui confronti il Tribunale ordinario di Brescia ha applicato, a sua richiesta e con il consenso del pubblico ministero, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 319 cod. pen., per avere accettato, in qualità di luogotenente della Guardia di finanza, somme di denaro per omettere o ritardare controlli fiscali, con condotte accertate il 29 novembre 2017 e il 13 gennaio 2018. Con la medesima sentenza di patteggiamento, emessa il 25 ottobre 2019, il giudice ha applicato nei confronti di A. R. le pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, ai sensi dell’art 317-bis cod. pen., e dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione, quest’ultima inflitta per una durata pari a quella della pena principale.

A. R. ha proposto ricorso per cassazione per violazione di legge in relazione alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, adducendo, quale unico motivo del ricorso, l’illegittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nella versione vigente al momento dei fatti.

Secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, il ricorrente si duole della circostanza che l’art. 317-bis cod. pen. – inserito nel codice penale dall’art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) – e successivamente modificato, con l’estensione della misura interdittiva anche al reato di cui all’art. 319 cod. pen., dall’art. 1, comma 75, lettera e), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – preveda la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici «tutte le volte che la pena principale comminata non sia inferiore a tre anni di reclusione». Tale disciplina sarebbe manifestamente irragionevole in quanto «impone al giudice l’applicazione di una sanzione perpetua che può essere sproporzionata rispetto alla gravità del fatto», in violazione dei principi di proporzionalità e della necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, ricavabili dagli artt. 3 e 27 Cost.

2.– Soffermandosi innanzitutto sull’ammissibilità del ricorso, la Corte rimettente afferma che la parte può ricorrere avverso la sentenza di patteggiamento in relazione alle statuizioni concernenti le pene accessorie, non avendo queste formato oggetto dell’accordo (vengono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione sesta penale, 27-29 maggio 2020, n. 16508 e sezione quinta penale, 13 novembre-5 dicembre 2019, n. 49477). Il ricorso sarebbe altresì ammissibile sebbene articolato sull’unico motivo consistente nella proposizione della questione di legittimità costituzionale, in quanto ciò comunque implica una censura di violazione di legge (vengono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 giugno-10 luglio 2020, n. 20702 e sezione sesta penale, 31 marzo-29 luglio 2008, n. 31683).

Ciò chiarito, la Corte di cassazione, aderendo alla prospettazione del ricorrente, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge n. 3 del 2019, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione per il reato di cui all’art. 319 cod. pen.

2.1.– In punto di rilevanza, il rimettente afferma che l’art. 317-bis cod. pen., nella parte in cui prevede – nella versione vigente al momento della commissione dei fatti – l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per le condanne a pena detentiva pari o superiore a tre anni inflitte ai sensi dell’art. 319 cod. pen., nonché l’interdizione temporanea per le sole ipotesi di pena principale di entità inferiore a tale soglia, è norma che «va necessariamente applicata». Una dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione, pertanto, «renderebbe attuale la doglianza prospettata, con un effetto corrispondente all’interesse del ricorrente che eviterebbe l’applicazione perpetua della pena accessoria».

2.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza, premessa l’impercorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, la Corte di cassazione prospetta la lesione dei principi di personalità della responsabilità penale, di individualizzazione della pena e di finalizzazione della stessa alla rieducazione. Il rimettente afferma che la censura «rileva in una duplice direzione ovvero quella dell’automatismo ed indefettibilità di applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis cod. pen., e, dunque, riferibile all’an dell’applicazione al caso concreto, e quella della “fissità” e “perpetuità” della sanzione, che si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il “volto costituzionale della sanzione penale”» (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 50 del 1980).

In particolare, ricorda la Corte rimettente, con la sentenza n. 50 del 1980 si è affermato come, al fine di dar luogo ad un «adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con le sentenze di condanna», «sussiste di regola l’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio». Diversamente, in presenza di sanzioni rigide, il «dubbio di illegittimità costituzionale» risulta superabile «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducili allo specifico tipo di reato».

Con precipuo riferimento alle pene accessorie, la Corte di cassazione muove dalla constatazione per cui l’applicazione alle stesse dei principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio sarebbe il frutto di una giurisprudenza costituzionale e di legittimità elaborata «lungo un percorso di ermeneusi per nulla scontato e affatto concluso». Ciò proprio in quanto si tratta di pene che, sul piano dogmatico, sono configurate quali effetti che «conseguono di diritto» alla sentenza di condanna. Tuttavia, la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte e la successiva sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28910, avrebbero consentito di delineare nella materia delle pene interdittive «uno statuto che ne avvicina i principi regolatori fondanti a quello della pena principale». Ciò sebbene le pene accessorie siano contrassegnate da una funzione «marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa».

Soffermandosi in particolare sulla citata sentenza n. 222 del 2018, il rimettente afferma come la stessa abbia non solo dichiarato costituzionalmente illegittima la disciplina relativa alla pena accessoria fissa prevista dall’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), ma si sia spinta ad indicare che la durata della pena accessoria stessa debba essere determinata dal giudice non ai sensi dell’art. 37 cod. pen., bensì in applicazione degli artt. 133 e seguenti cod. pen.

Coerentemente, la successiva richiamata sentenza delle Sezioni unite, superando un precedente (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 novembre 2014-12 febbraio 2015, n. 6240), avrebbe affermato un «convinto principio di diritto nel senso che le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fisso, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.».

Ciò premesso, secondo il rimettente a costituire motivo di illegittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen. non sarebbe la circostanza che la pena accessoria abbia una durata superiore a quella della pena principale o, comunque, che non sia correlata alla stessa. Rileverebbe invece il superamento del limite della non manifesta sproporzione per eccesso della sanzione interdittiva rispetto al concreto disvalore del fatto di reato.

Il reato di corruzione di cui all’art. 319 cod. pen., punito con una pena principale modulata tra i sei e i dieci anni di reclusione, ricomprenderebbe infatti «condotte che possono avere gravità oggettivamente diversa per il differente grado di lesione del bene giuridico tutelato». A titolo esemplificativo, la Corte di cassazione richiama, da una parte, l’ipotesi in cui l’agente abbia ricevuto effettivamente la somma per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, dall’altra quella in cui l’agente abbia invece solo accettato una promessa di futura dazione impegnandosi a ritardare un atto dovuto, comportamento poi non realizzatosi per l’emersione dell’accordo illecito oppure a motivo di una resipiscenza del pubblico ufficiale stesso.

Inoltre, il giudice a quo esclude che si possa applicare l’interdizione temporanea per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti generiche, «non essendo matematicamente possibile scendere, anche in tale evenienza, al di sotto dei tre anni di reclusione». Ricorda che la giurisprudenza di legittimità avrebbe oltretutto letto in termini non tassativi l’elenco dei reati previsti all’art. 317-bis cod. pen., facendo discendere l’interdizione perpetua anche dalle condanne per fattispecie tentate di peculato e concussione (viene citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 17 gennaio-9 marzo 2005, n. 9204).

Nel caso di specie, sottolinea il rimettente, non hanno trovato applicazione le circostanze attenuanti previste all’art. 323-bis cod. pen., suscettibili di incidere, in forza delle modifiche introdotte dalla legge n. 3 del 2019, sulla durata della pena accessoria. La condotta dell’imputato, infatti, non appare compatibile con il giudizio di particolare tenuità, né sono stati riscontrati elementi quali una condotta collaborativa volta ad evitare ulteriori attività criminose, ad assicurare la prova di altri reati o altrui responsabilità e il sequestro delle somme conseguite. Aggiunge sul punto la Corte di cassazione che, in ogni caso, se la circostanza attenuante della tenuità è da considerarsi di «complessa e rara applicazione giurisprudenziale», le ulteriori circostanze previste dall’art. 323-bis cod. pen. sarebbero comunque «tutte costruite sull’attività post delictum del reo», rimanendo «estranee al giudizio di gravità del reato sul quale è strutturata la pena edittale».

Secondo il rimettente, l’intento di sanzionare in modo severo i pubblici ufficiali, con un trattamento più rigido rispetto a quello previsto in via generale dall’art. 29 cod. pen. (che prevede l’interdizione perpetua per le condanne all’ergastolo o alla reclusione non inferiore a cinque anni e l’interdizione temporanea, per la durata di cinque anni, in presenza di condanne a reclusione non inferiori a tre anni), avrebbe dovuto in ogni caso essere perseguito nel rispetto dei principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Nella prospettiva della Corte di cassazione, la rigidità della sanzione sarebbe poi «amplificata» dalla sua natura perpetua. Vero che si tratta di scelta del legislatore da valutarsi in riferimento all’allarme generato dai reati commessi nell’ambito delle sfere funzionali; tuttavia, la valorizzazione del ruolo delle sanzioni interdittive «non può essere concepita in rapporto esclusivamente all’autore ed alla sua pericolosità».

Ancora, il rimettente sottolinea come l’interdizione perpetua incida su molteplici diritti fondamentali, comportando anche la perdita dell’elettorato attivo e passivo e riducendo drasticamente la possibilità di svolgere attività lavorative.

Ragionando per differenza rispetto al regime previsto per le sanzioni interdittive disciplinate dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), la Corte di cassazione sottolinea, in conclusione, come il sistema della interdizione perpetua regolata invece dall’art. 317-bis cod. pen. sia caratterizzato dalla «natura automatica e fissa del meccanismo in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena».

2.3.– Argomentando in ordine ai possibili contenuti ed effetti di una declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, la Corte di cassazione richiama anzitutto la giurisprudenza costituzionale in forza della quale il sindacato sulle sanzioni manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità delle condotte sarebbe ormai condotto «senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere la Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale» (vengono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016).

Ricordando inoltre come in alcuni casi la Corte costituzionale abbia proceduto alla «ablazione radicale», in altri alla «ablazione parziale» della norma e «sua trasformazione», o ancora alla individuazione di «qualsiasi altra norma vigente nell’ordinamento» che offrisse una soluzione capace di inserirsi nella logica seguita già dal legislatore, il giudice rimettente prospetta, per la soluzione dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, una «ablazione della norma dal sistema sanzionatorio».

Per effetto di tale pronuncia, a suo dire, la funzione di prevenzione speciale tutelata dall’art. 317-bis cod. pen. non rimarrebbe priva di tutela, trovando applicazione, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., «le disposizioni generali, in materia di pene accessorie, degli artt. 29 e 31 cod. pen.» (come confermerebbero i principi affermati nella pronuncia della Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 ottobre 2013-14 marzo 2014, n. 12228).

All’imputato del giudizio principale potrebbe pertanto essere inflitta, ai sensi dell’art. 29 cod. pen., l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo di cinque anni. «In alternativa», in presenza di condanna per reato commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o pubblico servizio, potrebbe trovare applicazione, «a prescindere dall’entità della condanna», l’interdizione «temporanea» prevista dall’art. 31 cod. pen., ovverosia, a dire della Corte di cassazione, per il tempo individuato dal giudice secondo i criteri di cui agli artt. 132, 133 e 133-bis cod. pen., entro i limiti indicati dall’art. 28 cod. pen.

3.– Si è costituita in giudizio A. R., parte del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. Il rigido meccanismo applicativo della pena accessoria inflitta impedirebbe infatti al giudice «di calibrare la durata della sanzione interdittiva in riferimento alla concreta gravità del fatto sottoposto alla sua cognizione». Aggiunge la difesa di A. R. che l’irragionevolezza della disciplina si rivelerebbe in particolar modo per il reato di corruzione, nel quale rientrano fatti dotati di disvalore tra loro molto diverso, in considerazione del differente grado di attentato o lesione del bene giuridico presidiato dall’art. 319 cod. pen.

4.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate siano dichiarate inammissibili, per due diversi ordini di ragioni.

4.1– In primo luogo, la difesa erariale evidenzia «un profilo di possibile inammissibilità e/o irrilevanza» dell’ordinanza di rimessione dovuto al difetto del rapporto di pregiudizialità tra le questioni sollevate e il giudizio a quo. Pur essendo acquisito alla giurisprudenza di legittimità che il ricorso per cassazione possa avere ad oggetto la sola eccezione di legittimità costituzionale della disposizione applicata dal giudice di merito, sarebbe infatti comunque necessario che attraverso l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale si produca «un effetto corrispondente all’interesse del ricorrente». Tuttavia, prosegue l’Avvocatura generale, erroneamente il ricorrente nel giudizio principale e, sembrerebbe, lo stesso Collegio, avrebbero assunto che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici sia stata inflitta quale effetto automatico della condanna ai sensi del censurato art. 317-bis cod. pen.

Infatti, l’applicazione della pena accessoria in questione «è (o, comunque, sarebbe dovuta essere) frutto del concreto esercizio della discrezionalità giudiziaria». L’art. 445, comma 1-ter, del codice di procedura penale, introdotto dalla legge n. 3 del 2019, prescrive che, con la sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. per uno dei delitti ivi indicati (tra i quali il delitto di cui all’art. 319 cod. pen.), il giudice «può» applicare le pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen. Si tratterebbe, secondo l’Avvocatura generale, di una deroga sia al comma 1-bis (recte: comma 1) del medesimo art. 445 cod. proc. pen., che annovera tra i benefici del ricorso all’applicazione della pena su richiesta anche quello della esenzione dalle pene accessorie, limitandolo però al solo caso in cui la pena detentiva irrogata non superi i due anni di reclusione, sia al meccanismo della obbligatoria applicazione delle pene accessorie prescritta dall’art. 317-bis cod. pen. in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione.

Il menzionato art. 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., avendo natura processuale ed essendo entrato in vigore il 31 gennaio 2019, avrebbe dovuto considerarsi applicabile al giudizio di merito, definito con sentenza del 25 ottobre 2019.

Sottolinea l’Avvocatura che, cionondimeno, il ricorrente non avrebbe contestato l’apprezzamento compiuto dal giudice di merito sulla scelta di irrogare la pena accessoria o l’omessa motivazione su tale profilo, né, ancor prima, si sarebbe egli stesso avvalso della facoltà prevista dall’art. 444, comma 3-bis, cod. proc. pen. (a sua volta introdotta dalla legge n. 3 del 2019) di subordinare l’efficacia della richiesta di patteggiamento all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 317-bis cod. pen. sarebbero allora «del tutto ininfluent[i] anche sul percorso argomentativo che dovrà sostenere la decisione del processo principale». Detto in altri termini, esse non potrebbero esplicare un qualunque effetto sul giudizio principale, «introdotto da un ricorso che non si confronta in alcun modo con la motivazione articolata sul punto dalla sentenza gravata, neppure al fine di censurarne l’eventuale mancanza».

4.2.– Ribadita la «radicale assenza di rilevanza di quest’ultimo profilo sul procedimento principale», l’Avvocatura generale dello Stato, esaminate le sole doglianze relative al carattere fisso e perpetuo dell’interdizione dai pubblici uffici, prospetta un secondo motivo di inammissibilità delle questioni sollevate. Afferma, infatti, che la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte non avrebbe smentito i limiti che il sindacato di costituzionalità incontra in materia di determinazione del trattamento sanzionatorio, ambito coperto dalla riserva di legge prevista all’art. 25, secondo comma, Cost.

Un primo limite è dato dalla discrezionalità del legislatore, superabile solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo abbia introdotto pene manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità della condotta. Un secondo limite consiste poi nella necessità di individuare un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi alla previsione dichiarata illegittima.

La pena accessoria prevista dall’art. 317-bis cod. pen. presenterebbe però «connotati strutturali profondamente diversi» rispetto a quella dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 222 del 2018. Quest’ultima prevedeva una pena accessoria fissa per tutti i casi di bancarotta, nonostante alla qualificazione astratta del reato fosse collegata «un’assai diversa entità della pena principale prevista». La disposizione censurata nel presente giudizio, invece, si giustificherebbe per la scelta di particolare rigore, compiuta dal legislatore, nei confronti di selezionati delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Le fattispecie di reato incluse nell’art. 317-bis cod. pen., accomunate dalla capacità di produrre il medesimo disvalore rispetto al bene, di rilievo costituzionale, dell’imparzialità della pubblica amministrazione, sarebbero infatti contrassegnate da un «quadro sanzionatorio assai omogeneo nella sua severità». Inoltre, a differenza di quanto previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio con la sentenza n. 222 del 2018, l’art. 317-bis cod. pen. «calibra la durata della pena accessoria a seconda della gravità del fatto», prescrivendo l’interdizione perpetua solo per le condanne a pena detentiva non inferiore a tre anni.

L’irragionevolezza della disciplina sarebbe poi esclusa in quanto la compressione che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici opera sulla capacità giuridica del condannato risponde all’esigenza di «allontanare definitivamente dalla possibilità di esercitare funzioni lato sensu pubbliche soggetti che quelle stesse funzioni hanno già esercitato in maniera indegna». In questa prospettiva, la difesa dello Stato sofferma l’attenzione sul rapporto di «omologia» riscontrabile tra la pena accessoria in questione e la condanna per specifici delitti contro la pubblica amministrazione, mentre l’art. 29, primo comma, cod. pen. sancisce la «generalizzata applicabilità» della medesima pena «a prescindere da qualunque rapporto con il fatto criminale specifico».

Non potrebbe poi essere, in sé considerata, la perpetuità della pena accessoria a sostenere il dubbio di legittimità costituzionale. Non solo perché tale perpetuità è comunque prevista dagli artt. 28 e 29 cod. pen., ma anche perché, una volta esclusa l’illegittimità costituzionale della pena principale dell’ergastolo, a maggior ragione tale conseguenza dovrebbe essere esclusa per la pena accessoria perpetua.

I motivi di contrasto della disciplina con il “volto costituzionale della pena” sarebbero ad ogni modo attenuati rispetto a quelli che presenta l’art. 29 cod. pen. e sarebbero stati ulteriormente ridotti dalla recente introduzione dei già richiamati artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., che possono dare luogo all’esclusione della sanzione accessoria.

Passando al vaglio delle prospettazioni del rimettente in ordine ai possibili esiti di una declaratoria di illegittimità costituzionale, l’Avvocatura generale dello Stato li ritiene entrambi impercorribili. L’applicazione dell’art. 29 cod. pen. implicherebbe infatti la parificazione del condannato per il reato di cui all’art. 319 cod. pen. al condannato per qualunque altro reato, con l’effetto di vanificare lo scopo perseguito dal legislatore, che ha voluto invece colpire in modo più severo gli autori di reati che ledono l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Altrettanto problematica sarebbe la prospettiva di applicare l’art. 31 cod. pen. Tale disposizione avrebbe infatti valenza sussidiaria rispetto alla previsione dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici prevista dall’art. 29 cod. pen. Seguendo la prospettiva del rimettente, l’applicazione dell’art. 31 cod. pen., invece, «finirebbe per introdurre un trattamento sanzionatorio di favore per i condannati per uno dei delitti di cui agli artt. 314, 316, 319 e 319 ter c.p.», consentendo al giudice di contenere l’interdizione tra uno e cinque anni, ai sensi dell’art. 28 cod. pen., mentre in forza dell’art. 29 cod. pen., il condannato ad una pena pari o superiore ai tre anni si vede applicata la pena fissa dell’interdizione per cinque anni.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione sesta penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 317-bis del codice penale, nel testo vigente prima delle modifiche recate dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), «nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione».

Il rimettente è chiamato a pronunciarsi su un ricorso per violazione di legge proposto da persona nei cui confronti, per il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio disciplinato dall’art. 319 cod. pen., era stata applicata, a sua richiesta e con il consenso del pubblico ministero, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione. Riferisce la Corte di cassazione che, in forza dell’art. 317-bis cod. pen. nel testo vigente all’epoca delle condotte (accertate il 29 novembre 2017 e il 13 gennaio 2018), con la medesima sentenza di patteggiamento il condannato era stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.

Proprio in conseguenza di tale interdizione, il ricorrente aveva chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nel testo applicato ratione temporis, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

Il rimettente condivide i dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nella versione applicata in giudizio.

In punto di rilevanza, osserva come l’accoglimento delle questioni sollevate avrebbero un effetto «corrispondente all’interesse del ricorrente che eviterebbe l’applicazione perpetua della pena accessoria».

In ordine alla non manifesta infondatezza, premette che la censura «rileva in una duplice direzione»: da una parte, quella dell’automatismo ed indefettibilità di applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis cod. pen.; dall’altra, quella della fissità e della perpetuità della sanzione. Tali due profili, afferma, «si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il “volto costituzionale della sanzione penale”» (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 50 del 1980). Il rimettente evoca, in particolare, i principi costituzionali di personalità della responsabilità penale, di proporzionalità della pena e di finalità rieducativa della medesima, espressi dagli artt. 3 e 27 Cost.

Ricorda il rimettente come la sentenza n. 50 del 1980 di questa Corte abbia affermato la necessità di un adeguamento individualizzato e proporzionale delle pene, che a sua volta richiede, di regola, una «articolazione legale del sistema sanzionatorio». Ne conseguirebbe che, in relazione ad una sanzione rigida, i dubbi di legittimità costituzionale risultano superabili solo «a condizione che per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducili allo specifico tipo di reato».

Secondo la Corte di cassazione si tratta di principi che, «lungo un percorso di ermeneusi per nulla scontato e affatto concluso», sono stati di recente ritenuti applicabili anche alle pene accessorie, nonostante si tratti di sanzioni caratterizzate da una marcata funzione di prevenzione speciale negativa. La sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte, e la successiva sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28910, avrebbero infatti delineato, in materia di pene interdittive, «uno statuto che ne avvicina i principi regolatori fondanti a quello della pena principale».

Le pene accessorie, dunque, non potrebbero risultare manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, al punto da vanificare la finalità rieducativa del trattamento sanzionatorio.

Così accadrebbe, invece, nel caso di specie. L’art. 319 cod. pen. prevede, per il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la reclusione tra un minimo di sei e un massimo di dieci anni. Tale previsione ricomprenderebbe, a dire del rimettente, «condotte che possono avere gravità oggettivamente diversa per il differente grado di lesione del bene giuridico tutelato». In tutti i casi di condanna a pena detentiva pari o superiore ai tre anni, tuttavia, in forza del censurato art. 317-bis cod. pen., viene inflitta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Difficilmente, poi, sarebbe possibile applicare la pena accessoria nella misura temporanea, pur prevista dalla medesima disposizione, perché, anche in caso di riconoscimento di circostanze attenuanti generiche, non sarebbe «matematicamente possibile» scendere al di sotto della soglia dei tre anni di reclusione. Infine, l’attenuante di cui all’art. 323-bis, primo comma, cod. pen. risulterebbe di «rara applicazione» e quelle di cui all’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., relative ad attività post delictum, resterebbero estranee al giudizio di gravità del reato.

Secondo la Corte di cassazione, la rigidità della disciplina censurata sarebbe poi «amplificata» dalla natura perpetua della pena accessoria.

Infine, nell’ordinanza di rimessione si sottolinea come la sanzione interdittiva incida su molteplici diritti fondamentali.

In ordine ai possibili contenuti della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale, e ai conseguenti effetti, il giudice a quo premette che, secondo la recente giurisprudenza costituzionale, non sarebbe più necessaria l’evocazione di uno specifico tertium comparationis da parte del rimettente (vengono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016 di questa Corte). Prospetta, perciò, una «ablazione della norma dal sistema sanzionatorio», ma evidenzia che, per effetto di una tale pronuncia, la funzione di prevenzione speciale tutelata dall’art. 317-bis cod. pen. non rimarrebbe priva di tutela, potendo trovare applicazione, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., «le disposizioni generali, in materia di pene accessorie, degli artt. 29 e 31 cod. pen.».

All’imputato del giudizio principale potrebbe pertanto essere inflitta, ai sensi dell’art. 29 cod. pen., l’interdizione dai pubblici uffici in misura pari a cinque anni. «In alternativa», in presenza di reato commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o pubblico servizio, l’autorità giudiziaria potrebbe applicare l’interdizione «temporanea» prevista dall’art. 31 cod. pen., da definirsi secondo i criteri di cui agli artt. 132, 133 e 133-bis cod. pen., ed entro i limiti indicati dall’art. 28 cod. pen.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, eccepisce preliminarmente l’inammissibilità delle questioni, per difetto di pregiudizialità rispetto alla definizione del giudizio principale.

Osserva l’interveniente che l’inflizione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici non costituirebbe affatto un automatico effetto, imposto dall’art. 317-bis cod. pen., dell’entità della pena detentiva applicata dalla sentenza di condanna, ma risulterebbe – o dovrebbe risultare – frutto dell’esercizio di una discrezionale scelta del giudice.

Infatti, argomenta l’Avvocatura, l’art. 445, comma 1-ter, del codice di procedura penale, introdotto dalla legge n. 3 del 2019, in caso di sentenza di patteggiamento per uno dei delitti contro la pubblica amministrazione ivi indicati (tra i quali è ricompreso il reato di cui all’art. 319 cod. pen.), stabilisce che il giudice «può» (e quindi non già deve) applicare le pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen.

Tale disposizione costituirebbe una deroga sia al «comma 1-bis» (recte: comma 1) del medesimo art. 445 cod. proc. pen. (che annovera tra i benefici del ricorso alla applicazione di pena su richiesta anche quello della inapplicabilità ex lege delle pene accessorie, limitandolo al solo caso in cui la pena detentiva irrogata non superi i due anni di reclusione), sia all’applicazione obbligatoria delle pene accessorie prescritta dall’art. 317-bis cod. pen.

Aggiunge che il menzionato art. 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., avendo natura processuale ed essendo entrato in vigore il 31 gennaio 2019, avrebbe dovuto considerarsi applicabile al giudizio di merito, definito con sentenza del 25 ottobre 2019.

Sottolinea il Presidente del Consiglio dei ministri che, cionondimeno, il ricorrente nel giudizio principale non avrebbe contestato l’apprezzamento compiuto dal giudice di merito sulla scelta di irrogare la pena accessoria o l’omessa motivazione su tale profilo, né, prima ancora, si sarebbe egli stesso avvalso della facoltà ora prevista, sempre per effetto della legge n. 3 del 2019, dall’art. 444, comma 3-bis, cod. proc. pen., disposizione che consente alla parte di formulare la richiesta subordinandone l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen.

Poiché, dunque, «l’ordinamento non stabilisce affatto» che alla sentenza di applicazione della pena su richiesta «consegua ope iuris», per effetto dell’art. 317-bis cod. pen., la pena dell’interdizione perpetua, le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 317-bis cod. pen. sarebbero «del tutto ininfluent[i] anche sul percorso argomentativo che dovrà sostenere la decisione del processo principale».

Da qui, conclude l’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità per irrilevanza delle questioni sollevate.

3.– Le questioni sono inammissibili, sia pure per ragioni parzialmente diverse da quelle argomentate dall’Avvocatura generale dello Stato.

3.1.– La menzionata legge n. 3 del 2019, anche se nel caso di specie non rilevano le modifiche da essa direttamente apportate alla disposizione censurata, ha introdotto ulteriori elementi di novità nel quadro normativo, incidendo anche sugli artt. 444 e 445 cod. proc. pen.

Per effetto dell’art. 1, comma 4, lettera d), della legge in questione, è stato aggiunto al corpo dell’art. 444 cod. proc. pen. il comma 3-bis, ai cui sensi, nei procedimenti per i delitti di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis cod. pen., «la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’articolo 317-bis del codice penale ovvero all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l’estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta».

Con l’art. 1, comma 4, lettera e), numeri 1) e 2), della legge n. 3 del 2019, inoltre, il legislatore ha, rispettivamente, modificato il comma 1 dell’art. 445 cod. proc. pen., e introdotto nella stessa norma un nuovo comma 1-ter.

La prima modifica, incidente sulla disposizione che prevede il beneficio della esenzione dalle pene accessorie per i casi in cui il rito si concluda con l’applicazione di una pena detentiva non superiore ai due anni (cosiddetto “patteggiamento ordinario”), inserisce la specificazione in forza della quale «[n]ei casi previsti dal presente comma è fatta salva l’applicazione del comma 1-ter».

La seconda modifica aggiunge all’art. 445 cod. proc. pen. il comma 1-ter, in cui si stabilisce che «[c]on la sentenza di applicazione della pena di cui all’articolo 444, comma 2, del presente codice per taluno dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis del codice penale, il giudice può applicare le pene accessorie previste dall’articolo 317-bis del codice penale».

3.2.– L’Avvocatura generale dello Stato trae da queste nuove previsioni normative la conclusione che, nell’ambito del patteggiamento, la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati contro la pubblica amministrazione non sarebbe più automatica conseguenza del ricorrere dei presupposti stabiliti dall’art. 317-bis cod. pen., risultando bensì ora rimessa alla scelta discrezionale del giudice.

Secondo questa lettura degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., il potere valutativo che tali disposizioni consegnano al giudice in ordine all’applicazione delle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen. non riguarderebbe, infatti, solo i casi di “patteggiamento ordinario”, ma si estenderebbe anche ai casi di “patteggiamento allargato”, come quello del giudizio principale, riguardante persona nei cui confronti è stata applicata una pena detentiva pari a quattro anni e quattro mesi di reclusione.

Per vero, proprio su questi aspetti, la nuova disciplina è oggetto di controversie interpretative.

Senza dubbio essa incide sul “patteggiamento ordinario”. In questo senso depone il rinvio all’art. 445, comma 1-ter, contenuto nella clausola aggiunta al comma 1, norma quest’ultima che, come detto, si riferisce alle pene patteggiate di entità non superiore ai due anni di reclusione. Per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 3 del 2019, gli imputati per i reati contro la pubblica amministrazione non si giovano più ope legis, in caso di “patteggiamento ordinario”, del beneficio della esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen., poiché la valutazione sul punto è ora rimessa al giudice.

Oggetto di divergenti interpretazioni è, invece, l’estensione di tale potere discrezionale del giudice anche al patteggiamento cosiddetto “allargato”, in cui l’accordo processuale si riferisce a pene detentive di entità superiore ai due anni.

Mentre i lavori preparatori della legge n. 3 del 2019 potrebbero orientare verso la soluzione negativa – la relazione illustrativa al disegno di legge AC n. 1189 afferma, infatti, che si intendeva rimettere alla «valutazione discrezionale del giudice l’applicazione delle sanzioni accessorie, nel caso di irrogazione di una pena che non superi i due anni di reclusione» – la stessa conclusione non è autorizzata dal tenore letterale degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma 1-ter, cod. proc. pen.

Nessuna delle due disposizioni, infatti, fa esplicito riferimento a specifiche soglie di pena detentiva concordata tra le parti: tanto che, in sede di parere sul citato disegno di legge AC n. 1189, il Consiglio superiore della magistratura segnalava come la formulazione del proposto art. 444, comma 3-bis, cod. proc. pen., «che richiama specificamente e senza limitazioni di pena [taluni] delitti contro la p.a., rende possibile un’interpretazione che includa nel suo ambito di operatività non solo il caso del patteggiamento a pena contenuta nei due anni […] ma anche le ipotesi di patteggiamento a pena superiore a due anni di reclusione» (Parere del 19 dicembre 2018 sul disegno di legge AC n. 1189 “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”).

Non risulta che la giurisprudenza di legittimità abbia avuto occasione di esprimere un indirizzo interpretativo ben definito (deve essere tuttavia segnalata la sentenza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, 12 novembre 2020-19 febbraio 2021, n. 6614, che afferma la estensione al “patteggiamento allargato” del nuovo potere discrezionale del giudice quanto all’applicazione delle pene accessorie interdittive, e proprio su questa base respinge un’eccezione di legittimità costituzionale in tutto analoga a quella ora in esame).

Spettava, in ogni caso, al giudice a quo operare una consapevole ed esplicita scelta tra le differenti soluzioni interpretative ricordate.

Non solo, tuttavia, l’ordinanza di rimessione omette qualunque riferimento ai problemi appena illustrati, ma non contiene cenno alcuno al disposto degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma 1-ter, cod. proc. pen., come modificati dalla legge n. 3 del 2019. Non viene affrontato, in particolare, il tema della riferibilità di tali ultime disposizioni anche al “patteggiamento allargato” e, dunque, allo stesso giudizio all’origine delle odierne questioni di legittimità costituzionale.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 317-bis cod. pen., in relazione all’asserita automatica applicazione della pena accessoria interdittiva a seguito di condanna per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., vanno dunque dichiarate inammissibili, perché il giudice a quo omette di pronunciarsi proprio su questi decisivi aspetti, che condizionano ogni valutazione sul carattere asseritamente indefettibile della applicazione di tale pena.

La lacuna in parola, in definitiva, «compromette irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle valutazioni del rimettente sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza» (sentenze n. 194 e n. 61 del 2021; nello stesso senso, n. 264 del 2020, n. 150 del 2019; ordinanze n. 108 del 2020, n. 136 e n. 30 del 2018 e n. 88 del 2017).

3.3.– La riscontrata lacuna condiziona ineluttabilmente anche la valutazione sulla doglianza relativa al carattere fisso e perpetuo della pena interdittiva prevista dalla disposizione censurata, determinando l’inammissibilità, per le stesse ragioni, anche di questo secondo profilo delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Lo stesso rimettente afferma, infatti, che la proposta censura di legittimità costituzionale «rileva in una duplice direzione», sia quella dell’automatismo e dell’indefettibilità dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis cod. pen., sia quella della fissità e perpetuità della sanzione: tali due profili «si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il “volto costituzionale della sanzione penale”».

Nella prospettazione del rimettente, l’asserita rigidità del complessivo trattamento sanzionatorio è dunque il risultato dell’intreccio dei due profili, come conferma un ulteriore passaggio dell’ordinanza, in cui si considera la «natura automatica e fissa del meccanismo in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena».

Ne deriva che il rimettente avrebbe dovuto considerare il possibile venir meno, nell’ambito del patteggiamento, dell’automatismo nella applicazione della pena accessoria di cui all’art. 317-bis cod. pen., perché condizionante ogni valutazione sulla rigidità complessiva del meccanismo sanzionatorio censurato: l’ipotizzata discrezionalità nell’applicazione della pena accessoria, infatti, potrebbe comportare una diversa valutazione della disciplina, e dei suoi connessi effetti sul terreno della proporzionalità, incidendo sullo scrutinio di non manifesta infondatezza rimesso al giudice a quo (secondo lo stesso percorso argomentativo seguito dalla già citata sentenza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, n. 6614 del 2021).

Pertanto, il non aver adeguatamente argomentato sul primo profilo delle censure – ovvero sulla reale indefettibilità dell’applicazione della sanzione interdittiva – rende inammissibile, nei termini unitariamente prospettati, anche il secondo, riferito a fissità e perpetuità della sanzione stessa.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis del codice penale, nel testo anteriore alle modifiche recate dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 novembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2021.