SENTENZA N. 214
ANNO 2014
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3,
comma 62, della legge
15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e
dell’art. 53, secondo comma, della legge
24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal
Tribunale ordinario di Imperia nel procedimento penale a carico di G.F. con ordinanza
del 22 novembre 2013, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2014 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie
speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2014 il Giudice relatore Giuseppe
Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 novembre 2013,
il Tribunale ordinario di Imperia, in composizione monocratica, ha sollevato,
in riferimento agli artt.
3 e 27 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale della disposizione
combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3, comma
62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che, ai fini della sostituzione
delle pene detentive brevi con la pena pecuniaria, il valore giornaliero della
pena detentiva non possa essere inferiore ad euro 250, anziché ad euro 97.
1.1.– Il giudice a quo premette di
essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del
reato di cui all’art. 186, comma 2, lettera b), del
decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per
aver guidato un motoveicolo sotto l’influenza dell’alcool.
Riferisce, altresì, che in una
precedente udienza l’imputato aveva chiesto, ai sensi dell’art. 444 del codice
di procedura penale – con il consenso del pubblico ministero – l’applicazione
della pena di un mese e dieci giorni di arresto ed euro 800 di ammenda, con
sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria sulla
base di un coefficiente di ragguaglio «pari ad euro 100 (quale “frazione
di euro 250” ai sensi dell’art. 135 c.p.) per ogni giorno di pena detentiva»:
e, così, l’applicazione di una pena finale di euro 4.800 di ammenda. La
richiesta era stata peraltro rigettata dal Tribunale, in ragione della ritenuta
inaccettabilità del coefficiente di ragguaglio
proposto.
A fronte della conseguente
incompatibilità del giudice che aveva respinto la richiesta, il procedimento
era stato assegnato al rimettente, davanti al quale
l’imputato aveva presentato una nuova istanza di patteggiamento, identica
quanto all’entità della pena da applicare in prima battuta, ma con richiesta
della sua sostituzione in ragione di euro 250 di pena pecuniaria per ogni giorno
di pena detentiva e, quindi, con applicazione di una pena finale di euro 10.800
di ammenda, da pagare ratealmente.
Tanto premesso, il giudice a quo dubita
della legittimità costituzionale della disposizione combinata dell’art. 135 cod. pen. e dell’art. 53, secondo
comma, della legge n. 689 del 1981: disposizione della quale sarebbe chiamato a
fare applicazione a fronte della nuova istanza dell’imputato.
Preliminarmente, il rimettente nega
validità all’interpretazione prospettata in un primo tempo dall’imputato, con
l’avallo del pubblico ministero, in base alla quale –
posto che l’art. 135 cod. pen. prevede che il
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive abbia luogo calcolando «euro
250, o frazione di euro 250», per ogni giorno di pena detentiva – ciascun
giorno di arresto potrebbe essere sostituito anche con 100 euro di ammenda,
quale «frazione di euro 250». Il riferimento al computo frazionario non
riguarderebbe, infatti, il caso in cui occorra convertire una pena detentiva in
pena pecuniaria, ma unicamente il caso opposto, stante la possibilità che la
pena pecuniaria da convertire in pena detentiva non sia pari all’importo
previsto per il ragguaglio o ad un suo multiplo. Una
diversa interpretazione comporterebbe, d’altra parte, «un inaccettabile vulnus
al principio di tassatività», in quanto il giudice
potrebbe sostituire un giorno di pena detentiva con qualsiasi frazione di euro
250, e quindi anche con un solo euro di pena pecuniaria.
Nell’ipotesi della sostituzione della
pena detentiva breve, l’interpretazione in parola sarebbe comunque testualmente
esclusa dall’art. 53, secondo comma, della legge n.
689 del 1981, in forza del quale il giudice deve determinare il valore
giornaliero della pena detentiva tenendo conto della condizione economica
complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, con la precisazione che
tale valore «non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del
codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare». Risulterebbe,
pertanto, evidente che la somma prevista dall’art. 135 cod.
pen. – ossia, attualmente, 250 euro – costituisce
l’importo giornaliero minimo sotto il quale non si può scendere in sede di
sostituzione.
1.2.− Ciò posto, il rimettente
rileva come il coefficiente di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive
previsto dall’art. 135 cod. pen.
sia stato oggetto di reiterate modifiche, variamente cadenzate nel tempo, volte
ad adeguarne progressivamente l’ammontare alla mutata «realtà
economico-sociale». Da ultimo, a distanza di sedici anni dalla precedente
modifica, operata dalla legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo
135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive), che
aveva portato il coefficiente in questione a lire 75.000 (convertite poi, per
arrotondamento, in euro 38), l’art. 3, comma 62, della
legge n. 94 del 2009 lo ha aumentato ad euro 250: dunque, in misura pari a
circa sei volte e mezzo in termini nominali e – ciò che più conta, nella
prospettiva del rimettente – a quasi cinque volte in termini reali (al netto,
cioè, dell’aumento corrispondente alla svalutazione monetaria).
Ad avviso del giudice a quo, un simile
incremento risulterebbe «del tutto sproporzionato e
irragionevole».
La censurata modifica dell’art. 135 cod. pen. si colloca, infatti,
nell’ambito di un complesso di misure – previste dai commi da 60 a 65 dell’art.
3 della legge n. 94 del 2009 – intese ad adeguare al mutato quadro economico il
sistema delle sanzioni pecuniarie, sia penali che amministrative, e ad
accrescerne, al tempo stesso, l’efficacia deterrente. Tale obiettivo è stato
perseguito mediante tre ordini di interventi: il
sensibile innalzamento dei limiti minimi e massimi della multa e dell’ammenda,
stabiliti dagli artt. 24 e 26 cod. pen. (art. 3,
commi 60 e 61, della legge n. 94 del 2009); l’aggiornamento – appunto – del
parametro di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive (art. 3, comma
62); infine, la delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi,
diretti a rivalutare l’ammontare delle multe, delle ammende e delle sanzioni
amministrative originariamente previste come sanzioni penali (art. 3, comma
65).
Il secondo intervento – quello che qui
interessa – si rivelerebbe, peraltro, palesemente distonico rispetto al terzo.
Dai criteri di delega relativi alla revisione delle
sanzioni pecuniarie emergerebbe, infatti, come il legislatore abbia inteso non
soltanto adeguare dette sanzioni al diminuito valore dell’euro, conseguente
alla svalutazione monetaria, ma anche procedere ad un loro inasprimento in
termini reali: inasprimento sensibile, bensì, ma non sproporzionato. L’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009 prevedeva, in
particolare, che le sanzioni pecuniarie dovessero essere aumentate sulla base
di una serie di coefficienti, maggiori per quelle previste da norme più
risalenti nel tempo e minori per quelle più recenti, tali da comportare –
secondo i calcoli del giudice a quo – un incremento in termini reali compreso
tra un minimo dell’11,49% e un massimo del 73,86%.
Per converso, il criterio di ragguaglio
di cui all’art. 135 cod. pen.
– e, con esso, l’importo minimo delle pene pecuniarie applicabili dal giudice
in sostituzione delle pene detentive brevi – è stato, come detto, quasi
quintuplicato, con un aumento in termini reali stimabile nel 349,64% e, quindi,
enormemente superiore.
È ben vero, d’altra parte, che i limiti
minimi e massimi della multa e dell’ammenda, previsti dagli artt. 24 e 26 cod. pen. – oggetto del
primo fra gli indicati interventi di adeguamento – sono stati addirittura
decuplicati. Ma, al riguardo, occorrerebbe considerare che i precedenti limiti
minimi erano stabiliti in cifre «praticamente […]
simboli[che]» (euro 5 ed euro 2), mentre i nuovi limiti (euro 50 ed euro 20),
oltre a risultare «obiettivamente adeguati per una sanzione penale», non
avrebbero, comunque, «alcun effetto dirompente sul sistema». Considerazione,
quest’ultima, valevole anche per i nuovi limiti massimi, tenuto conto del fatto
che «il limite massimo è nella quasi totalità dei casi fissato dalla singola
norma incriminatrice».
Altrettanto non potrebbe dirsi, invece,
per l’incremento del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen., il quale apparirebbe
foriero di un «innegabile squilibrio» nel sistema. Per effetto del richiamo
operato dall’art. 53, secondo comma, della legge n.
689 del 1981, il nuovo coefficiente di ragguaglio avrebbe comportato, infatti,
un rilevantissimo innalzamento dei «costi» della sostituzione delle pene
detentive brevi, che rischierebbe di estromettere dalla sfera di applicazione
dell’istituto i cittadini meno abbienti: e ciò, sebbene pochi anni prima lo
stesso legislatore avesse inteso dilatarne il perimetro operativo, aumentando
da tre a sei mesi il limite massimo della pena detentiva sostituibile con la
pena pecuniaria (art. 4, comma 1, lettera a, della legge 12 giugno 2003, n.
134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di
applicazione della pena su richiesta delle parti»).
L’abnorme incremento del coefficiente di
ragguaglio rischierebbe, altresì, di incidere sull’efficienza del procedimento
per decreto, in tutti i casi in cui lo stesso venga
adottato previa sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria, essendo
ragionevole attendersi che il sensibile aumento di quest’ultima determini un maggior
numero di opposizioni.
Dai lavori preparatori non emergerebbe,
peraltro, che gli effetti negativi ora evidenziati siano stati presi in
considerazione in sede di approvazione della legge n. 94 del
2009: sicché si dovrebbe supporre che essi rappresentino «una conseguenza non
voluta e non calcolata dal legislatore».
1.3.– Alla luce di tali considerazioni,
la disposizione combinata dell’art. 135 cod. pen. e dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del
1981 si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto un triplice profilo.
In primo luogo, per la
irragionevole disparità di trattamento, da essa indotta, fra l’imputato
cui sia direttamente applicata una pena pecuniaria (per la quale la legge n. 94
del 2009 avrebbe previsto un aumento massimo, in termini reali, pari al 73,86%)
e l’imputato cui la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione di una pena
detentiva (che subirebbe invece un aumento, sempre in termini reali, del
349,64%).
In secondo luogo, per
la «contraddittorietà intrinseca» della disposizione denunciata rispetto alle
finalità complessive perseguite dalla stessa legge n. 94 del 2009, di adeguamento delle pene pecuniarie al
diminuito valore della moneta e di sensibile – ma non sproporzionato –
inasprimento delle stesse.
In terzo luogo e da ultimo, per la
contraddittorietà della medesima disposizione con il contesto
normativo in cui viene ad inserirsi, stante l’evidenziato effetto limitativo
dell’applicazione di un istituto – quale la sostituzione delle pene detentive
brevi – del quale lo stesso legislatore aveva inteso viceversa assicurare, solo
pochi anni prima, una applicazione più massiccia.
Al riguardo, il rimettente rimarca come
il nuovo criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod.
pen. risulti, in realtà, «eccessivo rispetto alle
finalità del legislatore», e pertanto irragionevole, non solo quando sia
utilizzato per sostituire una pena detentiva con una pena pecuniaria, ma anche
quando sia impiegato in senso inverso, ossia per ragguagliare una pena
pecuniaria ad una pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della
possibilità di concedere all’imputato i benefici della sospensione condizionale
della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario
giudiziale). In questi casi, peraltro, la sproporzionata rivalutazione del
«tasso di cambio», operata dalla legge n. 94 del 2009, si traduce in un
vantaggio per l’imputato, che non potrebbe essere rimosso dalla Corte
costituzionale, stante la preclusione delle pronunce di illegittimità
costituzionale in malam partem:
circostanza che spiegherebbe la limitazione della questione proposta ai soli
riflessi di detta rivalutazione sull’istituto della sostituzione delle pene
detentive brevi.
La palese eccessività della pena
pecuniaria applicata sulla base dell’art. 53, secondo
comma, della legge n. 689 del 1981 implicherebbe, per altro verso, la
violazione dell’art. 27 Cost., che esige la proporzionalità del trattamento
sanzionatorio rispetto alla gravità del reato.
1.4.– Riguardo, poi, all’intervento
necessario al fine di rimuovere i vulnera costituzionali denunciati, il giudice
a quo rileva come – ferma restando l’impossibilità per la Corte costituzionale
di sostituirsi al legislatore nell’individuazione di un coefficiente di
ragguaglio «adeguato» – un parametro oggettivo atto a fungere da guida in tale
operazione sia comunque ricavabile dai criteri di delega enunciati dall’art. 3, comma 65, della stessa legge n. 94 del 2009.
Detti criteri dimostrerebbero, infatti –
come già evidenziato – che il legislatore intendeva inasprire le pene
pecuniarie in termini reali in misura compresa da un minimo dell’11,49%
a un massimo del 73,86%. Di conseguenza, dovrebbe ritenersi costituzionalmente
illegittima la previsione di un criterio di ragguaglio che comporti un aumento
della pena pecuniaria, applicata in sostituzione della pena detentiva,
superiore, in termini reali, al 73,86% rispetto alla disciplina previgente,
ossia ad euro 97 (il precedente coefficiente di
ragguaglio di 38 euro corrisponderebbe, infatti, a 55,60 euro nel luglio 2009:
cifra che, aumentata del 73,86%, porterebbe ad un valore di euro 96,66,
arrotondabile ad euro 97).
2.– È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
La difesa dello Stato rileva, anzitutto,
come in rapporto alla disposizione denunciata non sia ravvisabile alcuna
violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega, in quanto l’art. 135 cod. pen. è
stato direttamente modificato dal comma 62 (e non dal comma 65) della legge n.
94 del 2009.
Quanto, poi, alla prospettata violazione
dell’art. 3 Cost., per la presunta irragionevole disparità di trattamento tra
l’imputato cui sia applicata direttamente una pena pecuniaria e l’imputato al
quale la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione di una pena detentiva,
le ipotesi poste a raffronto non sarebbero affatto
omogenee, stante la «maggiore afflittività correlata
all’applicazione di una pena detentiva, anche se sostituita».
Insussistente sarebbe, infine,
l’asserita contraddittorietà della disposizione denunciata rispetto alla
complessiva finalità della legge n. 94 del 2009 e al contesto
normativo di riferimento. Non vi sarebbe, infatti, alcun divieto di applicare,
in sede di sostituzione delle pene detentive, un coefficiente di ragguaglio pari ad una frazione della somma di euro 250,
conformemente al tenore letterale dell’art. 135 cod. pen.:
conclusione, questa, avvalorata tanto dall’inciso «per qualsiasi effetto
giuridico», che compare nella norma, quanto dalla regola generale in tema di
discrezionalità del giudice nell’applicazione della pena di cui all’art. 132
cod. pen.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Imperia,
in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale della
disposizione combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato
dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n.
94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo
comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),
nella parte in cui prevede che, ai fini della sostituzione delle pene detentive
brevi con la pena pecuniaria, il valore giornaliero della pena detentiva non
possa essere inferiore ad euro 250, anziché ad euro 97.
Il giudice a quo censura gli effetti
indotti sull’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi
dall’avvenuto aumento – in assunto sproporzionato e irragionevole – del
coefficiente di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie, di cui
all’art. 135 cod. pen.:
coefficiente che l’art. 3, comma 62, della legge n. 94 del 2009 ha elevato dai
precedenti euro 38 agli attuali euro 250.
Ad avviso del rimettente, l’assetto
normativo che ne risulta si porrebbe in contrasto con
l’art. 3 Cost. sotto tre distinti profili.
In primo luogo, per l’irragionevole
disparità di trattamento venutasi a creare tra gli imputati cui sia inflitta in via diretta una pena pecuniaria e gli imputati
cui quest’ultima sia applicata in sostituzione di una pena detentiva. L’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009 ha delegato,
infatti, il Governo ad aumentare le pene pecuniarie previste dalle singole
norme incriminatrici sulla base di coefficienti che –
secondo i calcoli del rimettente – implicherebbero un loro incremento in
termini reali (al netto, cioè, della svalutazione monetaria) compreso tra un
minimo dell’11,49% e un massimo del 73,86%. Per contro, il comma 62 dello stesso art. 3 ha incrementato, sempre in termini
reali, il coefficiente di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie – e,
con esso, l’ammontare minimo della pena pecuniaria applicabile in sostituzione
di una pena detentiva – in misura nettamente superiore, e cioè (stando sempre
ai calcoli del giudice a quo) del 349,64%.
In secondo luogo, poi, la norma
censurata violerebbe il principio di ragionevolezza, ponendosi in
contraddizione con le finalità complessive della stessa legge n. 94 del 2009,
la quale – sotto il profilo che interessa – doveva ritenersi diretta ad
adeguare le pene pecuniarie al diminuito potere d’acquisto della moneta e ad inasprirle in modo sensibile, ma comunque non
sproporzionato.
In terzo luogo e da ultimo, la
disposizione denunciata risulterebbe contraddittoria
anche rispetto al contesto normativo in cui si inserisce, determinando un
abnorme incremento dei «costi» della sostituzione della pena detentiva breve,
che comprimerebbe fortemente le potenzialità applicative dell’istituto, in
danno soprattutto delle persone meno abbienti: e ciò, sebbene lo stesso
legislatore, appena pochi anni prima, avesse inteso dilatarne gli spazi di
operatività, elevando da tre a sei mesi il limite di pena detentiva
sostituibile con la pena pecuniaria (art. 4, comma 1, lettera a, della legge 12
giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in
materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»).
La palese eccessività della pena
pecuniaria applicata sulla base dell’art. 53, secondo
comma, della legge n. 689 del 1981 implicherebbe, per altro verso, la
violazione dell’art. 27 Cost., che esige la proporzionalità del trattamento
sanzionatorio rispetto alla gravità del reato.
Secondo il rimettente, al fine di
rimuovere il vulnus ai parametri costituzionali evocati, l’aumento del
coefficiente di ragguaglio, che determina il valore giornaliero minimo delle
pene detentive da sostituire, dovrebbe essere allineato alla misura massima
dell’aumento delle singole pene pecuniarie, prefigurato dai criteri di delega
di cui al citato art. 3, comma 65, della legge n. 94
del 2009 (73,86%, in termini reali): prospettiva nella quale il coefficiente in
questione dovrebbe rimanere conclusivamente fissato in euro 97, anziché in euro
250.
2.– In via preliminare, va rilevato che
– contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato – il
presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo nel sollevare la
questione risulta pienamente corretto.
L’art. 53,
secondo comma, della legge n. 689 del 1981 stabilisce – per quanto di interesse
in questa sede – che per la determinazione della pena pecuniaria sostitutiva il
giudice individua un valore giornaliero, tenendo conto della condizione
economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, e lo moltiplica
per i giorni di pena detentiva. Precisa, altresì, che l’ammontare di ciascun
“tasso” «non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del
codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare».
L’art. 135 cod.
pen. prevede, a propria volta, nel testo attualmente
in vigore, che «Quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando
euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena
detentiva».
Ciò posto, va escluso che la formula «o
frazione di euro 250», presente nel citato art. 135 cod.
pen., abiliti il giudice a determinare
discrezionalmente il valore giornaliero minimo della pena detentiva da
sostituire in una somma anche inferiore ad euro 250. Come correttamente
rilevato dal rimettente, la predetta formula deve intendersi, infatti, riferita
alla sola ipotesi della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, e
non anche a quella inversa, giacché solo nel primo caso emerge l’esigenza di
tener conto di eventuali “resti” (ciò, stante la possibilità che l’ammontare
della pena pecuniaria da convertire non corrisponda al coefficiente di
ragguaglio o ad un suo multiplo).
Ma, al di là di
ciò, con specifico riguardo alla sostituzione delle pene detentive brevi,
l’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 è univoco nello stabilire
che la somma indicata nell’art. 135 cod. pen.
rappresenti il valore giornaliero minimo della pena da sostituire: né avrebbe
senso individuare una soglia minima se, poi, fosse consentito al giudice
scendere discrezionalmente al di sotto di essa.
3.– Le ulteriori
eccezioni prospettate dalla difesa dello Stato a sostegno della dedotta
inammissibilità della questione – una delle quali attiene, peraltro, a censura
che il giudice a quo non ha affatto formulato (quella di violazione dell’art.
76 Cost.) – evocano, in realtà, profili di merito.
4.– Di essi non è necessario lo
scrutinio, essendo la questione inammissibile per una diversa ragione.
4.1.– Al riguardo, giova ricordare come
il criterio di ragguaglio fra pene detentive e pene pecuniarie – il quale consente di impostare in termini matematici una
proporzione fra entità, in sé, palesemente eterogenee – fosse fissato, nella
versione originaria del codice penale, in cinquanta lire di pena pecuniaria per
un giorno di pena detentiva. Detto importo è stato oggetto di reiterati
interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita del potere di
acquisto della moneta, cui ha fatto da contraltare un contemporaneo aumento
delle pene pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici,
sulla base di un moltiplicatore talora identico (artt.
3 e 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 679, recante
«Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale»; artt. 101 e 113
della legge n. 689 del 1981), talaltra più o meno significativamente
differenziato (artt. 5 e 7 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello
Stato 21 ottobre 1947, n. 1250, recante «Aumento delle sanzioni pecuniarie in
materia penale»; artt. 1 e 3 della legge 12 luglio 1961, n. 603, recante
«Modificazioni agli articoli 24, 26, 66, 78, 135 e 237 del Codice penale e agli
articoli 19 e 20 del regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito
nella legge 27 maggio 1935 n. 835»).
Con la riforma attuata dalla legge n.
689 del 1981, il coefficiente di ragguaglio è stato, in particolare, innalzato
da 5.000 lire a 25.000 lire (art. 101), con un
parallelo aumento di cinque volte anche dell’ammontare delle singole pene
pecuniarie (art. 113). Lo scopo era, dunque, quello di ristabilire i valori
delle pene pecuniarie alterati dalla svalutazione, mantenendo immutato il loro
equilibrio rispetto all’intero sistema di conversione.
L’evidenziato parallelismo è venuto
meno, peraltro, con la legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135
del codice penale: ragguaglio tra pene pecuniarie e pene
detentive), che ha triplicato il tasso di ragguaglio, elevandolo a 75.000 lire
(art. 1), senza tuttavia intervenire contestualmente sull’importo delle pene
pecuniarie, rimasto così fermo ai livelli del 1981. Nella circostanza, dunque,
il legislatore ha voluto, non tanto compensare la svalutazione della moneta
intervenuta tra il 1981 e il 1993, quanto piuttosto modificare in termini
assoluti il “rapporto di cambio” tra la pena detentiva e la pena
pecuniaria: ciò, nell’accresciuta consapevolezza dell’altissimo rango del bene
«libertà personale», che rende tale bene, in linea di principio, incommensurabile
rispetto al patrimonio e che, comunque, laddove un ragguaglio sia necessario
per un qualsiasi effetto giuridico, impone che la monetizzazione della libertà
avvenga a un prezzo non “vile”.
Da ultimo, con la legge n. 94 del 2009,
che qui segnatamente interessa, il criterio di ragguaglio ha subito un
ulteriore, energico incremento, pari a quasi sei volte e mezzo, passando da
euro 38 (somma risultante, per arrotondamento, dalla conversione dell’importo
di lire 75.000) ad euro 250 (art. 3, comma 62). A siffatto
incremento avrebbe dovuto tornare ad accompagnarsi un
adeguamento delle pene pecuniarie, da effettuare sulla base di coefficienti
differenziati e decrescenti a seconda della data di entrata in vigore delle
disposizioni che hanno stabilito l’ammontare di dette pene: operazione della
quale è stato, peraltro, incaricato il Governo, tramite lo strumento della
delega legislativa (art. 3, comma 65). Come rimarca il rimettente, già in
partenza tali moltiplicatori prefiguravano un aumento percentuale delle pene
pecuniarie notevolmente inferiore, in termini reali, a quello del criterio di
ragguaglio. La delega legislativa per l’adeguamento delle pene pecuniarie è
rimasta, in ogni caso, inattuata: con la conseguenza
che la riforma del 2009 è venuta, di fatto, a produrre effetti analoghi a
quelli della riforma del 1993, vale a dire un innalzamento “secco” del rapporto
di cambio tra pene detentive e pene pecuniarie.
Si tratta, come è
evidente, di una modifica che torna a vantaggio dell’imputato, allorché sia la
pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in
sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale
della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario
giudiziale); mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come
tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui
all’art. 53 della legge n. 689 del 1981.
4.2.– Con l’odierna questione, il rimettente
chiede a questa Corte di sostituire – con effetti limitati all’istituto della
sostituzione delle pene detentive brevi – il coefficiente di ragguaglio di 250
euro con quello di 97 euro: importo, quest’ultimo, che il giudice a quo
individua applicando al precedente coefficiente (euro 38) un aumento
percentuale pari a quello massimo che – secondo i suoi calcoli – avrebbe dovuto essere apportato, in termini reali, alle pene
pecuniarie in forza dei criteri di delega di cui all’art. 3, comma 65, della legge
n. 94 del 2009.
In questo modo, il rimettente invoca,
peraltro, un intervento sostitutivo della disciplina sottoposta a scrutinio che
comporta scelte riservate al legislatore, in assenza di una soluzione
costituzionalmente obbligata.
Secondo quanto dianzi
evidenziato, il legislatore, con la legge n. 94 del 2009 – così come con la
precedente legge n. 402 del 1993 – ha inteso modificare il rapporto tra pena
detentiva e pena pecuniaria oltre i limiti necessari a compensare la
svalutazione monetaria intervenuta medio tempore, fissando un “tasso di
monetizzazione” oggettivamente più elevato della pena limitativa della libertà
personale. Si tratta di una scelta di politica criminale che rientra
nell’ambito della discrezionalità legislativa, alla quale il giudice a quo
muove critiche che attengono, nella sostanza, al piano della mera opportunità.
Il parametro cui agganciare l’auspicato
intervento di “riequilibrio” del sistema non potrebbe essere costituito, in
ogni caso, dai coefficienti di rivalutazione delle pene pecuniarie previsti
dall’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009.
Prospettando un simile intervento, il rimettente contrappone, in realtà, alla
scelta legislativa censurata una propria soluzione personale, ritenuta più
adeguata, ma non certo costituzionalmente imposta. L’idea sottesa a tale
soluzione – e, cioè, che l’incremento del coefficiente di ragguaglio debba
andare di pari passo a quello di aumento delle pene pecuniarie – non
corrisponde, infatti, ad una esigenza costituzionale:
e ciò tanto più ove si consideri che, nel frangente, l’aumento delle pene
pecuniarie – che dovrebbe fornire il parametro di raffronto – è rimasto privo
di concreta attuazione.
5.– La questione va dichiarata,
pertanto, inammissibile (sulla inammissibilità delle questioni che richiedono
interventi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, in
assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, ex plurimis,
sentenze n. 134
e n. 36 del 2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della
disposizione combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato
dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento
agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Imperia.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio
2014.