Sentenza n. 210 del 2015

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SENTENZA N. 210

ANNO 2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Paolo                           GROSSI                                                   

-           Giorgio                        LATTANZI                                              

-           Aldo                            CAROSI                                                   

-           Marta                           CARTABIA                                             

-           Mario Rosario              MORELLI                                                

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            

-           Giuliano                       AMATO                                                   

-           Silvana                         SCIARRA                                                

-           Daria                            de PRETIS                                               

-           Nicolò                          ZANON                                                   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, nel procedimento vertente tra Sky Italia srl, Autorità garante per le comunicazioni e Reti Televisive Italiane spa, con ordinanza del depositata il 17 febbraio 2014 e iscritta al n. 104 del registro ordinanze del 2014, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di Sky Italia srl, di Reti Televisive Italiane spa, nonché gli atti di intervento di Italia 7 Gold srl e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza del 6 ottobre 2015 il Giudice relatore Giuliano Amato;

uditi gli avvocati Felice Vaccaro per Italia Sette Gold srl, Roberto Mastroianni, Luisa Torchia e Mario Siragusa per Sky Italia srl, Francesco Saverio Marini e Gian Michele Roberti per Reti Televisive Italiane spa e l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− Con ordinanza del 17 febbraio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 41 e 76 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

La disposizione censurata prevede che «La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l’anno 2010 il 16 per cento, per l’anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall’anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d’orologio; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva».

La disposizione in esame stabilisce quindi − per le emittenti televisive a pagamento − limiti orari alla trasmissione di spot pubblicitari più restrittivi di quelli stabiliti per le emittenti cosiddette "in chiaro”.

Ad avviso del giudice rimettente, essa si porrebbe in contrasto in primo luogo con l’art. 76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto innovativa e non giustificata da alcuna previsione della stessa legge delega, né da una ratio implicita della direttiva cui la disposizione dovrebbe dare attuazione.

Viene, inoltre, denunciato il contrasto con l’art. 3 Cost., per l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato in cui le stesse operano; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione incide sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento in difetto di una chiara ed inequivoca finalità sociale, che giustifichi l’intervento normativo in questione.

2.− Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto da Sky Italia spa (di seguito, «Sky») al fine di ottenere l’annullamento della delibera con cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha irrogato alla ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria, in conseguenza del superamento dei limiti di affollamento pubblicitario stabiliti dall’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005.

2.1.– Il TAR Lazio riferisce di avere rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), fatto a Roma il 25 marzo 1957, alcune questioni interpretative, relative alla compatibilità del richiamato art. 38, comma 5, con la normativa comunitaria. Tali questioni sono state risolte con sentenza del 18 luglio 2013 in causa C-234/12, in cui la Corte di giustizia ha affermato che la normativa italiana sulla pubblicità televisiva – nel prescrivere limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro – è conforme al diritto dell’Unione, sempre che sia rispettato il principio di proporzionalità, circostanza che deve essere verificata dal giudice del rinvio.

2.2.− Nel giudizio, riassunto a cura della parte ricorrente, il TAR Lazio ritiene la questione non manifestamente infondata, in relazione alla violazione dei parametri di cui all’art. 76 Cost. e agli artt. 3 e 41 Cost.

2.2.1.− Quanto alla violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega, il TAR Lazio osserva che la legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee − Legge comunitaria 2008), ha delegato il Governo ad adottare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione, tra le altre, alla direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

I principi e i criteri direttivi generali della delega sono previsti all’art. 2 della legge n. 88 del 2009, ma è l’art. 26 a dettare i criteri specifici, i quali sarebbero riferiti, peraltro, alla sola attività di product placement e alla relativa disciplina sanzionatoria.

D’altra parte, la direttiva da attuare, pur contenendo puntuali disposizioni in tema di pubblicità televisive e televendite, non conterrebbe la previsione di alcuna differenziazione – quanto ai tetti di affollamento pubblicitario − tra emittenti televisive a pagamento ed emittenti televisive in chiaro.

E tuttavia il nuovo art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005, come sostituito dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, mentre lascia invariati i limiti di affollamento pubblicitario per la concessionaria del servizio pubblico, nonché quelli delle emittenti televisive in chiaro, introdurrebbe per la prima volta − riguardo ai limiti di affollamento pubblicitario − una differenziazione tra emittenti in chiaro ed emittenti a pagamento.

Ad avviso del giudice a quo, il legislatore delegato non è stato autorizzato ad introdurre alcuna modifica ulteriore rispetto a quelle previste dalla direttiva n. 2007/65/CE. L’ambito della delega sarebbe espressamente circoscritto alle modifiche che tale direttiva ha apportato alla precedente. Viceversa, la previsione di limiti più stringenti per le emittenti a pagamento sarebbe una misura del tutto innovativa, non giustificata da alcuna previsione, né da alcuna ratio implicita, della direttiva da attuare, né della legge delega.

Tale natura innovativa impedirebbe di ricondurre la disposizione in esame ad un’ipotesi di delega di coordinamento, la quale consente interventi modificativi solo in via strumentale, ossia ove necessario ai fini del coordinamento della normativa previgente con quella introdotta con la legge delega. Resterebbe esclusa, pertanto, la possibilità di introdurre per questa via innovazioni sostanziali alla disciplina previgente.

Inoltre, ad avviso del giudice a quo, la «revisione» o il «riordino», in quanto possono comportare l’introduzione di innovazioni della preesistente disciplina, esigono comunque la previsione di principi e criteri direttivi, idonei a circoscrivere le scelte discrezionali del Governo.

Viene quindi richiamata la giurisprudenza costituzionale in merito ai rapporti fra legge delega e norma attuativa, evidenziando la necessità che l’interpretazione dei principi e dei criteri direttivi sia effettuata in riferimento alla ratio della legge delega, tenendo conto del contesto normativo in cui gli stessi sono inseriti e delle finalità che ispirano la delega ed suoi i principi e i criteri direttivi.

Il giudice a quo si dichiara consapevole che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato e che l’art. 76 Cost. non osta all’emanazione di norme che rappresentino un ordinario sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante; nell’attuazione della delega è quindi possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le scelte conseguenti, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi.

Tuttavia, ad avviso del TAR rimettente, l’innovazione introdotta dal d.lgs. n. 44 del 2010 non sarebbe qualificabile come operazione di «completamento», né di «riempimento». La disposizione censurata non troverebbe, infatti, alcun «ancoraggio» nella legge delega, risultando viceversa adottata in violazione dei principi e criteri direttivi della stessa.

2.2.2.− Quanto al denunciato contrasto con l’art. 3 Cost., il TAR Lazio evidenzia che con la disposizione in esame viene introdotta un’ingiustificata differenziazione tra i tetti orari di affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti televisive in chiaro. Tale differenziazione non terrebbe conto dell’unicità del mercato di riferimento.

2.2.3.− Riguardo alla violazione dell’art. 41 Cost., il TAR Lazio rileva che la disposizione censurata inciderebbe oggettivamente sulla libertà di iniziativa economica dell’emittente televisiva a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità generale, che giustifichi la misura in questione.

3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

3.1.− L’Avvocatura generale dello Stato osserva che effettivamente non si rinvengono, né fra i criteri di cui all’art. 2, né fra quelli di cui all’art. 26 della legge n. 88 del 2009, specifiche indicazioni quanto ai limiti di affollamento pubblicitario nei rapporti fra le emittenti televisive a pagamento e quelle gratuite. Ciò non significherebbe, tuttavia, che il legislatore delegato abbia ecceduto la delega. Infatti, sia l’oggetto, sia i principi ed i criteri direttivi, vanno rinvenuti attraverso una valutazione complessiva della disposizione delegante, da coordinare con la normativa europea da attuare, tenendo presente che quanto più i principi ed i criteri direttivi sono analitici, tanto più ridotti risultano i margini di discrezionalità del legislatore delegato.

I criteri della legge delega vanno, quindi, coordinati con i precetti posti dalla direttiva europea di cui la norma censurata costituisce attuazione. Nel caso in esame, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il legislatore delegato avrebbe correttamente applicato tali criteri, circoscrivendo l’ambito della delega, così da perseguire le finalità che l’hanno determinata, ma anche consentendo di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare, nella fisiologica attività di "riempimento” che lega i due livelli normativi.

D’altra parte, la Corte di giustizia, nella sentenza resa nell’ambito del medesimo giudizio, ha affermato che «per garantire un’integrale ed adeguata protezione degli interessi della categoria di consumatori costituita dai telespettatori, gli Stati membri conservano la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose e, in alcuni casi, condizioni differenti nei settori coordinati da tale direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto dell’Unione e, in particolare, ai suoi principi generali».

Nella normativa europea di riferimento, sarebbe quindi centrale la tutela dell’utente, quale consumatore, ed è in questa prospettiva che la Corte di giustizia inquadra il tema dei limiti di affollamento pubblicitario, rilevando che le disposizioni che prevedono tali limiti mirano ad instaurare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi degli aventi diritto, ossia gli autori e i realizzatori, e della categoria di consumatori, rappresentata dai telespettatori, dall’altro.

Nel caso di specie, la Corte di giustizia ha ritenuto che l’equilibrata tutela di tali interessi sia diversa per le emittenti a pagamento rispetto alle emittenti in chiaro, essendo diverse le rispettive posizioni sul piano finanziario. Mentre le prime ricavano introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, le seconde non beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi con le entrate della pubblicità televisiva o mediante altre fonti. Una simile differenza è, in linea di massima, tale da porre le emittenti televisive a pagamento in una situazione oggettivamente diversa per quanto riguarda l’incidenza economica dei limiti di affollamento pubblicitario sulle modalità di finanziamento delle emittenti stesse.

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe, dunque, la stessa disciplina europea a prevedere, quale strumento di tutela del consumatore, la differenziazione fra i limiti pubblicitari fra le emittenti televisive in chiaro e quelle a pagamento.

Il legislatore delegato, nell’attuare la direttiva, avrebbe avuto come criterio di riferimento proprio questa esigenza di tutela del consumatore. Tale criterio sarebbe stato, quindi, legittimamente trasposto nell’art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005. Risulterebbe, pertanto, smentita la premessa logica del TAR Lazio, secondo la quale la previsione di limiti differenziati e più restrittivi per le emittenti a pagamento costituirebbe misura del tutto innovativa ed eccedente i limiti della delega.

3.2.− D’altra parte, con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato osserva che non contrasta con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza prevedere discipline differenti per situazioni diverse. Il principio generale di uguaglianza richiede, da un lato, l’eguaglianza di trattamento a parità di condizioni e, dall’altro, una regolamentazione differenziata, ma non arbitraria, per diversità di situazioni.

Le emittenti televisive in chiaro e quelle a pagamento sarebbero soggetti diversi, operanti in mercati diversi e in situazioni diverse. Diversa sarebbe la relazione tra operatori e consumatori; diverse le modalità di finanziamento, e quindi gli obiettivi degli operatori (ricavi pubblicitari a fronte di ricavi dagli abbonamenti); diversa anche l’offerta, sul piano qualitativo e quantitativo, di contenuti televisivi.

La previsione di discipline differenziate per situazioni diverse, a tutela dei consumatori, non sarebbe dunque in contrasto, bensì in sintonia con il principio di parità di trattamento.

3.3.− Quanto alla dedotta violazione dell’art. 41 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità della questione per la genericità dell’ordinanza di rinvio.

Nel merito, la difesa statale osserva che la disciplina nazionale è attuazione di quella europea, nella quale la tutela dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori, contro l’eccessiva pubblicità costituisce un aspetto essenziale.

Nel caso di specie, i principi e i criteri direttivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario mirano ad instaurare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive, da un lato, e degli interessi degli utenti, dall’altro, al fine di garantire un bilanciamento tra le contrapposte posizioni, in ossequio alla stessa direttiva comunitaria.

4.− Con memoria depositata il 15 luglio 2014, si è costituita la società Reti televisive italiane spa (di seguito, «RTI spa»), parte controinteressata nel giudizio a quo, la quale ha chiesto che sia dichiarata la manifesta infondatezza della questione sollevata dal TAR Lazio.

4.1.− Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 76 Cost., RTI spa osserva che l’art. 26 della legge n. 88 del 2009, riferito specificamente alla direttiva n. 2007/65/CE, prevede che il recepimento abbia luogo «attraverso le opportune modifiche al testo unico della radiotelevisione, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177». Il Governo è stato inoltre delegato ad introdurre nel decreto legislativo le modifiche «opportune», per assicurare, secondo la discrezione del legislatore delegato, la coerenza dell’ordinamento interno alla ratio della direttiva.

Ad avviso di RTI spa, la scelta del legislatore delegato sarebbe corretta, in considerazione non solo dell’ampiezza delle modificazioni apportate alla precedente direttiva, ma anche della circostanza che, nel dettare una nuova cornice normativa in materia di pubblicità radiotelevisiva, la direttiva n. 2007/65/CE ha previsto norme di armonizzazione minimale, lasciando agli Stati il compito di intervenire con opportune previsioni di dettaglio. La legge delega ha pertanto riconosciuto al Governo la necessaria discrezionalità ai fini del recepimento della precitata direttiva.

Si sottolinea che la ratio delle previsioni in tema di affollamento pubblicitario consisterebbe nella tutela dei telespettatori (e degli autori dei programmi), avverso l’eccessivo affollamento pubblicitario, e nel bilanciamento con gli interessi di natura finanziaria delle emittenti. Ciò troverebbe conferma nella pronuncia della Corte di giustizia resa nel caso in esame, laddove si riconosce che la normativa nazionale che prevede la modulazione di tetti di affollamento pubblicitario si iscrive nell’attuazione della direttiva da parte dello Stato membro e forma oggetto di controllo di compatibilità ai sensi della stessa direttiva e del principio di eguaglianza. La medesima pronuncia ha affermato la compatibilità della disciplina nazionale alla direttiva, tenuto conto delle diverse esigenze di tutela che, rispettivamente, connotano le emittenti a pagamento e quelle in chiaro.

4.2.− Per le medesime ragioni, RTI spa evidenzia l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale formulata in riferimento all’art. 3 Cost. Viene in particolare rilevato che la pronuncia della Corte di giustizia ha escluso il contrasto della norma interna con il principio europeo di parità di trattamento, in quanto gli interessi coinvolti dall’emittenza gratuita ed a pagamento sono diversi, sia dal lato dell’utente, sia da quello dell’emittente.

4.3.− Quanto all’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale relativo alla violazione dell’art. 41 Cost., RTI spa osserva che l’intervento normativo in esame sarebbe giustificato da una chiara ed inequivoca finalità sociale, individuata dalla stessa Corte di giustizia nell’esigenza di assicurare la parità di trattamento in senso sostanziale, attraverso la modulazione dei tetti di affollamento pubblicitario rispetto a categorie di emittenti, le quali versino in condizioni oggettivamente diverse. Verrebbe infatti correttamente prevista una tutela dei consumatori di servizi televisivi a pagamento contro la "doppia imposizione” (canone di abbonamento − esposizione alla pubblicità in misura massima pari a quella consentita alla televisione gratuita). Anche tale censura sarebbe pertanto infondata.

4.4.− Nella memoria depositata il 14 settembre 2015, RTI spa ha eccepito l’inammissibilità della questione, evidenziando che − per effetto dell’intervento puramente demolitorio invocato dal giudice a quo − la normativa residua risulterebbe inficiata da vizi di costituzionalità assai più gravi e intollerabili di quelli ravvisati dallo stesso remittente.

Infatti, in forza del residuo articolato, le uniche emittenti assoggettate ai limiti di affollamento pubblicitario sarebbero la concessionaria pubblica (4% dell’orario settimanale di programmazione e 12% ogni ora) e le emittenti in chiaro (15% dell’orario giornaliero di programmazione e 18% ogni ora).

Verrebbe meno ogni limitazione per le emittenti a pagamento. Esse infatti non potrebbero essere ricondotte – in via di interpretazione estensiva − entro il perimetro delle norme recate dagli altri commi, le quali non sono generali, ma ciascuna espressamente riferita alla concessionaria pubblica o alle emittenti in chiaro; e neppure potrebbero esservi ricondotte in via analogica, posta la totale diversità delle fattispecie.

4.4.1.− RTI spa deduce, inoltre, che la normativa di risulta si porrebbe, altresì, in contrasto con la normativa europea, nonché con l’obbligo di dare piena e completa attuazione alla direttiva 10 marzo 2010, n. 2010/13/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi – direttiva sui servizi di media audiovisivi), che ha sostituito la precedente direttiva n. 2007/65/CE.

Infatti, se la Corte procedesse all’annullamento dell’art. 38, comma 5, così come richiesto dal remittente, si creerebbe un ambito soggettivo − quello delle emittenti a pagamento − sottratto a qualsivoglia limite di affollamento pubblicitario. Siffatta eventualità sarebbe in contrasto con la normativa europea, la quale impone un tetto massimo a tutte le emittenti, sia pur modulabile dagli Stati membri. Ciò porrebbe l’Italia in una situazione di inadempimento rispetto all’obbligo di attuazione della direttiva (a termine peraltro già ampiamente scaduto) e, dunque, di violazione degli obblighi europei.

4.4.2.− Nel merito, RTI spa ha ribadito le ragioni a sostegno del’infondatezza della violazione dell’art. 76 Cost., evidenziando che le scelte del legislatore delegato sarebbero già state riconosciute pienamente aderenti alla direttiva n. 2007/65/CE dalla Corte di giustizia, la quale ha stabilito che la differenziazione sancita dalle norme nazionali costituisce legittima espressione della discrezionalità degli Stati, coerente con i contenuti e gli obiettivi della disciplina europea.

In particolare, con specifico riguardo alla disciplina dell’affollamento pubblicitario, le modifiche introdotte dalla direttiva n. 2007/65/CE avrebbero esteso la discrezionalità degli Stati membri, in considerazione dell’esigenza di assicurare adeguate risorse finanziarie alla televisione in chiaro, come risulterebbe anche dai lavori preliminari della stessa direttiva.

4.4.3.− RTI ribadisce l’infondatezza delle ulteriori censure, relative alla violazione degli artt. 3 e 41 Cost., evidenziando che la norma in esame non solo non sarebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, ma sarebbe viceversa illegittimo (proprio in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.) l’assoggettamento di tutte le emittenti a un medesimo limite, esito cui chiaramente tende il petitum del giudice rimettente. Si realizzerebbe, infatti, un trattamento uguale di situazioni obiettivamente diverse, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.

Per le stesse ragioni − connesse alla oggettiva differenza fra emittenti televisive a pagamento ed emittenti in chiaro − sarebbe configurabile, in modo inequivoco, la «finalità sociale» che giustifica la misura normativa in esame, anche ai fini dell’art. 41 Cost.

5.− Con memoria depositata l’11 luglio 2014, è intervenuta nel giudizio di costituzionalità la società Italia 7 Gold srl, chiedendo che la questione sollevata dal TAR Lazio venga dichiarata irrilevante ed infondata.

5.1.− La società interveniente riferisce di gestire dal 1999 la trasmissione di programmi e di pubblicità nazionale in contemporanea da parte di concessionari privati per la radiotelediffusione in ambito locale. La società riferisce di essere soggetta, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, a limiti di affollamento pubblicitario identici a quelli delle emittenti in chiaro in ambito nazionale.

Sarebbe pertanto ravvisabile, in capo alla interveniente, un interesse qualificato ad opporsi ad iniziative giudiziarie di soggetti concorrenti, che appaiono in contrasto al principio di equilibrata tutela degli interessi in gioco, delle emittenti, degli inserzionisti, degli autori dei programmi e dei consumatori (i telespettatori); si sottolinea, a questo riguardo, che – in riferimento ai principi e agli obiettivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo − gli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento sono diversi da quelli delle emittenti televisive in chiaro, le quali non beneficiano dei proventi degli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori.

L’interesse all’intervento dell’esponente, ancorché estranea al giudizio a quo, per sostenere la legittimità della norma in discussione, sarebbe quindi inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. Infatti, dall’accoglimento della questione potrebbe derivare un aumento della percentuale di spot pubblicitari consentiti a Sky, con grave pregiudizio per l’attività della società interveniente. Ciò costituirebbe altresì violazione degli artt. 21 e 41 Cost.

5.2.− Nel merito, viene contestata la dedotta discriminazione delle emittenti a pagamento, rispetto alle emittenti in chiaro; d’altra parte, un aumento della percentuale di pubblicità consentita alle emittenti a pagamento sarebbe inammissibile, in quanto sarebbe pregiudicata la raccolta degli altri operatori nazionali in chiaro, i quali non possono contare sul sostegno proveniente dai rapporti di abbonamento.

Si osserva inoltre che, come affermato dalla Corte di giustizia, la direttiva 3 ottobre 1989, n. 89/552/CEE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi – direttiva sui servizi dei media audiovisivi) non ha l’obiettivo di una completa armonizzazione, ma stabilisce solo «prescrizioni minime»; gli Stati membri conservano, quindi, «la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media», «di rispettare norme più particolareggiate e più rigorose e, in alcuni casi, condizioni differenti nei settori coordinati da tale direttiva». Ciò dimostrerebbe l’infondatezza della denunciata violazione dell’art. 76 Cost., per eccesso di delega.

Considerazioni analoghe varrebbero anche in ordine all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., da ritenersi insussistente, stante la facoltà del legislatore nazionale di imporre condizioni differenti, nel rispetto delle direttive comunitarie.

L’eventuale accoglimento della questione sollevata dal TAR Lazio si porrebbe perciò in contrasto con gli obiettivi delle norme comunitarie e nazionali relative all’affollamento pubblicitario, nonché con gli artt. 41 e 21 Cost., poiché arrecherebbe un danno irreparabile ai soggetti autorizzati alle trasmissioni in contemporanea e non terrebbe conto dell’utilità sociale di tale attività, in quanto espressione del pluralismo televisivo.

5.3.− In prossimità dell’udienza pubblica, Italia 7 Gold srl ha depositato una memoria in cui ha insistito perché la questione di legittimità dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005 sia dichiarata irrilevante, o comunque infondata.

5.3.1.− Sono stati ribaditi gli argomenti a sostegno della legittimazione all’intervento, in considerazione della titolarità di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale di cui si discute, interesse suscettibile di essere inciso direttamente dall’esito del giudizio costituzionale.

L’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale determinerebbe, infatti, un aumento dei quantitativi di spot pubblicitari trasmessi da Sky e finirebbe per erodere la già limitata quota di pubblicità nazionale fino ad oggi conquistata dalla parte interveniente. Da ciò conseguirebbe, da un lato, la violazione del legittimo affidamento in ordine alla vigenza della disposizione censurata, dall’altro, l’esposizione della stessa interveniente al rischio della risoluzione dei rapporti contrattuali con gli operatori consorziati, così mettendo in pericolo la sua stessa sopravvivenza.

6.− La società Sky Italia srl è intervenuta nel giudizio di costituzionalità con memoria depositata il 15 luglio 2014, in cui ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR per il Lazio.

6.1.− La parte ricorrente ritiene, in primo luogo, che l’introduzione, da parte del legislatore delegato, di una disciplina dei limiti di affollamento pubblicitario differenziata per le emittenti a pagamento violi l’art. 76 Cost., sotto due diversi profili: l’eccesso di delega rispetto all’oggetto e la violazione dei principi e dei criteri direttivi.

Sotto il primo profilo, si osserva che l’oggetto della delega consiste nel dettare le «norme occorrenti per dare attuazione», tra le altre, alla direttiva n. 2007/65/CE, recante modifiche alla direttiva n. 89/552/CEE in materia di esercizio delle attività televisive (art. l, comma l, della legge n. 88 del 2009). Ad avviso di Sky, i principi e i criteri direttivi per l’esercizio della delega, non prevedono che il legislatore delegato introduca alcuna modifica ulteriore rispetto a quelle apportate dalla direttiva n. 2007/65/CE alla direttiva n. 89/552/CEE. Un intervento sulla disciplina della comunicazione e della pubblicità commerciale, coperta da riserva di legge (artt. 21 e 41 Cost.), non avrebbe potuto realizzarsi in assenza di un preciso riferimento nella legge delega.

La disposizione censurata sarebbe estranea rispetto alle previsioni della direttiva n. 2007/65/CE, la quale nulla dispone in punto di differenziazione dei tetti di affollamento pubblicitario tra emittenti televisive in chiaro ed emittenti televisive a pagamento.

Tale differenza di trattamento sarebbe in aperta contraddizione con gli obiettivi di liberalizzazione e di incremento della concorrenza che la direttiva n. 2007/65/CE ha voluto perseguire nel modificare la precedente disciplina della pubblicità televisiva. In particolare, nel considerando n. 57 della direttiva viene ritenuto ingiustificato «il mantenimento di una normativa dettagliata in materia di inserimento di spot pubblicitari a tutela dei telespettatori», in considerazione delle «maggiori possibilità per gli spettatori di evitare la pubblicità grazie al ricorso a nuove tecnologie quali i videoregistratori digitali personali ed all’aumento della scelta di canali».

La previsione di limiti più stringenti per le emittenti televisive a pagamento costituisce quindi una misura innovativa e non giustificata da alcuna previsione, né da alcuna ratio implicita, della legge di delega. Di qui il suo contrasto con l’art. 76 Cost.

6.2.− Con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., Sky ritiene del tutto ingiustificata la differenziazione dei limiti orari di affollamento pubblicitario rispettivamente applicabili alle emittenti televisive a pagamento e a quelle in chiaro.

L’unicità del mercato della raccolta pubblicitaria sul mezzo televisivo rappresenterebbe un dato acquisito nella prassi applicativa nazionale e europea, non sussistendo alcuna differenza tra modelli aziendali che giustifichi l’imposizione di limiti differenziati per le emittenti a pagamento e le emittenti in chiaro.

In definitiva, la norma censurata avrebbe natura discriminatoria e realizzerebbe, come vero obiettivo, una conformazione del mercato della raccolta pubblicitaria sul mezzo televisivo diversa da quella che si realizzerebbe in base alle pure dinamiche concorrenziali. L’effetto sarebbe quello di consolidare i vincoli all’ingresso o alla crescita dei concorrenti nel mercato italiano e quindi di perpetuare, ovvero di rafforzare, la situazione di stabile duopolio, tradizionalmente rinvenuta nel settore.

Una giustificazione dell’intervento in esame non sarebbe ravvisabile nella finalità di garantire gli utenti delle emittenti a pagamento. Infatti, tale finalità di tutela non si concilierebbe con la libertà del telespettatore stesso di accedere al rapporto − di tipo sinallagmatico e consensuale − che lo lega alla piattaforma televisiva a pagamento. Ad avviso della società ricorrente, la possibilità di esercitare il diritto di recesso varrebbe ad attribuire al consumatore il più efficace mezzo di tutela nei confronti dell’eccessiva pubblicità. L’esigenza di protezione degli utenti sarebbe, quindi, inidonea a fondare la legittimità del trattamento differenziato.

Inoltre, il canone della ragionevolezza risulterebbe violato poiché la misura adottata risulterebbe palesemente sproporzionata e incongrua.

In primo luogo, la norma non sarebbe giustificata da alcuna esigenza di tutela di interessi di rango costituzionale. Sicché nell’eventuale bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica, sotto il profilo della capacità di vendita degli spazi pubblicitari, e interessi di rango inferiore, questi ultimi risulterebbero in ogni caso recessivi.

D’altra parte, una misura che rafforza la posizione dominante di un operatore, Mediaset, già favorito nel mercato della pubblicità televisiva dalla posizione di debolezza del principale concorrente (RAI), non realizzerebbe l’interesse superiore dei telespettatori a confrontarsi con un sistema radiotelevisivo pluralistico e concorrenziale.

6.3.− La disposizione dell’art. 38, comma 5, si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 41 Cost., incidendo sulla libertà di iniziativa economica dell’emittente televisiva a pagamento, in assenza di alcuna chiara finalità sociale che giustifichi un simile intervento.

L’inasprimento dei limiti orari di affollamento pubblicitario determinerebbe, a carico delle emittenti televisive a pagamento, una significativa limitazione della capacità di vendita degli spazi pubblicitari agli inserzionisti − che costituisce pacificamente un’attività di impresa, tutelata dall’art. 41 Cost. − in assenza di ragioni di utilità sociale dichiarate o, comunque, implicitamente ricavabili dall’intervento normativo nel suo complesso.

La disposizione censurata avrebbe ingiustamente favorito − sul mercato della raccolta pubblicitaria − le emittenti televisive in chiaro, avvantaggiando in particolare il soggetto che − ancor prima dell’introduzione della misura in esame − già deteneva una posizione dominante all’interno di tale mercato, con conseguente violazione dell’art. 41 Cost.

6.4.− In prossimità dell’udienza pubblica, Sky ha depositato una memoria in cui ha eccepito l’inammissibilità dell’intervento di Italia 7 Gold srl nel giudizio incidentale di costituzionalità, evidenziando che la stessa non sarebbe titolare di un interesse immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

6.4.1.− Con riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., la società ricorrente ha ribadito le ragioni a sostegno della ritenuta estraneità della norma censurata sia rispetto alle previsioni della direttiva n. 2007/65/CE, sia rispetto alla legge delega n. 88 del 2009.

Quanto al primo profilo, Sky ritiene che la direttiva non preveda affatto la distinzione in base alla tipologia di operatori. Nessuna disposizione consentirebbe, d’altra parte, l’introduzione di misure conformative della libertà di impresa e del libero dispiegarsi della concorrenza, come la previsione di limiti di affollamento pubblicitario differenziati. Ad avviso della società ricorrente, la direttiva persegue, all’opposto, obiettivi di liberalizzazione.

Quanto al secondo profilo, viene rilevato che la possibilità assegnata al legislatore delegato di apportare «opportune modifiche al testo unico della radiotelevisione» per recepire le disposizioni europee in materia di product placement non fornirebbe alcuna copertura alla norma censurata, la quale si presenterebbe come innovativa ed eccentrica, sia rispetto alla materia del product placement, sia rispetto alle previsioni della direttiva n. 2007/65/CE. Ad avviso della ricorrente, la disposizione censurata non costituirebbe affatto una disposizione «occorrente» a dare attuazione alla direttiva n. 2007/65/CE, come invece richiede l’art. l della legge delega.

6.4.2.− Con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., Sky ribadisce che la disparità di trattamento operata attraverso i limiti di affollamento pubblicitario differenziati sarebbe tanto più grave in considerazione dell’intenzione del legislatore di garantire alle emittenti televisive private maggiori entrate pubblicitarie, nonché della circostanza che la disposizione in esame finirebbe per rappresentare una misura di protezione in favore del gruppo Mediaset, già dominante nel mercato della raccolta pubblicitaria.

6.4.3.− Infine, quanto alla denunciata violazione dell’art. 41 Cost., Sky esclude che ragioni di utilità sociale giustificative della misura controversa siano ravvisabili nell’esigenza di tutelare i telespettatori dagli eccessi di pubblicità e, in particolare, di offrire una speciale protezione agli utenti delle emittenti televisive a pagamento, soggetti ad una sorta di doppia imposizione (canone di abbonamento – esposizione alla pubblicità in misura massima pari a quella consentita alla televisione gratuita). Infatti, la presunta esigenza di una tutela rafforzata degli utenti delle emittenti a pagamento non sarebbe contenuta né nel testo della norma censurata, né emergerebbe dai suoi atti preparatori.

Considerato in diritto

1.− Con ordinanza del 17 febbraio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 41 e 76 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

La disposizione censurata prevede che «La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l’anno 2010 il 16 per cento, per l’anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall’anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d’orologio; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva».

La disposizione in esame stabilisce quindi − per le emittenti televisive a pagamento − limiti orari alla trasmissione di spot pubblicitari più restrittivi di quelli previsti per le emittenti cosiddette "in chiaro”.

Ad avviso del giudice rimettente, essa si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto innovativa e non giustificata da alcuna previsione della legge delega, né da una ratio implicita della direttiva cui la disposizione dovrebbe dare attuazione.

Viene, inoltre, denunciato il contrasto con l’art. 3 Cost., per l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato di riferimento; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione inciderebbe sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità sociale che giustifichi l’intervento normativo in questione.

2.− In via preliminare, va ribadito quanto statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in pubblica udienza, allegata al presente provvedimento, in ordine all’inammissibilità dell’intervento spiegato dalla società Italia 7 Gold srl.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale, le parti del giudizio principale.

L’intervento di soggetti estranei a quest’ultimo giudizio è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanza emessa all’udienza del 7 ottobre 2014, confermata con sentenza n. 244 del 2014; ordinanza letta all’udienza dell’8 aprile 2014, confermata con sentenza n. 162 del 2014; ordinanza letta all’udienza del 23 aprile 2013, confermata con sentenza n. 134 del 2013; ordinanza letta all’udienza del 9 aprile 2013, confermata con sentenza n. 85 del 2013).

Nella specie, Italia 7 Gold srl non è parte del giudizio principale, sorto a seguito del ricorso, proposto da Sky Italia srl, per l’annullamento della delibera con cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha irrogato alla ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria, né risulta essere titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

Da quanto esposto consegue l’inammissibilità dell’intervento indicato.

3.− Sempre in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato, in riferimento alla denunciata violazione dell’art. 41 Cost., è infondata.

Non sussiste, infatti, la lamentata genericità dell’ordinanza di rinvio.

La fattispecie concreta risulta descritta in modo sufficiente (per quanto rileva ai fini di causa) e viene individuato con chiarezza il petitum, volto ad ottenere la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, ritenuta in contrasto (tra gli altri) con il parametro costituzionale dell’art. 41 Cost., in quanto inciderebbe oggettivamente sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità generale, atta a giustificare la misura in questione.

4.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005, per violazione dell’art. 3 Cost., deve essere, invece, dichiarata inammissibile.

4.1.− Secondo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, l’introduzione di limiti orari di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti televisive a pagamento, rispetto a quelli per le emittenti televisive in chiaro, non terrebbe conto dell’unicità del mercato di riferimento e costituirebbe, pertanto, una misura discriminatoria, che penalizza in maniera ingiustificata le emittenti televisive a pagamento.

Il parametro di cui all’art. 3 Cost. viene invocato dal giudice rimettente sotto il duplice versante della violazione del principio di eguaglianza e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata.

4.2.− Al fine di eliminare tale ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento, il giudice a quo richiede un intervento puramente demolitorio della disposizione dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005.

Ne consegue che, laddove la stessa fosse annullata, le uniche emittenti televisive assoggettate a specifici limiti di affollamento pubblicitario sarebbero la concessionaria pubblica (art. 38, comma 1) e le emittenti in chiaro (art. 38, comma 2).

Verrebbe meno, quindi, ogni limitazione per le emittenti a pagamento, le quali non potrebbero essere ricondotte nell’ambito applicativo delle altre disposizioni dell’art. 38, che specificamente riguardano la concessionaria pubblica e le emittenti in chiaro.

Anche laddove si ritenessero applicabili i limiti previsti «in ogni caso» dal precedente comma 4 dell’art. 38, tale soluzione non sarebbe coerente con il petitum formulato dal giudice a quo, volto ad realizzare il recupero della legalità costituzionale attraverso una piena equiparazione dei limiti di affollamento pubblicitario per le emittenti a pagamento e per quelle in chiaro.

4.3.− In definitiva, l’esito prefigurato dal rimettente – l’equiparazione delle emittenti a pagamento a quelle in chiaro, quanto ai limiti di affollamento pubblicitario − non potrebbe scaturire dalla caducazione dal contesto normativo dell’art. 38 della disposizione censurata. L’intervento correttivo invocato, afferente al solo comma 5, non varrebbe a ricondurre ad omogeneità le situazioni poste a raffronto e sarebbe, quindi, inidoneo a garantire la realizzazione del risultato avuto di mira dal rimettente, conseguibile non per decisione della Corte, ma attraverso la rimodulazione legislativa dei limiti di affollamento.

Ciò è motivo di inammissibilità della questione (sentenze n. 163 e n. 30 del 2014; ordinanze n. 200 del 2000; n. 259 del 1998).

Tale profilo di inammissibilità, in quanto fondato sulla ritenuta inidoneità dell’intervento invocato ad eliminare il prospettato vulnus al principio dell’art. 3 Cost., non si estende alle ulteriori censure formulate dal rimettente in riferimento a diversi parametri costituzionali, che devono pertanto essere esaminate partitamente.

5.− Nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., non è fondata.

5.1.− La previsione di limiti più stringenti di affollamento pubblicitario per le emittenti a pagamento costituirebbe, ad avviso del giudice a quo, violazione dei principi e criteri della legge delega, in quanto si tratterebbe di una misura del tutto innovativa, non giustificata da alcuna previsione espressa, né da alcuna ratio implicita della legge delega (legge 7 luglio 2009, n. 88, recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee − Legge comunitaria 2008»), e della stessa direttiva alla quale il d.lgs. n. 44 del 2010 ha dato attuazione.

5.2.− In linea generale, va ribadito come, secondo la giurisprudenza costituzionale costante, il contenuto della delega non possa essere individuato senza tenere conto del sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 163 del 2000).

La disposizione censurata è stata introdotta dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, adottato in esecuzione della delega conferita dalla legge n. 88 del 2009. Con essa, il Governo è stato delegato ad adottare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione, tra le altre, alla direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive).

5.3.− Al di là del fatto che, con specifico riferimento all’attuazione di tale direttiva, il legislatore delegante ha conferito al Governo uno spazio di intervento particolarmente ampio, autorizzando l’adozione delle modifiche ritenute «opportune» (art. 26) e non solo «occorrenti» (art. 2, comma 1, lettera b), ciò che più conta è che, nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato (sentenze n. 134 del 2013 e n. 32 del 2005).

Nell’individuazione del contenuto precettivo della direttiva rilevano il considerando n. 32, che richiama l’obiettivo della armonizzazione minimale, il n. 59, che ribadisce la necessità di mantenere limiti orari di affollamento − attesa la loro preminenza sui limiti giornalieri – e, nella parte dispositiva, l’art. 3. Quest’ultimo consente agli Stati membri di stabilire, per i fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione, norme più particolareggiate o più rigorose nei settori coordinati dalla direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto comunitario.

All’interno dei limiti tracciati dal diritto dell’Unione europea, risultano quindi espressamente consentite disposizioni nazionali più rigorose in materia di pubblicità televisiva.

Di questa possibilità si è avvalso il legislatore delegato, nello stabilire limiti di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti a pagamento.

5.4.− La conformità al diritto europeo della nuova modulazione − introdotta dalla disposizione censurata − dei limiti di affollamento pubblicitario televisivo è stata positivamente accertata dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 18 luglio 2013, in causa C-234/12, resa nel caso in esame e avente natura vincolante nei confronti del giudice rimettente.

In tale pronuncia, l’obiettivo perseguito dalle direttive in materia di fornitura di servizi di media audiovisivi viene espressamente individuato nella tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi degli aventi diritto − autori e realizzatori − e della categoria di consumatori, ossia i telespettatori, dall’altro (paragrafo 18 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

La ricerca di tale equilibrio deve tenere conto della diversità degli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli delle emittenti televisive in chiaro. Infatti, mentre le prime ricavano introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, le seconde non beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi con le entrate della pubblicità televisiva o mediante altre fonti (paragrafo 20 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

Le emittenti televisive a pagamento si pongono, pertanto, in una situazione oggettivamente diversa da quella delle emittenti in chiaro, quanto all’incidenza economica dei limiti all’affollamento pubblicitario sulle modalità di finanziamento delle stesse emittenti. È stata, quindi, esclusa la violazione del principio della parità di trattamento nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di limiti orari di affollamento pubblicitario, differenziati in funzione della tipologia di emittenti (paragrafi 21 e 23 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).

L’art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005 − nel modulare i limiti di affollamento pubblicitario in funzione delle oggettive diversità degli operatori – risulta coerente con la ratio della direttiva (come espressamente individuata dalla Corte di giustizia), in quanto volta a realizzare la equilibrata tutela degli interessi delle emittenti televisive, da un lato, e di quelli dei consumatori - telespettatori, dall’altro.

La disposizione censurata rientra, pertanto, nell’area di operatività della direttiva comunitaria, come definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 18 luglio 2013, e rientra, altresì, nel perimetro tracciato dal legislatore delegante.

Da ciò discende l’infondatezza della censura formulata in riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega.

6.− Del pari non fondata, infine, è la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 41 Cost.

Il legislatore statale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro, la coerenza dell’ordinamento interno con gli obiettivi di armonizzazione stabiliti dalle direttive europee; in tal senso, la libertà d’iniziativa economica può essere anche «ragionevolmente limitata» (art. 41, commi 2 e 3, Cost.), nel quadro di un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 242 del 2014).

Nel caso in esame, la disciplina nazionale oggetto di censura si conforma a quella europea, nella quale − come sottolineato dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza 18 luglio 2013, in causa C-234/12 − i principi e i criteri direttivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo mirano a realizzare la protezione dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori, oltre che la tutela della concorrenza e del pluralismo televisivo. In tali obiettivi si ravvisa, in modo inequivoco, quella «finalità sociale» che appare in sé idonea a giustificare la misura normativa in esame.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), come sostituito dall’art. 12 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44 (Attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive), promossa – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2005, come sostituito dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, promossa – in riferimento agli artt. 76 e 41 Cost. – dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe.

          Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giuliano AMATO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2015.

Ordinanza allegata