SENTENZA N. 61
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14-quater della legge
27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione,
nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), promosso dal
Tribunale ordinario di Lanciano nel procedimento relativo a M. C., con ordinanza
del 6 febbraio 2020, iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2020 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie
speciale, dell’anno 2020.
Visto
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021 il Giudice relatore Luca
Antonini;
deliberato
nella camera di consiglio del 25 febbraio 2021.
Ritenuto in fatto
1.–
Con ordinanza del 6 febbraio 2020 (r.o. n. 125 del
2020), il Tribunale ordinario di Lanciano ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14-quater della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia
di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento).
Tale
disposizione così recita: «1. Il giudice, su istanza del debitore o di uno dei
creditori, dispone, col decreto avente il contenuto di cui all’articolo
14-quinquies, comma 2, la conversione della procedura di composizione della
crisi di cui alla sezione prima in quella di liquidazione del patrimonio
nell’ipotesi di annullamento dell’accordo o di cessazione degli effetti
dell’omologazione del piano del consumatore ai sensi dell’articolo 14-bis,
comma 2, lettera a). La conversione è altresì disposta nei casi di cui agli
articoli 11, comma 5, e 14-bis, comma 1, nonché di risoluzione dell’accordo o
di cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del consumatore ai
sensi dell’articolo 14-bis, comma 2, lettera b), ove determinati da cause imputabili
al debitore».
La
norma è censurata nella parte in cui non prevede che i debitori possano
chiedere, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo con i creditori, la
conversione della procedura di accordo di composizione della crisi in quella di
liquidazione del proprio patrimonio.
2.– Il
giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere l’ammissione e
la successiva omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti e di
soddisfazione dei crediti, proposto ai sensi degli artt. 6, comma 1, primo
periodo, e 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012.
Secondo
quanto riferito dal rimettente, la proposta di accordo depositata dal debitore
ha superato il preliminare vaglio giudiziale di ammissibilità ma non è stata
poi approvata dalla maggioranza qualificata dei creditori (segnatamente
rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti), sicché
l’omologazione, in base all’art. 12, comma 2, della legge n. 3 del 2012, non è
stata possibile.
Il
debitore ha quindi chiesto la conversione della procedura di accordo in quella
di liquidazione dei beni di cui agli artt. 14-ter e seguenti della legge n. 3
del 2012, ma all’accoglimento di tale domanda osterebbe, a parere del giudice a
quo, il disposto dell’art. 14-quater della suddetta legge, perché prevedrebbe
la conversione soltanto in relazione alle fattispecie da esso stesso
tassativamente contemplate, tra le quali non è compresa quella del mancato
raggiungimento dell’accordo.
Di qui
la rilevanza delle questioni sollevate, sulla quale non inciderebbe, d’altra
parte, la prossima entrata in vigore del decreto legislativo 12 gennaio 2019,
n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge
19 ottobre 2017, n. 155), essendo tale normativa inapplicabile, ratione temporis, alla procedura
di cui il rimettente è investito.
2.1.–
Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale abruzzese – sul
presupposto che «le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento
(tra cui la stessa liquidazione del patrimonio del debitore) sono poste a
tutela delle posizioni di maggior disagio sociale, ovviamente nel caso in cui
tale disagio possa dirsi incolpevole» – ritiene che l’art. 14-quater della
legge n. 3 del 2012 rechi un vulnus agli artt. 3 e 24 Cost., in
riferimento, rispettivamente, al principio di eguaglianza e al diritto di
difesa.
L’impossibilità,
per i debitori la cui proposta non è stata approvata dai creditori, di chiedere
la conversione determinerebbe, infatti, un’irragionevole disparità di
trattamento rispetto ai debitori che hanno raggiunto l’accordo, ai quali la
conversione è invece consentita.
Più
precisamente, sarebbe del tutto ingiustificata la scelta di consentire la
conversione nelle ipotesi previste dal censurato art. 14-quater della legge n.
3 del 2012, ovvero ai debitori che hanno causato – ponendo in essere condotte
dolose o colpose oppure in forza di inadempimenti imputabili – l’annullamento,
la risoluzione, la revoca o la cessazione di diritto degli effetti dell’accordo
omologato, e non anche ai debitori che hanno solo subito («per effetto di una
mera valutazione di convenienza dei creditori», «oltretutto non motivata») il
dissenso del ceto creditorio in merito alla proposta da essi avanzata.
L’irragionevolezza
della omessa equiparazione tra le due categorie di debitori risulterebbe
inoltre apprezzabile anche considerando che i requisiti necessari per accedere
alla procedura di accordo, già accertati dal giudice in occasione della
valutazione della sua ammissibilità, coinciderebbero con quelli richiesti per
la liquidazione.
Dalla
denunciata disparità deriverebbero infine effetti pregiudizievoli in capo ai
debitori che non hanno raggiunto l’accordo. Questi, infatti, non potendo
chiedere la conversione: a) sarebbero totalmente esposti, a seguito della
revoca del provvedimento inibitorio delle procedure esecutive individuali
adottato all’esito del suddetto vaglio di ammissibilità, alle azioni esecutive
dei singoli creditori; b) perderebbero la possibilità di ottenere,
successivamente alla liquidazione, l’esdebitazione; c) sarebbero costretti, al
fine di accedere alla liquidazione stessa, ad attivare un nuovo e distinto
procedimento e, quindi, a sostenere le relative spese.
Sotto
quest’ultimo profilo, la norma censurata violerebbe anche l’art. 24 Cost., in
quanto precluderebbe ai debitori che non hanno ottenuto il consenso dei
creditori «di difendere e tutelare in modo più ampio i propri diritti (e, nel
caso di specie, il proprio patrimonio) con le procedure previste dalla legge».
3.– È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, in via preliminare,
di dichiarare l’inammissibilità delle questioni o di «rinviare gli atti al
giudice rimettente»; nel merito, la declaratoria di non fondatezza delle
questioni stesse.
3.1.–
Le richieste avanzate in limine sono prive di motivazione, giacché le
argomentazioni dell’interveniente si incentrano unicamente sul merito dei prospettati
dubbi di illegittimità costituzionale.
3.2.–
In particolare, la censura sull’art. 3 Cost. non sarebbe fondata in forza
dell’eterogeneità delle situazioni in cui versano i debitori posti a confronto.
Nelle fattispecie previste dall’art. 14-quater della legge n. 3 del 2012,
infatti, sarebbe già intervenuta l’omologazione dell’accordo per la
composizione della crisi: evidente risulterebbe, pertanto, la differenza
rispetto alla fattispecie a cui il rimettente vorrebbe estendere la possibilità
della conversione, nella quale, invece, l’accordo non è stato raggiunto.
Sarebbe
privo di pregio anche l’argomento basato sulla soggezione dei debitori alle
azioni esecutive individuali, dal momento che, al contrario, dopo la chiusura
della procedura di accordo essi potrebbero ottenere l’inibitoria di tali azioni
depositando la domanda di liquidazione: con il decreto di apertura della
relativa procedura, infatti, il giudice disporrebbe che non possono «essere
iniziate azioni cautelari o esecutive […] sul patrimonio oggetto di
liquidazione da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore» (art.
14-quinquies, comma 2, lettera b, della legge n. 3 del 2012).
Parimenti
non condivisibile sarebbe, poi, l’assunto secondo cui dalla preclusione della
conversione deriverebbe l’impossibilità per i debitori di essere ammessi al
beneficio della esdebitazione conseguente alla procedura di liquidazione.
Questa, infatti, potrebbe essere aperta anche in virtù di un’autonoma domanda
dei debitori stessi e pure in tale ipotesi, a prescindere quindi dalla
conversione della precedente procedura di accordo, l’art. 14-terdecies della
legge n. 3 del 2012 consentirebbe loro di godere della liberazione dei debiti
residui nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti.
Quanto,
infine, all’aggravio degli oneri derivanti dalla proposizione di una nuova
domanda, la difesa statale osserva che si tratterebbe di una «situazione di
fatto nient’affatto necessitata e derivante dal testo normativo».
Egualmente
non fondata sarebbe la questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost.
Ad
avviso dell’Avvocatura generale, la norma denunciata non pregiudicherebbe
l’esercizio della tutela giurisdizionale in quanto, in sostanza, il debitore,
come già detto, potrebbe comunque accedere alla procedura di liquidazione a
seguito della chiusura del procedimento volto all’omologa dell’accordo. A tanto
non osterebbe, in particolare, il divieto – desumibile dall’art. 7, comma 2,
lettera b), della legge n. 3 del 2012 – di chiedere la liquidazione ove il debitore
abbia già «fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti»
disciplinati dalla legge stessa: tale divieto sarebbe, infatti, funzionale a
evitare che i debitori possano fruire, nell’indicato arco temporale, della
esdebitazione, ciò che non accade nell’ipotesi in cui l’accordo non sia
intervenuto.
3.3.–
In prossimità della camera di consiglio, l’Avvocatura generale ha depositato
memoria con la quale ha illustrato le ragioni dell’eccepita inammissibilità.
Essa
deriverebbe, in primo luogo, dal rilievo che il rimettente avrebbe affermato
apoditticamente l’impraticabilità di una interpretazione costituzionalmente
conforme della norma censurata. Interpretazione che sarebbe invece consentita
in considerazione, per un verso, dell’assenza di un diritto vivente in merito
all’art. 14-quater della legge n. 3 del 2012; per l’altro, della possibilità di
una «ricostruzione sistematica che elimini qualsivoglia eventuale disfunzione»,
ammettendo la conversione anche in caso di mancato raggiungimento dell’accordo
e, comunque, riconoscendo ai debitori la facoltà di domandare, con il medesimo
ricorso, la liquidazione subordinatamente al diniego dell’omologazione
dell’accordo stesso.
Sotto
altro profilo, le questioni sarebbero inammissibili per insufficiente motivazione
in punto di non manifesta infondatezza. Secondo la difesa statale, il giudice a
quo avrebbe omesso di individuare, quanto alla dedotta compromissione del
canone dell’eguaglianza, il tertium comparationis e «lo specifico profilo d’irragionevolezza
denunciato»; quanto, invece, all’asserita lesione dell’art. 24 Cost., le
concrete ragioni del lamentato vulnus.
1.– Il
Tribunale ordinario di Lanciano dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 14-quater della legge
27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché
di composizione delle crisi da sovraindebitamento).
2.– La
disposizione denunciata stabilisce che: «1. Il giudice, su istanza del debitore
o di uno dei creditori, dispone, col decreto avente il contenuto di cui
all’articolo 14-quinquies, comma 2, la conversione della procedura di
composizione della crisi di cui alla sezione prima in quella di liquidazione
del patrimonio nell’ipotesi di annullamento dell’accordo o di cessazione degli
effetti dell’omologazione del piano del consumatore ai sensi dell’articolo
14-bis, comma 2, lettera a). La conversione è altresì disposta nei casi di cui
agli articoli 11, comma 5, e 14-bis, comma 1, nonché di risoluzione
dell’accordo o di cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del
consumatore ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 2, lettera b), ove determinati
da cause imputabili al debitore».
Essa,
per quanto rileva alla luce del petitum del rimettente,
dunque dispone che i debitori possono chiedere la conversione della procedura
di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento in quella di
liquidazione del patrimonio nelle ipotesi in cui l’accordo sia stato raggiunto
con i creditori e – in conseguenza del compimento, da parte dei debitori
stessi, di condotte dolose o gravemente colpose oppure, infine, di specifici
inadempimenti imputabili – sia stato poi annullato, risolto, revocato o abbia
cessato di diritto di produrre effetti.
La
norma è censurata nella parte in cui non prevede che la conversione possa
essere chiesta anche dai debitori che non hanno raggiunto l’accordo: si
determinerebbe infatti un’ingiustificata e pregiudizievole disparità di
trattamento, con lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.,
tra tali debitori – che hanno solo subito, per una mera valutazione di
convenienza, il dissenso del ceto creditorio in merito alla proposta da essi
avanzata – e quelli che hanno invece ottenuto il consenso su tale proposta, ma
hanno causato l’annullamento, la risoluzione, la revoca o la cessazione di
diritto degli effetti dell’accordo omologato. Risulterebbe, inoltre, violato
l’art. 24 Cost., dal momento che l’art. 14-quater della legge n. 3 del 2012
pregiudicherebbe il diritto di difesa dei suddetti debitori che, non potendosi
avvalere della conversione, sarebbero costretti ad agire in via autonoma per
accedere alla procedura di liquidazione.
3.–
Nel suo atto di intervento in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto
preliminarmente la restituzione degli atti al giudice a quo.
In
disparte l’evidente apoditticità della richiesta, in quanto del tutto priva
della benché minima motivazione, gli estremi per la restituzione degli atti non
sono, in ogni caso, ravvisabili.
Non
rileva, in specie, l’adozione, successivamente all’ordinanza di rimessione e al
deposito dell’atto intervento poc’anzi menzionato, del decreto-legge 28 ottobre
2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute,
sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse
all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella
legge 18 dicembre 2020, n. 176, che, all’art. 4-ter, ha modificato sotto
diversi profili la disciplina del sovraindebitamento recata dalla legge n. 3
del 2012. Tale ius novum non incide, infatti, su
aspetti decisivi ai fini della valutazione delle censure oggetto del presente
scrutinio e non impone, dunque, un riesame da parte del rimettente delle
questioni, i cui termini permangono sostanzialmente immutati.
4.– Ancora
in via preliminare, l’Avvocatura generale ha sollevato eccezione
d’inammissibilità in quanto il giudice a quo avrebbe affermato in maniera
assertiva l’impossibilità di interpretare la norma denunciata secundum constitutionem: da un
lato, infatti, la tassatività delle ipotesi di conversione non assumerebbe il
carattere rigido sostenuto dal rimettente e, dall’altro, non sarebbe esclusa la
possibilità, per i debitori, di domandare, con il medesimo ricorso, la
liquidazione subordinatamente al diniego dell’omologazione dell’accordo.
Tale
specifica eccezione va disattesa.
Il
giudice rimettente si è, infatti, soffermato, ancorché succintamente, sull’art.
14-quater della legge n. 3 del 2012, osservando che il suo tenore letterale non
consentirebbe di convertire la procedura di accordo in quella di liquidazione
al di fuori delle ipotesi da esso previste. Le questioni sollevate non sono
quindi inammissibili, «poiché è stata consapevolmente esclusa […] la
praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata» (ex plurimis, sentenza n. 150 del
2020).
4.1.–
L’Avvocatura generale ha eccepito l’inammissibilità anche per l’insufficiente
motivazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate: con
riguardo all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., perché il rimettente non
avrebbe individuato né il tertium comparationis
né lo «specifico profilo d’irragionevolezza denunciato»; con riguardo all’art.
24 Cost., perché il dedotto vulnus sarebbe basato su «considerazioni
generiche».
Neppure
tale eccezione è suscettibile di accoglimento, sotto entrambi i profili in cui
è articolata.
Quanto
al contrasto con il principio di eguaglianza, va, infatti, rilevato che il
giudice a quo non ha mancato di individuare il tertium
utile ad apprezzare la denunciata disparità, evidentemente identificandolo
nella situazione in cui versano i debitori che hanno sì raggiunto l’accordo, ma
ne hanno determinato la successiva “caducazione”. Il rimettente ha del pari
chiarito i profili di irragionevolezza di siffatta disparità: circoscrivendo a
tali debitori – che per di più hanno posto in essere condotte dolose o
gravemente colpose o, comunque, inadempimenti loro imputabili – la possibilità
di chiedere la conversione, l’art. 14-quater della legge n. 3 del 2012 del
tutto ingiustificatamente precluderebbe la medesima facoltà ai debitori che
“incolpevolmente” non hanno raggiunto l’accordo con i creditori. Questa
preclusione risulterebbe, inoltre, irragionevole poiché i presupposti della
liquidazione coinciderebbero con quelli della procedura di accordo e sarebbero
stati già accertati dal giudice in sede di verifica dell’ammissibilità di tale
ultima procedura.
In
ordine, poi, alla lesione dell’art. 24 Cost., dalla complessiva motivazione
dell’ordinanza di rimessione emerge chiaramente che il giudice a quo dubita
della legittimità costituzionale della norma denunciata perché essa
comporterebbe una frammentazione della tutela dei debitori che non hanno
raggiunto l’accordo, costringendoli a subire la chiusura del procedimento già
aperto e ad attivarne uno distinto per accedere alla liquidazione, così
sopportando un aggravio di spese.
Deve
conclusivamente ritenersi che le argomentazioni del Tribunale abruzzese
superino il vaglio di ammissibilità, sotto gli aspetti rimarcati dall’Avvocatura
generale.
5.–
L’esame del merito è, tuttavia, precluso da altre ragioni di inammissibilità.
Queste
prescindono dalla possibilità d’interpretare la specifica norma denunciata secundum constitutionem, in
quanto afferiscono piuttosto alla lacunosa ponderazione del complessivo quadro
normativo e giurisprudenziale in cui essa s’inserisce.
5.1.–
Le questioni oggetto dell’odierno incidente di legittimità costituzionale,
infatti, si sviluppano sul presupposto, sostenuto dal rimettente, che non sia
ammissibile la domanda del debitore che, superato il preliminare esame
giudiziale sulla proposta di accordo da esso formulata, chieda, in conseguenza
del dissenso in seguito manifestato dai creditori, la conversione della
procedura in quella di liquidazione del proprio patrimonio.
A tale
inammissibilità il giudice a quo giunge sulla scorta della dirimente
considerazione che il censurato art. 14-quater della legge n. 3 del 2012, nel
disciplinare la conversione, non include, nel novero dei soggetti legittimati a
chiederla, i debitori che non hanno raggiunto l’accordo.
Il
rimettente perviene a questa conclusione senza, tuttavia, considerare, su un
altro piano, che la domanda con la quale il debitore chiede, in conseguenza del
mancato raggiungimento dell’accordo, di accedere alla liquidazione può invece
ben essere ammessa, in ossequio al principio di economia processuale e alla
funzione sociale della disciplina della composizione delle crisi da
sovraindebitamento, applicando le norme sul rito camerale, per tal via
giungendo allo stesso sostanziale risultato della conversione.
Detta
domanda, infatti, si colloca in una fase del procedimento in cui il giudice
investito della procedura, al fine della successiva omologazione dell’accordo,
è chiamato tra l’altro ad accertare il consenso della maggioranza qualificata
dei creditori (rappresentanti, cioè, almeno il sessanta per cento dei crediti)
sulla proposta del debitore.
Si
tratta di una fase alla quale, sia pure con il temperamento della
compatibilità, appaiono applicabili le norme sul rito camerale di cui agli
artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile, espressamente richiamate
dagli artt. 10, comma 6, e 12, comma 2, terzo periodo, della legge n. 3 del
2012.
5.2.–
Il rito camerale, di cui il rimettente deve quindi fare applicazione, come
chiarito da questa Corte, è connotato dall’assenza di «formalismi non
essenziali» (ordinanza
n. 140 del 2001), in quanto preordinato a soddisfare «esigenze di
speditezza e semplificazione» (sentenza n. 10 del
2013; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 194 del
2005; ordinanze
n. 190 del 2013, n. 170 del 2009
e n. 35 del 2002).
In
questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in linea
generale, nel procedimento camerale «non vigono le preclusioni previste per il giudizio
di cognizione ordinario» e, segnatamente, che possono essere finanche «proposte
per tutto il corso di esso domande nuove […] in conformità delle direttive
dettate dal giudice» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 24
ottobre 2003, n. 16035, e 25 ottobre 2000, n. 14022), al quale gli artt. 737 e
seguenti cod. proc. civ. riservano «ampi margini di discrezionalità» (Corte di
cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 aprile 2016, n. 8404).
Da
ultimo, peraltro, non è nemmeno superfluo ricordare che anche le preclusioni
che invece contraddistinguono il processo di cognizione ordinario risultano
attenuate, con particolare riguardo alla modificabilità delle domande, a
seguito della sentenza con la quale le sezioni unite della Corte di cassazione
hanno affermato che la «modificazione della domanda ammessa a norma dell’art.
183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi
della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in
ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio […]» (Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 giugno 2015, n. 12310).
5.3.–
Nel descritto contesto, il giudice a quo avrebbe dovuto, quindi, prendere in
considerazione la possibilità di qualificare la domanda di conversione nella
specie formulata dal debitore quale mera modifica dell’originaria domanda di
accordo in quella di liquidazione, ritenendola di conseguenza ammissibile sulla
scorta delle norme che disciplinano il rito camerale; magari solo per
escluderla, perché ad esempio impedita dal divieto di reiterazione infraquinquennale, volto «a fronteggiare un uso ripetuto ed
indiscriminato» delle procedure in discorso e «dettato a carico del debitore»
il quale abbia, però, fruito «degli effetti pieni» delle stesse (Corte di
cassazione, sezione prima civile, sentenza 1° gennaio 2016, n. 1869; nello
stesso senso, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 1° agosto
2017, n. 19117).
I
requisiti per accedere alla liquidazione, come rileva anche lo stesso
rimettente, sono del resto in buona misura sovrapponibili a quelli previsti
dalla legge n. 3 del 2012 per la procedura di accordo. Tali requisiti sono
stati, d’altro canto, già accertati in occasione del giudizio di ammissibilità
della proposta di accordo sulla base di documentazione del pari largamente
coincidente con quella che deve essere depositata a corredo della domanda di
liquidazione.
La
possibilità ermeneutica che il giudice a quo trascura sarebbe, pertanto,
coerente sia con le ragioni di celerità e semplificazione che, come visto,
questa Corte ha ripetutamente posto a fondamento della disciplina del rito
camerale, sia con il suddetto orientamento della giurisprudenza di legittimità.
5.4.–
La descritta lacuna nella ricostruzione del quadro normativo si traduce quindi
in un’insufficiente motivazione in punto sia di rilevanza, poiché il
rimettente, seguendo il descritto percorso interpretativo, non dovrebbe
necessariamente fare applicazione dell’art. 14-quater della legge n. 3 del
2012, sia di non manifesta infondatezza, dal momento che i trascurati profili
di applicabilità delle richiamate disposizioni codicistiche sui procedimenti
camerali sarebbero anche idonei a confutare i prospettati dubbi di legittimità
costituzionale.
Il
giudice a quo, peraltro, nemmeno si confronta con la tesi – accolta sia in
dottrina, sia nella giurisprudenza di merito e qui sostenuta dall’Avvocatura
generale – che ammette la proposizione, con lo stesso ricorso, di domande (non
già cumulative, ma) subordinate aventi ad oggetto le diverse procedure volte al
superamento della crisi da sovraindebitamento.
Tale
omissione si riverbera sull’adeguatezza della motivazione in ordine alla non
manifesta infondatezza: il sistema normativo, pur in assunto precludendo al
debitore che non abbia raggiunto l’accordo di chiedere la liquidazione nel
corso del procedimento, gli consentirebbe però (e ciò incide sui prospettati
profili di illegittimità costituzionale) di formulare siffatta domanda, in via
subordinata, con il ricorso, offrendogli per tal via la possibilità (per così
dire, “in prevenzione”) di non dovere attivare un nuovo e distinto procedimento
al fine di accedere alla liquidazione stessa.
6.– In
definitiva, l’incompleta ricostruzione della cornice normativa e
giurisprudenziale di riferimento compromette irrimediabilmente l’iter logico
argomentativo posto a fondamento delle valutazioni del rimettente sia sulla
rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza, ciò che, secondo il costante orientamento
di questa Corte, rende inammissibili le questioni sollevate (ex plurimis, sentenze n. 15 del
2021, n. 264
del 2020 e n.
150 del 2019; ordinanze
n. 147 e n.
108 del 2020).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14-quater
della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di
estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento),
sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Lanciano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 25 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO,
Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore
della Cancelleria
Depositata in Cancelleria
l'8 aprile 2021.