Sentenza n. 182 del 2021

CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 182

ANNO 2021

Commento alla decisione di

 Elisa Grisonich

Verso una tutela integrata dei diritti fondamentali dei prevenuti: doppia pregiudizialità, Carta di Nizza e direttive di Stoccolma alla luce di un rilevante approdo della Consulta in relazione all’art. 578 c.p.p.

 per g.c. di Sistema Penale

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 578 del codice di procedura penale promossi dalla Corte d’appello di Lecce con due ordinanze del 6 novembre e dell’11 dicembre 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 14 e 29, del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 7 e 10, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione di P.P. N., A. B. e V. C., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi gli avvocati Antonio Bolognese per P.P. N., in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021, Ladislao Massari per A. B. e V. C., e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze del 6 novembre 2020 (r.o. n. 14 del 2021) e dell’11 dicembre 2020 (r.o. n. 29 del 2021), la Corte d’appello di Lecce ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 del codice di procedura penale, per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché per contrasto con lo stesso art. 117, primo comma, e con l’art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «nella parte in cui stabilisce che, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili».

Il rimettente sospetta che la denunciata previsione normativa violi il diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla norma convenzionale (come interpretata nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) e da quelle dell’ordinamento dell’Unione europea assunte a parametri interposti, in quanto imporrebbe al giudice dell’impugnazione di formulare, sia pure in via incidentale ed al solo fine di provvedere sulla domanda risarcitoria, un nuovo giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato, sebbene questa sia stata esclusa in ragione della declaratoria di estinzione del reato.

Le due ordinanze, di contenuto sostanzialmente sovrapponibile, sono state emesse nell’ambito di due distinti processi penali che si stanno celebrando, in grado di appello, dinanzi al giudice a quo, a seguito di impugnazione proposta dagli imputati, condannati in primo grado sia alle sanzioni penali per i reati loro rispettivamente contestati sia, conseguentemente, al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.

Nell’ordinanza del 6 novembre 2020, relativa al primo processo, il rimettente espone che l’unico imputato, P.P. N., all’esito del primo grado di giudizio, è stato riconosciuto colpevole dell’ascritto reato di calunnia ed è stato condannato alla pena di due anni di reclusione, nonché a risarcire alla persona offesa, costituita parte civile, un danno liquidato in euro 10.000.

Invece, nell’ordinanza dell’11 dicembre 2020, relativa al secondo processo, si riferisce che più imputati (tra cui A. B. e V. C.) sono stati riconosciuti colpevoli del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro il patrimonio, oltre che di una serie di truffe, e sono stati condannati alla pena della reclusione diversamente commisurata per ciascuno di essi, nonché, in solido, a risarcire il danno cagionato alle persone offese dai reati-fine, da liquidarsi in separata sede, con provvisionali di diversa misura.

In entrambi i processi, peraltro, nelle more dell’impugnazione sarebbe maturata la prescrizione dei reati in relazione ai quali è stata emessa la condanna risarcitoria in favore delle parti civili.

Precisamente, nel primo processo, il reato di calunnia, per cui vi era stata condanna in primo grado, si sarebbe prescritto antecedentemente alla data del 25 ottobre 2019, fissata per la celebrazione della prima udienza del giudizio di appello, poi rinviata al 6 novembre 2020 per l’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dal competente organismo forense. Nel secondo processo, invece, la causa estintiva per tutti i reati-fine (in relazione ai quali era stata emessa la condanna risarcitoria in primo grado) sarebbe maturata a far data dal mese di ottobre 2020, dopo che la prima udienza d’appello, originariamente fissata al 18 marzo 2020, era stata rinviata al successivo 21 ottobre 2020, ai sensi dell’art. 83, commi 1, 2 e 3, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, pur tenendo conto della sospensione della prescrizione nel periodo 9 marzo-11 maggio 2020, prevista dal comma 4 dello stesso articolo; nelle more dell’ulteriore rinvio dell’udienza del 21 ottobre 2020 all’11 dicembre 2020 (reso necessario dalla situazione di incompatibilità alla trattazione di uno dei membri del collegio giudicante) si sarebbe parzialmente prescritto anche il reato associativo, restando in vita solo l’imputazione relativa ai promotori ed organizzatori del sodalizio criminoso.

1.1.– Si sarebbero, dunque, integrati in entrambi i processi i presupposti per l’applicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen., che impone al giudice di appello, nel dichiarare il non doversi procedere per estinzione del reato a causa della prescrizione sopravvenuta alla sentenza di condanna di primo grado, di provvedere comunque sul gravame ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili.

La rilevanza della questione sarebbe assicurata dalla circostanza che, in applicazione della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, una volta dichiarata la prescrizione dei reati, la Corte di appello non potrebbe procedere alla conferma delle condanne risarcitorie sul mero rilievo dell’assenza di prova dell’innocenza degli imputati, ostando a tale possibilità il principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo il quale, all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili. In ragione di questo principio, dunque, la conferma delle condanne risarcitorie potrebbe seguire solo ad un compiuto esame nel merito dei motivi di gravame (tutti incentrati sull’assenza di penale responsabilità in capo agli imputati), in mancanza del quale la sentenza di appello sarebbe viziata da omessa o insufficiente motivazione e soggetta, in ipotesi di ricorso per cassazione, ad annullamento con rinvio.

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale, osserva al riguardo il giudice a quo che il necessario esame dei motivi di impugnazione, comportando una rivalutazione del compendio probatorio, non potrebbe che tradursi in un nuovo apprezzamento, sia pure «incidenter tantum», della colpevolezza dell’imputato.

In tal senso, del resto, si porrebbe l’orientamento del giudice della nomofilachia (vengono citate: Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490; sezione sesta penale, sentenza 20 marzo-8 aprile 2013, n. 16155; sezioni unite penali, sentenza 18 luglio-27 settembre 2013, n. 40109; sezione quinta penale, sentenza 7 ottobre 2014-27 gennaio 2015, n. 3869; sezione seconda penale, sentenza 18 luglio-17 settembre 2014, n. 38049), il quale interpreta il disposto dell’art. 578 cod. proc. pen. nel senso di ritenere necessaria, in funzione della conferma delle statuizioni civili contenute nella pronuncia di primo grado da parte del giudice di appello che pure abbia riscontrato l’esistenza di una causa estintiva del reato, l’incidentale riaffermazione della responsabilità penale dell’imputato, pena l’annullamento con rinvio della sentenza.

Tale indirizzo interpretativo, assunto come “diritto vivente”, avrebbe trovato riscontro anche nel recente arresto delle Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 ottobre 2018-7 febbraio 2019, n. 6141), che, risolvendo in senso positivo il contrasto, circa l’impugnabilità con il rimedio straordinario della revisione, della sentenza di appello contenente, unitamente alla dichiarazione di estinzione del reato, la conferma delle statuizioni civili restitutorie o risarcitorie, l’avrebbe equiparata, nella sostanza, ad una vera e propria sentenza di “condanna”.

Tenuto conto di tale “diritto vivente” sull’ambito della cognizione richiesta al giudice dell’impugnazione penale dalla norma codicistica, questa – secondo la Corte rimettente – si porrebbe in contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., per violazione sia degli obblighi convenzionali assunti con la CEDU sia dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, in quanto la sua concreta applicazione in giudizio lederebbe il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, come riconosciuto e garantito, sotto il primo versante, dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU e, sotto il secondo versante, dall’art. 48 CDFUE, nonché dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE, emanata, ai sensi dell’art. 82, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, proprio in funzione del rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza.

Evidenzia, in particolare, il rimettente che tanto l’art. 6, paragrafo 2, CEDU (nella costante interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) quanto la corrispondente norma contenuta nell’art. 48 CDFUE, nonché gli artt. 3 e 4 della citata direttiva (questi ultimi nella interpretazione ripetutamente datane dalla Corte di giustizia), riconoscerebbero il diritto alla presunzione di innocenza sotto un duplice aspetto.

Per un verso, attribuirebbero una garanzia procedurale nel contesto di un processo penale, con implicazioni in ordine all’onere della prova, all’applicabilità di presunzioni di fatto e di diritto, al privilegio contro l’autoincriminazione, alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature da parte della corte processuale o di altri funzionari. Per altro verso, una volta che il procedimento penale sia terminato con una pronuncia di assoluzione o con una interruzione (e dunque senza che la responsabilità penale sia stata accertata), attribuirebbero all’imputato il diritto di essere trattato dalle pubbliche autorità e dai pubblici ufficiali come persona innocente, impedendo che, nel contesto di un procedimento successivo, possano essere emessi provvedimenti che presuppongano la sua responsabilità in ordine al reato che gli era stato contestato.

1.3.– Con specifico riguardo al diritto convenzionale, il rimettente, oltre a ricordare il leading case in cui il cosiddetto secondo aspetto del diritto alla presunzione di innocenza sarebbe stato elaborato (Corte EDU, grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito), cita una serie di pronunce in cui la Corte di Strasburgo è stata chiamata a considerare l’applicazione dell’art. 6, paragrafo 2, CEDU in relazione a decisioni giudiziarie prese a seguito della conclusione del procedimento penale, a titolo di interruzione o dopo un’assoluzione, in procedimenti riguardanti, tra l’altro, l’imposizione di una responsabilità civile per il pagamento di un risarcimento alla vittima. Questa fattispecie, corrispondente a quella disciplinata nel nostro ordinamento dall’art. 578 cod. proc. pen., sarebbe quindi quella tipica in cui troverebbe applicazione il cosiddetto secondo aspetto del diritto alla presunzione di innocenza, come declinato nella giurisprudenza della Corte EDU.

Il giudice a quo richiama, in particolare, la recente decisione emessa dalla Corte EDU in data 20 ottobre 2020 (terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino), evidenziando come, nella fattispecie, il giudice penale di appello sammarinese, in applicazione di una norma perfettamente sovrapponibile all’art. 578 cod. proc. pen., in seguito al gravame proposto dall’imputato avverso la sentenza di primo grado che lo aveva ritenuto colpevole di appropriazione indebita aggravata e continuata, condannandolo al risarcimento del danno in favore della parte civile, aveva dichiarato l’avvenuta prescrizione del reato, confermando nel contempo la condanna risarcitoria, sul rilievo che la condotta dell’imputato integrava i fatti di appropriazione indebita di cui era stato accusato, che questi fatti erano stati commessi con dolo e che da essi era derivato un danno alla vittima.

Il rimettente rileva come la Corte EDU abbia ritenuto violato dal giudice sammarinese il secondo aspetto della presunzione di innocenza, avendo egli emesso un provvedimento che rifletteva una indebita opinione di colpevolezza, e quindi una oggettiva imputazione di responsabilità penale, non ostante questa non fosse stata accertata in ragione della declaratoria di prescrizione del reato.

1.4.– Tanto evidenziato, il giudice a quo osserva come, in base al riferito consolidato orientamento del giudice della nomofilachia, anche nell’applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen. non potrebbe prescindersi dalla formulazione di un implicito giudizio di colpevolezza, al fine di confermare la condanna risarcitoria.

Questo consolidato orientamento, costituendo “diritto vivente”, osterebbe, infatti, alla possibilità che il giudice del merito acceda ad una interpretazione convenzionalmente conforme della norma censurata.

Con riguardo all’ordinamento dell’Unione europea, il rimettente cita decisioni della Corte di giustizia in cui – movendo dal presupposto che il diritto alla presunzione di innocenza riconosciuto dall’art. 48 CDFUE, in quanto corrispondente a quello garantito dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU, ha significato e portata identici a quello conferito dalla norma convenzionale (art. 52 CDFUE) – sarebbe stato affermato il principio generale per cui, in assenza di indicazioni precise nella direttiva 2016/343/UE e nella giurisprudenza relativa al citato art. 48, ai fini dell’interpretazione del contenuto della direttiva medesima, occorrerebbe ispirarsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Questo criterio dovrebbe essere seguito segnatamente nell’interpretazione dell’art. 4, paragrafo 1, della direttiva, a mente del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o di un imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, non presentino la persona come colpevole.

Anche l’ordinamento dell’Unione europea, dunque, riconoscerebbe il secondo aspetto del diritto alla presunzione di innocenza con la medesima portata di quello garantito dall’ordinamento convenzionale, talché l’art. 578 cod. proc. pen. – dando luogo, nel suo necessitato snodo applicativo, reso ineludibile dall’indirizzo esegetico consolidatosi nel diritto vivente giurisprudenziale, a decisioni giudiziarie, emesse in grado di appello, che, nel confermare le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado, presentano l’imputato come colpevole, sebbene la sua responsabilità penale sia stata esclusa dal proscioglimento in rito – sarebbe in evidente contrasto, anche sotto questo profilo, con l’art. 117, primo comma, nonché con l’art. 11 Cost.

La violazione del diritto dell’Unione europea – osserva ulteriormente il rimettente – se, da un lato, consentirebbe al giudice comune di disapplicare le norme interne in contrasto con quelle comunitarie direttamente efficaci, dall’altro lato, vertendosi in materia di diritti fondamentali tutelati anche dall’ordinamento interno, legittimerebbe altresì lo stesso giudice a sollevare la questione di costituzionalità (vengono citate le sentenze di questa Corte n. 63 e n. 20 del 2019, e n. 269 del 2017).

La predetta violazione, inoltre, sarebbe rilevante indipendentemente dalla dimensione transnazionale della materia penale oggetto del procedimento, avendo la Corte di giustizia chiarito che le direttive emanate ai sensi dell’art. 82, paragrafo 2, TFUE, si applicano a qualunque procedimento penale (viene citata: Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 13 giugno 2019, in causa C-646/17), il che comporterebbe, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, anche l’applicabilità dell’art. 48 della stessa Carta (viene citata: Corte di giustizia UE, sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10).

2.– Nei giudizi incidentali si sono costituiti P.P. N. (imputato appellante nel processo sospeso in seguito all’emissione dell’ordinanza del 6 novembre 2000), nonché A. B. e V. C. (imputati appellanti nel processo sospeso in seguito all’emissione dell’ordinanza dell’11 dicembre 2020) i quali, nel ribadire le allegazioni in fatto contenute nell’ordinanza di rimessione, hanno altresì aderito alle deduzioni in diritto, chiedendo l’accoglimento della questione.

3.– Con distinti atti di intervento (depositati in data 9 e 30 marzo 2021), è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, in relazione ad entrambe le ordinanze di rimessione, ha chiesto dichiararsi le questioni non fondate.

L’interveniente deduce che la norma censurata, ove applicata secondo l’indirizzo prevalso nella giurisprudenza della Corte di cassazione, non contrasti affatto con il principio della presunzione di innocenza, come declinato nell’ordinamento convenzionale e in quello eurounitario, giacché il predetto indirizzo giurisprudenziale richiederebbe non già l’accertamento della colpevolezza dell’imputato, ma esclusivamente la valutazione del fatto posto a fondamento del giudizio di responsabilità civile, di cui si chiederebbe la conferma in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato.

4.– A. B. e V. C. hanno depositato memoria illustrativa, ex art. 10 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze del 6 novembre 2020 (r.o. n. 14 del 2021) e dell’11 dicembre 2020 (r.o. n. 29 del 2021) la Corte d’appello di Lecce ha sollevato le medesime questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 del codice di procedura penale per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui stabilisce che, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

Il dubbio di legittimità costituzionale si fonda sul rilievo che, alla stregua della giurisprudenza formatasi in ordine all’interpretazione della norma codicistica, il giudice dell’appello penale, nel momento in cui è chiamato a dichiarare non doversi procedere per la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione, sarebbe comunque tenuto a svolgere, sia pure in via incidentale e al fine di provvedere sul gravame ai soli effetti della domanda risarcitoria o restitutoria della parte civile, un nuovo accertamento sulla responsabilità penale dell’imputato, in mancanza del quale la decisione sarebbe viziata da difetto di motivazione e destinata ad essere annullata (con rinvio) nel successivo grado di legittimità.

In tal modo, la disposizione censurata lederebbe il principio di presunzione di innocenza garantito all’imputato dalla norma convenzionale e da quelle europee, tutte assunte a parametri interposti, in quanto la prima, come interpretata dalla Corte EDU, escluderebbe la possibilità che in un procedimento successivo a quello penale conclusosi con un risultato diverso da una condanna, possano essere emessi provvedimenti che presuppongono un giudizio di colpevolezza della persona in ordine al reato precedentemente contestatole; parimenti le seconde, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, imporrebbero agli Stati membri di garantire che le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino una persona come colpevole finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata.

Anche l’evocazione dell’art. 11 Cost. non ha – nella prospettazione delle ordinanze di rimessione – una sua distinta autonomia, come parametro diretto, ma confluisce nella denuncia degli indicati parametri interposti.

2.– Le ordinanze di rimessione sollevano la stessa questione di legittimità costituzionale, sì da rendere opportuna la riunione dei giudizi per la loro decisione congiunta.

3.– In via preliminare, va osservato che sussiste la rilevanza delle questioni: per un verso, come evidenziato nelle ordinanze di rimessione, nei giudizi a quibus risultano integrati i presupposti per l’applicazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale, consistenti nell’emissione di una valida condanna risarcitoria in primo grado, nella sopravvenienza di una causa estintiva maturata nelle more dell’impugnazione della predetta condanna e nella “specificità” della causa estintiva sopravvenuta, costituita dalla prescrizione; per altro verso, le ordinanze assumono, plausibilmente, che dagli atti non risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato con conseguente impossibilità di addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.

Pertanto la Corte rimettente è chiamata a fare applicazione del censurato art. 578 cod. proc. pen. in entrambi i giudizi.

4.– Ancora in via preliminare, va affermata l’ammissibilità delle questioni sollevate – per il tramite dell’art. 117, primo comma, oltre che dell’art. 11, Cost. – in relazione agli indicati parametri interposti, convenzionale ed europei, quali rispettivamente l’art. 6, paragrafo 2, CEDU e l’art. 48 CDFUE, unitamente agli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE, in corso di recepimento in forza della legge 22 aprile 2021, n. 53 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019-2020).

4.1.– In relazione al primo parametro interposto (art. 6, paragrafo 2, CEDU), deve muoversi dal rilievo, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 145 del 2020 e n. 25 del 2019), secondo cui, allorché un diritto fondamentale trovi protezione, sia in una norma costituzionale, sia in una norma della CEDU, vi è una concorrenza di tutele che si traduce in un’integrazione di garanzie. In questa ipotesi, dal momento che in tema di diritti fondamentali «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2018), il giudice rimettente può allegare la norma convenzionale a parametro interposto, evidenziando la portata che in essa assume il diritto fondamentale, di cui è ipotizzata la possibile lesione ad opera della norma interna censurata, e confrontandosi con la relativa giurisprudenza sovranazionale.

Nella fattispecie in esame, il giudice a quo ha puntualmente assolto questo onere.

4.2.– In relazione poi all’evocazione, da parte del giudice a quo, di disposizioni del diritto dell’Unione europea, va ribadito che essa deve considerarsi ammissibile quando, come nella specie, il giudice comune, nell’ambito di un incidente di legittimità costituzionale, richiami, come norme interposte, disposizioni del predetto ordinamento attinenti ai medesimi diritti fondamentali tutelati da parametri interni, ove non ricorrano i presupposti della non applicabilità della normativa interna contrastante con quella europea. In tale evenienza, questa Corte, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, non si esime dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri (sentenze n. 11 del 2020, n. 63 e n. 20 del 2019, n. 269 del 2017).

In particolare, nella specie, l’ammissibilità non è preclusa dal difetto della dimensione transnazionale delle vicende penali che costituiscono oggetto dei giudizi principali. Le norme evocate, infatti, sono contenute nella direttiva n. 2016/343/UE, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza, emanata in attuazione dell’art. 82, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, secondo cui, laddove necessario per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale, il Parlamento europeo e il Consiglio possono stabilire norme minime attraverso direttive deliberate secondo la procedura legislativa ordinaria, in materia di «diritti della persona nella procedura penale», tenendo conto delle differenze tra le tradizioni e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Esse, dunque, proprio perché volte a creare un’armonizzazione minima dei procedimenti penali nell’Unione europea, sotto il profilo dei diritti procedurali di indagati e imputati, in funzione del rafforzamento della reciproca fiducia degli Stati membri nei rispettivi sistemi di giustizia penale, trovano applicazione indipendentemente dalla dimensione transnazionale del procedimento (Corte di giustizia, sentenza 13 giugno 2019, in causa C-646/17). L’applicazione delle norme della direttiva sulla presunzione di innocenza implica, poi, anche quella dell’art. 48 CDFUE, che enuncia lo stesso principio, rientrandosi nell’ambito definito dall’art. 51, paragrafo 1, della Carta medesima (Corte di giustizia, sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10).

5.– Preliminarmente all’esame del merito delle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Lecce giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento, limitatamente all’ambito di applicabilità della disposizione censurata nel sistema dei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, nonché tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale.

6.– Nella giurisprudenza di questa Corte si è più volte rilevato (ex plurimis, sentenze n. 176 del 2019, n. 12 del 2016 e n. 217 del 2009) che, a differenza del sistema delineato nel codice del 1930 (ove l’assetto delle relazioni tra processo civile e processo penale era improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale), quello risultante dal codice in vigore è, al contrario, informato ai diversi principi dell’autonomia e della separazione.

Infatti, nell’ipotesi in cui l’azione civile per le restituzioni o il risarcimento venga esercitata nella sua sede propria (quella del giudizio civile) in pendenza di un processo penale per lo stesso fatto, non trova più applicazione – nel nuovo codice di rito – la regola della cosiddetta pregiudizialità penale (che imponeva la sospensione del giudizio civile sino al passaggio in giudicato della sentenza penale: art. 3 cod. proc. pen. del 1930), ma il processo civile prosegue, di norma, autonomamente (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.), salve le ipotesi eccezionali in cui il danneggiato abbia proposto la domanda in sede civile dopo essersi costituito parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75, comma 3, cod. proc. pen.).

Del pari, diversamente dal codice abrogato (il quale prevedeva che la sentenza penale assumesse efficacia vincolante nel giudizio civile di danno: art. 23 cod. proc. pen. del 1930), il codice attuale stabilisce la diversa regola per cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel processo civile se il danneggiato ha esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen. (art. 652, comma 1, cod. proc. pen.).

Nell’ipotesi in cui la domanda risarcitoria venga, invece, proposta con la costituzione di parte civile nel processo penale, i rapporti tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale continuano ad essere informati, anche nel sistema accolto nel codice vigente, al principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale, principio che trova fondamento nelle «esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi», e che ha quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, «è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura» di questo processo (sentenza n. 176 del 2019; in precedenza, anche sentenza n. 12 del 2016).

Il principio di “accessorietà” trova la sua principale espressione nella regola secondo la quale il giudice penale «decide» sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, «[q]uando pronuncia sentenza di condanna» (art. 538, comma 1, cod. proc. pen.).

La condanna penale, dunque, costituisce il presupposto indispensabile del provvedimento del giudice sulla domanda civile: se emette sentenza di proscioglimento, tanto in rito (sentenza di non doversi procedere: artt. 529 e 531 cod. proc. pen.) quanto nel merito (sentenza di assoluzione: art. 530 cod. proc. pen.), il giudice non deve provvedere sulla domanda civile; se invece pronuncia sentenza di condanna (art. 533 cod. proc. pen.), provvede altresì sulla domanda restitutoria o risarcitoria, accogliendola o rigettandola.

Questa regola generale trova applicazione senza alcuna deroga nel giudizio penale di primo grado: il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno se – e solo se – pronuncia sentenza di condanna dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili risarcitorie o restitutorie.

Nei gradi di impugnazione, invece, questa regola talora deflette a tutela del diritto di azione della parte civile (art. 24, secondo comma, Cost.). La disciplina delle impugnazioni conosce, infatti, norme particolari, che attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell’accertamento della responsabilità penale.

6.1.– Innanzi tutto l’art. 576 cod. proc. pen. prevede che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio o all’esito del rito abbreviato (ordinanza n. 32 del 2007; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-12 luglio 2007, n. 27614). In particolare la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che «nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 marzo-3 luglio 2019, n. 28911).

L’esercizio di questa facoltà, ad opera della parte civile, «conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento del danno ed alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto», atteso che esso, una volta adìto ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., «ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 11-19 luglio 2006, n. 25083).

Questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede che la parte civile, legittimata a proporre l’impugnazione, ai soli effetti civili, della sentenza di proscioglimento, debba farlo dinanzi al giudice penale, anziché al giudice civile (sentenza n. 176 del 2019).

L’attribuzione alla parte civile della facoltà di impugnare, ai soli effetti civili, la sentenza di proscioglimento davanti al giudice penale non è irragionevole, avuto riguardo, sotto il profilo formale, alla circostanza che, «essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, anche il giudizio d’appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito»; e, tenuto conto, sotto il profilo sostanziale, del rilievo che tale giudice, «lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado».

6.2.– Parimenti la disposizione attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale (art. 578 cod. proc. pen.) mira a soddisfare un’analoga esigenza di tutela della parte civile; quella che, quando il processo penale ha superato il primo grado ed è nella fase dell’impugnazione, una risposta di giustizia sia assicurata, in quella stessa sede, alle pretese risarcitorie o restitutorie della parte civile anche quando non possa più esserci un accertamento della responsabilità penale dell’imputato ove questa risulti riconosciuta in una sentenza di condanna, impugnata e destinata ad essere riformata o annullata per essere, nelle more, estinto il reato per prescrizione.

Imprescindibile condizione perché il giudice dell’impugnazione possa decidere, non ostante il proscioglimento dell’imputato, sugli interessi civili è dunque, anzitutto, l’emissione di una valida condanna nel grado di giudizio immediatamente precedente, impugnata dall’imputato o dal pubblico ministero, alla quale sia sopravvenuta una causa estintiva del reato. Pertanto, fuori dall’ambito applicativo della norma è sia l’ipotesi in cui il giudice di appello, su impugnazione del pubblico ministero, dichiari la prescrizione del reato in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, sia quella in cui il medesimo giudice accerti che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado.

Altro imprescindibile presupposto della possibilità di deliberare sulla pretesa civilistica consiste, poi, nella “specificità” della causa di proscioglimento sopravvenuta: la norma, infatti, non opera né nelle ipotesi di proscioglimento nel merito (all’eventuale assoluzione dall’imputazione penale pronunciata dal giudice dell’impugnazione non segue la decisione sul capo civile), né nell’ipotesi di cause estintive del reato diverse dalla prescrizione o dall’amnistia (ad esempio, per remissione di querela).

In questi limiti il legislatore ha voluto evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione.

6.3.– Una più marcata deviazione dal principio generale di accessorietà dell’azione civile nel processo penale è poi quella recata dall’art. 622 cod. proc. pen., secondo cui, nel giudizio di cassazione, se gli effetti penali della sentenza di merito sono ormai cristallizzati per essersi formato il giudicato sui relativi capi, la cognizione sulla pretesa risarcitoria e restitutoria si scinde dalla statuizione sulla responsabilità penale e viene compiuta, in sede rescindente, dal giudice di legittimità e, in sede rescissoria, dal giudice civile di merito competente per valore in grado di appello, all’esito di rinvio.

L’art. 622 cod. proc. pen. prescrive che, «[f]ermi gli effetti penali della sentenza», la Corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nella fattispecie contemplata dal primo ordine di ipotesi considerato dalla norma (che presuppone il ricorso dell’imputato o del pubblico ministero), rientrano non solo i casi in cui la responsabilità penale sia stata definitivamente accertata con esito positivo e l’annullamento disposto dalla Cassazione riguardi le statuizioni civili censurate dall’imputato ai sensi dell’art. 574 cod. proc. pen., ma anche i casi di annullamento delle statuizioni civili, rese dal giudice di appello all’esito dell’applicazione dell’art. 576 e dell’art. 578 cod. proc. pen.; inoltre il rinvio al giudice civile, a seguito dell’annullamento delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata per cassazione, va disposto non solo allorché assuma carattere meramente “prosecutorio”, ma anche quando assuma carattere “restitutorio” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 18 luglio-27 settembre 2013, n. 40109).

Tale estensivo orientamento, in ordine all’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen., è stato recentemente ribadito dalle stesse Sezioni unite penali, le quali hanno inoltre statuito che nel giudizio rescissorio di “rinvio” dinanzi al giudice civile, avente in realtà natura di autonomo giudizio civile (non vincolato dal principio di diritto eventualmente enunciato dal giudice penale di legittimità in sede rescindente), trovano applicazione le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e che l’accertamento richiesto al giudice del “rinvio” ha ad oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile, prescindendosi da ogni apprezzamento, sia pure incidentale, sulla responsabilità penale dell’imputato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio-4 giugno 2021, n. 22065).

7.– Ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte rimettente non sono fondate.

8.– Il giudice rimettente invoca – per il tramite degli indicati parametri interposti – il principio della presunzione di innocenza operante nell’ambito dell’ordinamento sia convenzionale (art. 6, paragrafo 2, CEDU), sia europeo (art. 48 CDFUE, unitamente agli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE), il quale vieta che la persona, accusata di aver commesso un reato e sottoposta ad un procedimento penale conclusosi con proscioglimento (in rito o in merito), possa poi essere trattata dalle pubbliche autorità come se fosse colpevole del reato precedentemente contestatole.

In particolare tale principio viene in rilievo, in entrambi i giudizi principali, in relazione alla fattispecie della prescrizione quale causa di estinzione del reato (art. 157, primo comma, cod. pen.); istituto questo la cui valenza sostanziale è stata confermata, anche recentemente, da questa Corte (sentenze n. 140 del 2021 e n. 278 del 2020).

Il giudice rimettente dubita della conformità dell’art. 578 cod. proc. pen. al principio della presunzione di innocenza, come declinato dalla giurisprudenza CEDU e come risultante dall’ordinamento dell’Unione europea, nella misura in cui assume che, per «decid[ere] sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili», egli debba accertare, seppur incidenter tantum, la responsabilità penale dell’imputato per il reato estinto per prescrizione e in relazione al quale è chiamato, invece, a pronunciare una sentenza di proscioglimento dall’accusa.

9.– Quanto al parametro convenzionale, viene in rilievo il principio secondo cui «ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata» (art. 6, paragrafo 2, CEDU). Analogo riconoscimento di questa garanzia fondamentale è presente nel nostro ordinamento costituzionale come presunzione di non colpevolezza, che viene meno solo con la condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.).

Nell’interpretazione e applicazione datane dalla Corte di Strasburgo (ex plurimis, Corte EDU, grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito), la norma convenzionale, peraltro, assume un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente endoprocessuale.

Da una parte, la presunzione di innocenza costituisce una «garanzia procedurale» destinata ad operare «nel contesto di un processo penale», producendo effetti sul piano dell’«onere della prova», sulla operatività delle «presunzioni legali di fatto e di diritto», sull’applicabilità del «privilegio contro l’autoincriminazione», nonché in ordine «alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature, da parte della Corte processuale o di altri funzionari pubblici, della colpevolezza di un imputato».

Dall’altra, la presunzione di innocenza, «in linea con la necessità di assicurare che il diritto garantito» dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU «sia pratico e effettivo», estende i suoi effetti al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di «proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato».

Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino, «senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’art. 6 [paragrafo] 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie», sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con una interruzione, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione.

Questo secondo aspetto della tutela della presunzione di innocenza entra, dunque, in gioco quando il procedimento penale si conclude con un risultato diverso da una condanna.

Al riguardo, è stato precisato che l’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nella sua portata “ultraprocessuale”, tutela anche la reputazione della persona, sovrapponendosi, per questo profilo, alla protezione offerta dall’art. 8 (Corte EDU, sentenza Pasquini contro Repubblica di San Marino).

9.1.– L’operatività di tale principio, sotto quest’ultimo aspetto, presuppone, in primo luogo, che nei confronti della persona già accusata di un reato (ma la cui colpevolezza sia stata esclusa in seguito ad assoluzione o non sia stata accertata a causa dell’interruzione del procedimento penale) penda un altro procedimento all’esito del quale una pubblica autorità è chiamata ad assumere un nuovo provvedimento nei confronti della stessa persona; in secondo luogo, che questo distinto procedimento sia legato a quello penale, conclusosi con l’assoluzione o con l’interruzione, da un «lien» (un nesso), in ragione del quale, in vista dell’assunzione del provvedimento successivo, debba essere esaminato l’esito del procedimento penale, oppure le prove che in esso sono state assunte o, ancora, debba essere valutata la partecipazione della persona agli atti, ai comportamenti e agli eventi che hanno portato all’accusa penale, oppure, infine, debbano «essere commentate le indicazioni esistenti sulla possibile colpevolezza del richiedente» (Corte EDU, sentenza Allen contro Regno Unito).

Ulteriore presupposto è che «il successivo procedimento giudiziario non dia luogo a una nuova imputazione penale nel senso autonomo della Convenzione» (Corte EDU, sentenza Pasquini).

Infatti, allorché, pur a seguito di proscioglimento per prescrizione del reato, il giudice sia chiamato a valutare i presupposti per l’emissione di un provvedimento accessorio avente natura punitiva, secondo i canoni interpretativi della Corte di Strasburgo (come, ad esempio, nell’ipotesi della confisca: Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia), per un verso le garanzie processuali che circondano la predetta valutazione non precludono l’accertamento della responsabilità dell’imputato in ordine al reato estinto, mentre, per altro verso, tale accertamento – nel suo profilo “sostanziale” di «accertamento di responsabilità» contenuto nella motivazione della sentenza, che prescinde dalla formale enunciazione della condanna nel dispositivo (sentenza n. 49 del 2015) – è anzi imposto dal diverso parametro convenzionale di cui all’art. 7 CEDU, che, ai fini dell’applicazione di una sanzione penale, esige la previa dichiarazione della relativa responsabilità (Corte EDU, grande camera, sentenza 28 giugno 2018, G.I.EM. srl e altri contro Italia).

9.2.– Al di fuori di quest’ultima ipotesi, gli effetti dell’applicazione del secondo aspetto della presunzione di innocenza si traducono in una limitazione ai poteri cognitivi e dichiarativi dell’autorità investita del nuovo procedimento non avente natura penale. Questa autorità, infatti, non può emettere provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestatole (ancora Corte EDU, sentenze Allen contro Regno Unito e Pasquini contro Repubblica di San Marino).

L’elaborazione di questo secondo aspetto della presunzione di innocenza ex art. 6, paragrafo 2, CEDU, è stata compiuta dalla giurisprudenza di Strasburgo, in ampia misura, su fattispecie in cui, concluso il procedimento penale con un proscioglimento in merito (assoluzione) o in rito (interruzione), era residuata la necessità di provvedere sulla domanda civile di risarcimento del danno proposta nei confronti dell’imputato (ex plurimis, Corte EDU, terza sezione, sentenza 11 febbraio 2003, Ringvold contro Norvegia, e quinta sezione, sentenza 12 aprile 2012, Lagardère contro Francia).

Con riguardo a queste fattispecie, la Corte europea ha altresì sottolineato che l’applicazione del diritto alla presunzione di innocenza in favore dell’imputato non deve ridondare a danno del diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento del pregiudizio cagionatogli dal reato. Tuttavia, ammonisce la Corte, «se la decisione nazionale sul risarcimento dovesse contenere una dichiarazione che imputa la responsabilità penale alla parte convenuta, ciò solleverebbe una questione che rientra nell’ambito dell’articolo 6 [paragrafo] 2 della Convenzione» (Corte EDU, Pasquini contro Repubblica di San Marino).

In quest’ultima pronuncia la ritenuta violazione dell’art. 6, paragrafo 2, CEDU è stata affermata in una fattispecie in cui nel giudizio di appello nei confronti di un imputato condannato in primo grado per appropriazione indebita, con risarcimento del danno in favore della parte civile, il giudice, dopo aver dichiarato non doversi procedere per prescrizione del reato, nel provvedere sull’impugnazione ai soli effetti civili, non aveva contenuto l’accertamento nei limiti cognitivi e dichiarativi imposti dalla necessità di rispettare il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, spingendosi a dichiarare, tra l’altro, sia pure al solo fine di confermare la condanna risarcitoria, che le condotte ascritte all’imputato, da ritenersi provate, integravano gli estremi del reato contestatogli.

10.– Quanto ai parametri del diritto dell’Unione europea, deve considerarsi che il principio di presunzione di innocenza è parimenti presente anche nell’ordinamento dell’Unione stessa.

Esso è enunciato, anzitutto, dall’art. 48, comma 1, CDFUE, che, con norma corrispondente all’art. 6, paragrafo 2, CEDU, stabilisce che «[o]gni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata». Inoltre, tale tutela è riconosciuta dalla direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che – come già ricordato – è in corso di recepimento in forza della legge n. 53 del 2021.

L’art. 3 della direttiva prevede, infatti, che «[g]li Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza».

Il successivo art. 4, paragrafo 1, primo periodo, stabilisce che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole».

Quanto al significato e alla portata che ha il principio in esame nell’ordinamento europeo, essi sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli che il medesimo principio assume nell’ordinamento convenzionale, non potendo l’ordinamento dell’Unione riconoscere una protezione che sia meno estesa (art. 52, comma 3, CDFUE).

La Corte di giustizia ha precisato, al riguardo, che, per chiarire «come debba stabilirsi se una persona sia presentata o meno come colpevole in una decisione giudiziaria, ai fini dell’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343», occorre ispirarsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 6, paragrafo 2, CEDU (Corte di giustizia, sentenza 5 settembre 2019, in causa C-377/18).

11.– Tanto premesso sulla portata e sul significato del diritto alla presunzione di innocenza nell’ordinamento convenzionale e in quello europeo, occorre ora verificare se il giudice dell’appello penale, che, in applicazione della disposizione censurata, è chiamato a decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili dopo aver dichiarato l’estinzione del reato, debba effettivamente procedere ad una rivalutazione complessiva della responsabilità penale dell’imputato, nonostante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione e il proscioglimento dall’accusa penale.

In realtà – per le ragioni che si vengono ora ad esporre – si ha che, nella situazione processuale di cui alla disposizione censurata, che vede il reato essere estinto per prescrizione e quindi l’imputato prosciolto dall’accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure “incidenter tantum”, un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili.

12.– Anzitutto, un tale giudizio non è richiesto dal tenore testuale della disposizione censurata (art. 578 cod. proc. pen.) che, a differenza di quella immediatamente successiva (art. 578-bis cod. proc. pen.), non prevede il «previo accertamento della responsabilità dell’imputato».

Il confronto tra l’art. 578 e l’art. 578-bis cod. proc. pen. è rilevante proprio al fine di chiarire l’ambito della cognizione richiesta dalla norma sospettata di illegittimità costituzionale.

L’art. 578-bis concerne l’ipotesi in cui la “coda” di accertamento richiesto al giudice dell’impugnazione penale, in seguito alla sopravvenuta causa estintiva del reato (per prescrizione o amnistia), che travolge la condanna emessa nel grado precedente, concerne non già gli interessi civili, ma la sussistenza, o meno, dei presupposti di un provvedimento avente natura punitiva secondo i canoni interpretativi della giurisprudenza di Strasburgo.

Diversamente dall’art. 578, infatti, l’art. 578-bis presuppone, ai fini della sua applicazione, non già che nel grado precedente sia stata pronunciata condanna risarcitoria o restitutoria in favore della parte civile, bensì che sia stata ordinata la “confisca in casi particolari” di cui al primo comma dell’art. 240-bis del codice penale o di altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322-ter del codice penale.

In questo caso, pur rilevata la causa estintiva del reato, essendo il giudice chiamato a valutare i presupposti della conferma, o meno, di una sanzione di carattere punitivo ai sensi dell’art. 7 CEDU, la dichiarazione di responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli non solo è consentita, ma è anzi doverosa, poiché non si può irrogare una pena senza il giudizio sulla sussistenza di una responsabilità personale, sebbene sia sufficiente che tale giudizio risulti nella «sostanza dell’accertamento» contenuto nella motivazione della sentenza, non essendo necessario che assuma, in dispositivo, la «forma della pronuncia» di condanna (sentenza n. 49 del 2015; Corte EDU, sentenza G.I.EM. srl e altri contro Italia).

Il dettato dell’art. 578-bis cod. proc. pen. risponde a tale esigenza, imponendo al giudice del gravame penale, chiamato a decidere sulla confisca dopo aver rilevato la causa estintiva del reato, il «previo accertamento della responsabilità dell’imputato».

L’art. 578 cod. proc. pen., invece, non contiene analoga clausola, sicché l’ambito della cognizione da esso richiesta al giudice penale ai fini del provvedimento sull’azione civile, deve essere ricostruito dall’interprete, il quale, nel condurre l’esegesi convenzionalmente orientata della norma, ha come parametro convenzionale di riferimento proprio l’art. 6 CEDU, nella stabile e consolidata interpretazione datane dalla giurisprudenza di Strasburgo, nonché l’art. 48 CDFUE.

13.– Inoltre tale esegesi – a ben vedere – non trova ostacolo nella giurisprudenza di legittimità che il giudice rimettente richiama a fondamento delle sue censure di illegittimità costituzionale con riferimento sia ai rapporti tra l’immediata declaratoria delle cause di non punibilità e l’assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova (artt. 129 e 530, comma 2, cod. proc. pen.), sia all’individuazione del giudice competente per il giudizio di rinvio in seguito a cassazione delle statuizioni civili (art. 622 cod. proc. pen.), sia all’impugnabilità con revisione (art. 630, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.) della sentenza del giudice di appello di conferma della condanna risarcitoria in seguito a proscioglimento dell’imputato per prescrizione del reato.

Da una parte il principio di diritto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490) – secondo cui, in deroga alla regola generale, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta l’estinzione del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili – presuppone, per un verso, il carattere “pieno” o “integrale” della cognizione del giudice dell’impugnazione penale (il quale non può limitarsi a confermare o riformare immotivatamente le statuizioni civili emesse in primo grado, ma deve esaminare compiutamente i motivi di gravame sottopostigli, avuto riguardo al compendio probatorio e dandone poi conto in motivazione); per altro verso, non presuppone (né implica) che il giudice, nel conoscere della domanda civile, debba altresì formulare, esplicitamente o meno, un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato e debba effettuare un accertamento, principale o incidentale, sulla sua responsabilità penale, ben potendo contenere l’apprezzamento richiestogli entro i confini della responsabilità civile (in seguito, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 20 marzo-8 aprile 2013, n. 16155; sezione quarta penale, sentenze 21-28 novembre 2018, n. 53354 e 16 novembre-12 dicembre 2018, n. 55519).

Più in generale la giurisprudenza (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 18 luglio-27 settembre 2013, n. 40109), pronunciandosi sul vizio di motivazione che può inficiare la decisione emessa dal giudice di appello ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., ha affermato che, in conseguenza del rilievo del predetto vizio (e della susseguente cassazione della sentenza) il rinvio debba essere fatto sempre al giudice civile e non al giudice penale, in applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen., proprio in ragione, non già del mancato accertamento incidentale della responsabilità penale dell’imputato, ma dell’omesso esame dei motivi di gravame, ove la condanna risarcitoria confermata dal giudice di appello sia fondata sul mero presupposto della “non evidente estraneità” dell’imputato ai fatti di reato contestatigli.

La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tale principio (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 gennaio- 9 ottobre 2014, n. 42039; sezione sesta penale, sentenze 21 gennaio-6 febbraio 2014, n. 5888 e 23 settembre-6 novembre 2015, n. 44685): la cognizione del giudice dell’impugnazione penale, ex art. 578 cod. proc. pen., è funzionale alla conferma delle statuizioni civili, attraverso il completo esame dei motivi di impugnazione volto all’accertamento dei requisiti costitutivi dell’illecito civile posto a fondamento della obbligazione risarcitoria o restitutoria. Il giudice penale dell’impugnazione è chiamato ad accertare i presupposti dell’illecito civile e nient’affatto la responsabilità penale dell’imputato, ormai prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione.

Né ciò è revocato in dubbio dall’affermata ammissibilità della istanza di revisione avverso la pronuncia di condanna al risarcimento del danno ex art. 578 cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 ottobre 2018-7 febbraio 2019, n. 6141). L’ammissibilità di questa impugnazione straordinaria è conseguenza dell’ibridazione delle regole processuali che rimangono quelle del rito penale anche quando nel giudizio residua soltanto una domanda civilistica in ordine alla quale si è pronunciato il giudice dell’impugnazione ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. (in generale, sentenza n. 176 del 2019). Ma dall’applicazione delle regole di rito non può inferirsi che il giudice della revisione ex art. 630 cod. proc. pen., non diversamente dal giudice d’appello o di cassazione ex art. 578 cod. proc. pen., debba pronunciarsi sulla responsabilità penale di chi è stato definitivamente prosciolto. La responsabilità, oggetto della cognizione del giudice, è pur sempre quella da atto illecito ex art. 2043 del codice civile.

14.– Escluso ogni ostacolo sia nel dato testuale della disposizione censurata, sia nel diritto vivente risultante dalla giurisprudenza di legittimità, può accedersi all’interpretazione conforme agli indicati parametri interposti.

Il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.).

Con riguardo al “fatto” – come storicamente considerato nell’imputazione penale – il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno.

Nel contesto di questa cognizione rilevano sia l’evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale.

La mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza.

Il danno non patrimoniale ha il contenuto chiarito, da tempo, dalla giurisprudenza (a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 24 giugno-11 novembre 2008, n. 26972, n. 26793, n. 26794 e n. 26795) e quindi sussiste sia nei casi espressamente previsti dalla legge al di fuori delle fattispecie di reato (art. 2059 cod. civ.), sia nei casi di lesione “non bagatellare” di interessi della persona elevati a valori costituzionali, sia infine, in tutte le ipotesi di derivazione del pregiudizio da un illecito civile coincidente con una fattispecie penale (art. 185 cod. pen.). In quest’ultima ipotesi l’illecito civile, pur fondandosi sull’elemento materiale e psicologico del reato, tuttavia risponde a diverse finalità e richiama un distinto regime probatorio. L’esigenza di rispetto della presunzione di innocenza dell’imputato non preclude al giudice penale dell’impugnazione di effettuare tale accertamento onde liquidare anche il danno non patrimoniale di cui all’art. 185 cod. pen.

14.1.– La natura civilistica dell’accertamento richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell’impugnazione, differenziato dall’(ormai precluso) accertamento della responsabilità penale quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, emerge riguardo sia al nesso causale, sia all’elemento soggettivo dell’illecito.

Il giudice, in particolare, non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento in base alla regola dell’«alto grado di probabilità logica» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 10 luglio-11 settembre 2002, n. 30328). Per l’illecito civile vale, invece, il criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente” che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell’ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584).

14.2.– L’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 cod. proc. pen.).

L’applicazione dello statuto della prova penale è pieno e concerne sia i mezzi di prova (sarà così ammissibile e utilizzabile, ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall’art. 246 cod. proc. civ.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 cod. proc. pen. e non per interrogatorio diretto del giudice), le quali ricalcheranno pedissequamente quelle da osservare nell’accertamento della responsabilità penale: ove ne ricorrano i presupposti, dunque, il giudice dell’appello penale, rilevata l’estinzione del reato, potrà – o talora dovrà (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio- 4 giugno 2021, n. 22065) – procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.).

15.– L’approdo dell’interpretazione logico-sistematica della norma processuale censurata assicura, quanto al cosiddetto secondo aspetto della presunzione di innocenza, la conformità alla richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, mentre da un lato ha ammonito che, «se la decisione nazionale sul risarcimento dovesse contenere una dichiarazione che imputa la responsabilità penale alla parte convenuta, ciò solleverebbe una questione che rientra nell’ambito dell’articolo 6 [paragrafo] 2 della Convenzione» (Corte EDU, sentenza Pasquini contro Repubblica di San Marino), dall’altro lato ha anche avvertito che l’applicazione del diritto alla presunzione di innocenza in favore dell’imputato non deve ridondare a danno del diritto della vittima al risarcimento del danno (in particolare, Corte EDU, sentenza Ringvold contro Norvegia).

Una volta dichiarata la sopravvenuta causa estintiva del reato, in applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., l’imputato avrà diritto a che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, ma la parte civile avrà diritto al pieno accertamento dell’obbligazione risarcitoria.

Con la disposizione censurata il legislatore ha operato un bilanciamento tra le esigenze sottese all’operatività del principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale (che esclude la decisione sul capo civile nell’ipotesi di proscioglimento) e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato, costituito parte civile.

Quando il proscioglimento viene pronunciato in grado di appello o di legittimità, in seguito ad una valida condanna emessa nei gradi precedenti, la regola dell’accessorietà (che comporta il sacrificio dell’interesse della parte civile) subisce dei temperamenti, poiché essa continua ad essere applicabile nelle ipotesi di assoluzione nel merito e di sopravvenienza di cause estintive del reato riconducibili alla volontà delle parti (ad esempio remissione di querela), ma non trova applicazione allorché la dichiarazione di non doversi procedere dipenda dalla sopravvenienza di una causa estintiva del reato riconducibile a prescrizione o ad amnistia, nel qual caso prevale l’interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo, che continua dinanzi allo stesso giudice penale, sebbene sia mutato l’ambito della cognizione richiestagli, che va circoscritta alla responsabilità civile.

16.– In conclusione, il giudice dell’impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell’imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere – in applicazione della disposizione censurata – sull’impugnazione ai soli effetti civili, confermando, riformando o annullando la condanna già emessa nel grado precedente, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell’imputato per il reato estinto.

L’art. 578 cod. proc. pen. non viola il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza come declinato nell’ordinamento convenzionale dalla giurisprudenza della Corte EDU e come riconosciuto nell’ordinamento dell’Unione europea.

Pertanto, le sollevate questioni di legittimità costituzionale vanno dichiarate non fondate in riferimento agli evocati parametri interposti.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 del codice di procedura penale, sollevate – in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento allo stesso art. 117, primo comma, e all’art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – dalla Corte d’appello di Lecce con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021.