Sentenza n. 214 del 2014

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SENTENZA N. 214

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Sabino                        CASSESE                              Presidente

-           Paolo Maria                NAPOLITANO                     Giudice

-           Giuseppe                    FRIGO                                           ”

-           Alessandro                 CRISCUOLO                                ”

-           Paolo                          GROSSI                                        ”

-           Aldo                           CAROSI                                        ”

-           Marta                          CARTABIA                                  ”

-           Sergio                         MATTARELLA                            ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                     ”

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                 ”

-           Giuliano                      AMATO                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Tribunale ordinario di Imperia nel procedimento penale a carico di G.F. con ordinanza del 22 novembre 2013, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 22 novembre 2013, il Tribunale ordinario di Imperia, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che, ai fini della sostituzione delle pene detentive brevi con la pena pecuniaria, il valore giornaliero della pena detentiva non possa essere inferiore ad euro 250, anziché ad euro 97.

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per aver guidato un motoveicolo sotto l’influenza dell’alcool.

Riferisce, altresì, che in una precedente udienza l’imputato aveva chiesto, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale – con il consenso del pubblico ministero – l’applicazione della pena di un mese e dieci giorni di arresto ed euro 800 di ammenda, con sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria sulla base di un coefficiente di ragguaglio «pari ad euro 100 (quale “frazione di euro 250” ai sensi dell’art. 135 c.p.) per ogni giorno di pena detentiva»: e, così, l’applicazione di una pena finale di euro 4.800 di ammenda. La richiesta era stata peraltro rigettata dal Tribunale, in ragione della ritenuta inaccettabilità del coefficiente di ragguaglio proposto.

A fronte della conseguente incompatibilità del giudice che aveva respinto la richiesta, il procedimento era stato assegnato al rimettente, davanti al quale l’imputato aveva presentato una nuova istanza di patteggiamento, identica quanto all’entità della pena da applicare in prima battuta, ma con richiesta della sua sostituzione in ragione di euro 250 di pena pecuniaria per ogni giorno di pena detentiva e, quindi, con applicazione di una pena finale di euro 10.800 di ammenda, da pagare ratealmente.

Tanto premesso, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della disposizione combinata dell’art. 135 cod. pen. e dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981: disposizione della quale sarebbe chiamato a fare applicazione a fronte della nuova istanza dell’imputato.

Preliminarmente, il rimettente nega validità all’interpretazione prospettata in un primo tempo dall’imputato, con l’avallo del pubblico ministero, in base alla quale – posto che l’art. 135 cod. pen. prevede che il ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive abbia luogo calcolando «euro 250, o frazione di euro 250», per ogni giorno di pena detentiva – ciascun giorno di arresto potrebbe essere sostituito anche con 100 euro di ammenda, quale «frazione di euro 250». Il riferimento al computo frazionario non riguarderebbe, infatti, il caso in cui occorra convertire una pena detentiva in pena pecuniaria, ma unicamente il caso opposto, stante la possibilità che la pena pecuniaria da convertire in pena detentiva non sia pari all’importo previsto per il ragguaglio o ad un suo multiplo. Una diversa interpretazione comporterebbe, d’altra parte, «un inaccettabile vulnus al principio di tassatività», in quanto il giudice potrebbe sostituire un giorno di pena detentiva con qualsiasi frazione di euro 250, e quindi anche con un solo euro di pena pecuniaria.

Nell’ipotesi della sostituzione della pena detentiva breve, l’interpretazione in parola sarebbe comunque testualmente esclusa dall’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, in forza del quale il giudice deve determinare il valore giornaliero della pena detentiva tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, con la precisazione che tale valore «non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare». Risulterebbe, pertanto, evidente che la somma prevista dall’art. 135 cod. pen. – ossia, attualmente, 250 euro – costituisce l’importo giornaliero minimo sotto il quale non si può scendere in sede di sostituzione.

1.2.− Ciò posto, il rimettente rileva come il coefficiente di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive previsto dall’art. 135 cod. pen. sia stato oggetto di reiterate modifiche, variamente cadenzate nel tempo, volte ad adeguarne progressivamente l’ammontare alla mutata «realtà economico-sociale». Da ultimo, a distanza di sedici anni dalla precedente modifica, operata dalla legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive), che aveva portato il coefficiente in questione a lire 75.000 (convertite poi, per arrotondamento, in euro 38), l’art. 3, comma 62, della legge n. 94 del 2009 lo ha aumentato ad euro 250: dunque, in misura pari a circa sei volte e mezzo in termini nominali e – ciò che più conta, nella prospettiva del rimettente – a quasi cinque volte in termini reali (al netto, cioè, dell’aumento corrispondente alla svalutazione monetaria).

Ad avviso del giudice a quo, un simile incremento risulterebbe «del tutto sproporzionato e irragionevole».

La censurata modifica dell’art. 135 cod. pen. si colloca, infatti, nell’ambito di un complesso di misure – previste dai commi da 60 a 65 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 – intese ad adeguare al mutato quadro economico il sistema delle sanzioni pecuniarie, sia penali che amministrative, e ad accrescerne, al tempo stesso, l’efficacia deterrente. Tale obiettivo è stato perseguito mediante tre ordini di interventi: il sensibile innalzamento dei limiti minimi e massimi della multa e dell’ammenda, stabiliti dagli artt. 24 e 26 cod. pen. (art. 3, commi 60 e 61, della legge n. 94 del 2009); l’aggiornamento – appunto – del parametro di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive (art. 3, comma 62); infine, la delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, diretti a rivalutare l’ammontare delle multe, delle ammende e delle sanzioni amministrative originariamente previste come sanzioni penali (art. 3, comma 65).

Il secondo intervento – quello che qui interessa – si rivelerebbe, peraltro, palesemente distonico rispetto al terzo. Dai criteri di delega relativi alla revisione delle sanzioni pecuniarie emergerebbe, infatti, come il legislatore abbia inteso non soltanto adeguare dette sanzioni al diminuito valore dell’euro, conseguente alla svalutazione monetaria, ma anche procedere ad un loro inasprimento in termini reali: inasprimento sensibile, bensì, ma non sproporzionato. L’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009 prevedeva, in particolare, che le sanzioni pecuniarie dovessero essere aumentate sulla base di una serie di coefficienti, maggiori per quelle previste da norme più risalenti nel tempo e minori per quelle più recenti, tali da comportare – secondo i calcoli del giudice a quo – un incremento in termini reali compreso tra un minimo dell’11,49% e un massimo del 73,86%.

Per converso, il criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. – e, con esso, l’importo minimo delle pene pecuniarie applicabili dal giudice in sostituzione delle pene detentive brevi – è stato, come detto, quasi quintuplicato, con un aumento in termini reali stimabile nel 349,64% e, quindi, enormemente superiore.

È ben vero, d’altra parte, che i limiti minimi e massimi della multa e dell’ammenda, previsti dagli artt. 24 e 26 cod. pen. – oggetto del primo fra gli indicati interventi di adeguamento – sono stati addirittura decuplicati. Ma, al riguardo, occorrerebbe considerare che i precedenti limiti minimi erano stabiliti in cifre «praticamente […] simboli[che]» (euro 5 ed euro 2), mentre i nuovi limiti (euro 50 ed euro 20), oltre a risultare «obiettivamente adeguati per una sanzione penale», non avrebbero, comunque, «alcun effetto dirompente sul sistema». Considerazione, quest’ultima, valevole anche per i nuovi limiti massimi, tenuto conto del fatto che «il limite massimo è nella quasi totalità dei casi fissato dalla singola norma incriminatrice».

Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per l’incremento del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen., il quale apparirebbe foriero di un «innegabile squilibrio» nel sistema. Per effetto del richiamo operato dall’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, il nuovo coefficiente di ragguaglio avrebbe comportato, infatti, un rilevantissimo innalzamento dei «costi» della sostituzione delle pene detentive brevi, che rischierebbe di estromettere dalla sfera di applicazione dell’istituto i cittadini meno abbienti: e ciò, sebbene pochi anni prima lo stesso legislatore avesse inteso dilatarne il perimetro operativo, aumentando da tre a sei mesi il limite massimo della pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria (art. 4, comma 1, lettera a, della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»).

L’abnorme incremento del coefficiente di ragguaglio rischierebbe, altresì, di incidere sull’efficienza del procedimento per decreto, in tutti i casi in cui lo stesso venga adottato previa sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria, essendo ragionevole attendersi che il sensibile aumento di quest’ultima determini un maggior numero di opposizioni.

Dai lavori preparatori non emergerebbe, peraltro, che gli effetti negativi ora evidenziati siano stati presi in considerazione in sede di approvazione della legge n. 94 del 2009: sicché si dovrebbe supporre che essi rappresentino «una conseguenza non voluta e non calcolata dal legislatore».

1.3.– Alla luce di tali considerazioni, la disposizione combinata dell’art. 135 cod. pen. e dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto un triplice profilo.

In primo luogo, per la irragionevole disparità di trattamento, da essa indotta, fra l’imputato cui sia direttamente applicata una pena pecuniaria (per la quale la legge n. 94 del 2009 avrebbe previsto un aumento massimo, in termini reali, pari al 73,86%) e l’imputato cui la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione di una pena detentiva (che subirebbe invece un aumento, sempre in termini reali, del 349,64%).

In secondo luogo, per la «contraddittorietà intrinseca» della disposizione denunciata rispetto alle finalità complessive perseguite dalla stessa legge n. 94 del 2009, di adeguamento delle pene pecuniarie al diminuito valore della moneta e di sensibile – ma non sproporzionato – inasprimento delle stesse.

In terzo luogo e da ultimo, per la contraddittorietà della medesima disposizione con il contesto normativo in cui viene ad inserirsi, stante l’evidenziato effetto limitativo dell’applicazione di un istituto – quale la sostituzione delle pene detentive brevi – del quale lo stesso legislatore aveva inteso viceversa assicurare, solo pochi anni prima, una applicazione più massiccia.

Al riguardo, il rimettente rimarca come il nuovo criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod. pen. risulti, in realtà, «eccessivo rispetto alle finalità del legislatore», e pertanto irragionevole, non solo quando sia utilizzato per sostituire una pena detentiva con una pena pecuniaria, ma anche quando sia impiegato in senso inverso, ossia per ragguagliare una pena pecuniaria ad una pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della possibilità di concedere all’imputato i benefici della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale). In questi casi, peraltro, la sproporzionata rivalutazione del «tasso di cambio», operata dalla legge n. 94 del 2009, si traduce in un vantaggio per l’imputato, che non potrebbe essere rimosso dalla Corte costituzionale, stante la preclusione delle pronunce di illegittimità costituzionale in malam partem: circostanza che spiegherebbe la limitazione della questione proposta ai soli riflessi di detta rivalutazione sull’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi.

La palese eccessività della pena pecuniaria applicata sulla base dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 implicherebbe, per altro verso, la violazione dell’art. 27 Cost., che esige la proporzionalità del trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità del reato.

1.4.– Riguardo, poi, all’intervento necessario al fine di rimuovere i vulnera costituzionali denunciati, il giudice a quo rileva come – ferma restando l’impossibilità per la Corte costituzionale di sostituirsi al legislatore nell’individuazione di un coefficiente di ragguaglio «adeguato» – un parametro oggettivo atto a fungere da guida in tale operazione sia comunque ricavabile dai criteri di delega enunciati dall’art. 3, comma 65, della stessa legge n. 94 del 2009.

Detti criteri dimostrerebbero, infatti – come già evidenziato – che il legislatore intendeva inasprire le pene pecuniarie in termini reali in misura compresa da un minimo dell’11,49% a un massimo del 73,86%. Di conseguenza, dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittima la previsione di un criterio di ragguaglio che comporti un aumento della pena pecuniaria, applicata in sostituzione della pena detentiva, superiore, in termini reali, al 73,86% rispetto alla disciplina previgente, ossia ad euro 97 (il precedente coefficiente di ragguaglio di 38 euro corrisponderebbe, infatti, a 55,60 euro nel luglio 2009: cifra che, aumentata del 73,86%, porterebbe ad un valore di euro 96,66, arrotondabile ad euro 97).

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.

La difesa dello Stato rileva, anzitutto, come in rapporto alla disposizione denunciata non sia ravvisabile alcuna violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega, in quanto l’art. 135 cod. pen. è stato direttamente modificato dal comma 62 (e non dal comma 65) della legge n. 94 del 2009.

Quanto, poi, alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost., per la presunta irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato cui sia applicata direttamente una pena pecuniaria e l’imputato al quale la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione di una pena detentiva, le ipotesi poste a raffronto non sarebbero affatto omogenee, stante la «maggiore afflittività correlata all’applicazione di una pena detentiva, anche se sostituita».

Insussistente sarebbe, infine, l’asserita contraddittorietà della disposizione denunciata rispetto alla complessiva finalità della legge n. 94 del 2009 e al contesto normativo di riferimento. Non vi sarebbe, infatti, alcun divieto di applicare, in sede di sostituzione delle pene detentive, un coefficiente di ragguaglio pari ad una frazione della somma di euro 250, conformemente al tenore letterale dell’art. 135 cod. pen.: conclusione, questa, avvalorata tanto dall’inciso «per qualsiasi effetto giuridico», che compare nella norma, quanto dalla regola generale in tema di discrezionalità del giudice nell’applicazione della pena di cui all’art. 132 cod. pen.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Imperia, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale della disposizione combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che, ai fini della sostituzione delle pene detentive brevi con la pena pecuniaria, il valore giornaliero della pena detentiva non possa essere inferiore ad euro 250, anziché ad euro 97.

Il giudice a quo censura gli effetti indotti sull’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi dall’avvenuto aumento – in assunto sproporzionato e irragionevole – del coefficiente di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie, di cui all’art. 135 cod. pen.: coefficiente che l’art. 3, comma 62, della legge n. 94 del 2009 ha elevato dai precedenti euro 38 agli attuali euro 250.

Ad avviso del rimettente, l’assetto normativo che ne risulta si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto tre distinti profili.

In primo luogo, per l’irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare tra gli imputati cui sia inflitta in via diretta una pena pecuniaria e gli imputati cui quest’ultima sia applicata in sostituzione di una pena detentiva. L’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009 ha delegato, infatti, il Governo ad aumentare le pene pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici sulla base di coefficienti che – secondo i calcoli del rimettente – implicherebbero un loro incremento in termini reali (al netto, cioè, della svalutazione monetaria) compreso tra un minimo dell’11,49% e un massimo del 73,86%. Per contro, il comma 62 dello stesso art. 3 ha incrementato, sempre in termini reali, il coefficiente di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie – e, con esso, l’ammontare minimo della pena pecuniaria applicabile in sostituzione di una pena detentiva – in misura nettamente superiore, e cioè (stando sempre ai calcoli del giudice a quo) del 349,64%.

In secondo luogo, poi, la norma censurata violerebbe il principio di ragionevolezza, ponendosi in contraddizione con le finalità complessive della stessa legge n. 94 del 2009, la quale – sotto il profilo che interessa – doveva ritenersi diretta ad adeguare le pene pecuniarie al diminuito potere d’acquisto della moneta e ad inasprirle in modo sensibile, ma comunque non sproporzionato.

In terzo luogo e da ultimo, la disposizione denunciata risulterebbe contraddittoria anche rispetto al contesto normativo in cui si inserisce, determinando un abnorme incremento dei «costi» della sostituzione della pena detentiva breve, che comprimerebbe fortemente le potenzialità applicative dell’istituto, in danno soprattutto delle persone meno abbienti: e ciò, sebbene lo stesso legislatore, appena pochi anni prima, avesse inteso dilatarne gli spazi di operatività, elevando da tre a sei mesi il limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria (art. 4, comma 1, lettera a, della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»).

La palese eccessività della pena pecuniaria applicata sulla base dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 implicherebbe, per altro verso, la violazione dell’art. 27 Cost., che esige la proporzionalità del trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità del reato.

Secondo il rimettente, al fine di rimuovere il vulnus ai parametri costituzionali evocati, l’aumento del coefficiente di ragguaglio, che determina il valore giornaliero minimo delle pene detentive da sostituire, dovrebbe essere allineato alla misura massima dell’aumento delle singole pene pecuniarie, prefigurato dai criteri di delega di cui al citato art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009 (73,86%, in termini reali): prospettiva nella quale il coefficiente in questione dovrebbe rimanere conclusivamente fissato in euro 97, anziché in euro 250.

2.– In via preliminare, va rilevato che – contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato – il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo nel sollevare la questione risulta pienamente corretto.

L’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 stabilisce – per quanto di interesse in questa sede – che per la determinazione della pena pecuniaria sostitutiva il giudice individua un valore giornaliero, tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Precisa, altresì, che l’ammontare di ciascun “tasso” «non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare».

L’art. 135 cod. pen. prevede, a propria volta, nel testo attualmente in vigore, che «Quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva».

Ciò posto, va escluso che la formula «o frazione di euro 250», presente nel citato art. 135 cod. pen., abiliti il giudice a determinare discrezionalmente il valore giornaliero minimo della pena detentiva da sostituire in una somma anche inferiore ad euro 250. Come correttamente rilevato dal rimettente, la predetta formula deve intendersi, infatti, riferita alla sola ipotesi della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, e non anche a quella inversa, giacché solo nel primo caso emerge l’esigenza di tener conto di eventuali “resti” (ciò, stante la possibilità che l’ammontare della pena pecuniaria da convertire non corrisponda al coefficiente di ragguaglio o ad un suo multiplo).

Ma, al di là di ciò, con specifico riguardo alla sostituzione delle pene detentive brevi, l’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 è univoco nello stabilire che la somma indicata nell’art. 135 cod. pen. rappresenti il valore giornaliero minimo della pena da sostituire: né avrebbe senso individuare una soglia minima se, poi, fosse consentito al giudice scendere discrezionalmente al di sotto di essa.

3.– Le ulteriori eccezioni prospettate dalla difesa dello Stato a sostegno della dedotta inammissibilità della questione – una delle quali attiene, peraltro, a censura che il giudice a quo non ha affatto formulato (quella di violazione dell’art. 76 Cost.) – evocano, in realtà, profili di merito.

4.– Di essi non è necessario lo scrutinio, essendo la questione inammissibile per una diversa ragione.

4.1.– Al riguardo, giova ricordare come il criterio di ragguaglio fra pene detentive e pene pecuniarie – il quale consente di impostare in termini matematici una proporzione fra entità, in sé, palesemente eterogenee – fosse fissato, nella versione originaria del codice penale, in cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. Detto importo è stato oggetto di reiterati interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita del potere di acquisto della moneta, cui ha fatto da contraltare un contemporaneo aumento delle pene pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici, sulla base di un moltiplicatore talora identico (artt. 3 e 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 679, recante «Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale»; artt. 101 e 113 della legge n. 689 del 1981), talaltra più o meno significativamente differenziato (artt. 5 e 7 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 21 ottobre 1947, n. 1250, recante «Aumento delle sanzioni pecuniarie in materia penale»; artt. 1 e 3 della legge 12 luglio 1961, n. 603, recante «Modificazioni agli articoli 24, 26, 66, 78, 135 e 237 del Codice penale e agli articoli 19 e 20 del regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935 n. 835»).

Con la riforma attuata dalla legge n. 689 del 1981, il coefficiente di ragguaglio è stato, in particolare, innalzato da 5.000 lire a 25.000 lire (art. 101), con un parallelo aumento di cinque volte anche dell’ammontare delle singole pene pecuniarie (art. 113). Lo scopo era, dunque, quello di ristabilire i valori delle pene pecuniarie alterati dalla svalutazione, mantenendo immutato il loro equilibrio rispetto all’intero sistema di conversione.

L’evidenziato parallelismo è venuto meno, peraltro, con la legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive), che ha triplicato il tasso di ragguaglio, elevandolo a 75.000 lire (art. 1), senza tuttavia intervenire contestualmente sull’importo delle pene pecuniarie, rimasto così fermo ai livelli del 1981. Nella circostanza, dunque, il legislatore ha voluto, non tanto compensare la svalutazione della moneta intervenuta tra il 1981 e il 1993, quanto piuttosto modificare in termini assoluti il “rapporto di cambio” tra la pena detentiva e la pena pecuniaria: ciò, nell’accresciuta consapevolezza dell’altissimo rango del bene «libertà personale», che rende tale bene, in linea di principio, incommensurabile rispetto al patrimonio e che, comunque, laddove un ragguaglio sia necessario per un qualsiasi effetto giuridico, impone che la monetizzazione della libertà avvenga a un prezzo non “vile”.

Da ultimo, con la legge n. 94 del 2009, che qui segnatamente interessa, il criterio di ragguaglio ha subito un ulteriore, energico incremento, pari a quasi sei volte e mezzo, passando da euro 38 (somma risultante, per arrotondamento, dalla conversione dell’importo di lire 75.000) ad euro 250 (art. 3, comma 62). A siffatto incremento avrebbe dovuto tornare ad accompagnarsi un adeguamento delle pene pecuniarie, da effettuare sulla base di coefficienti differenziati e decrescenti a seconda della data di entrata in vigore delle disposizioni che hanno stabilito l’ammontare di dette pene: operazione della quale è stato, peraltro, incaricato il Governo, tramite lo strumento della delega legislativa (art. 3, comma 65). Come rimarca il rimettente, già in partenza tali moltiplicatori prefiguravano un aumento percentuale delle pene pecuniarie notevolmente inferiore, in termini reali, a quello del criterio di ragguaglio. La delega legislativa per l’adeguamento delle pene pecuniarie è rimasta, in ogni caso, inattuata: con la conseguenza che la riforma del 2009 è venuta, di fatto, a produrre effetti analoghi a quelli della riforma del 1993, vale a dire un innalzamento “secco” del rapporto di cambio tra pene detentive e pene pecuniarie.

Si tratta, come è evidente, di una modifica che torna a vantaggio dell’imputato, allorché sia la pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale); mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della legge n. 689 del 1981.

4.2.– Con l’odierna questione, il rimettente chiede a questa Corte di sostituire – con effetti limitati all’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi – il coefficiente di ragguaglio di 250 euro con quello di 97 euro: importo, quest’ultimo, che il giudice a quo individua applicando al precedente coefficiente (euro 38) un aumento percentuale pari a quello massimo che – secondo i suoi calcoli – avrebbe dovuto essere apportato, in termini reali, alle pene pecuniarie in forza dei criteri di delega di cui all’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009.

In questo modo, il rimettente invoca, peraltro, un intervento sostitutivo della disciplina sottoposta a scrutinio che comporta scelte riservate al legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.

Secondo quanto dianzi evidenziato, il legislatore, con la legge n. 94 del 2009 – così come con la precedente legge n. 402 del 1993 – ha inteso modificare il rapporto tra pena detentiva e pena pecuniaria oltre i limiti necessari a compensare la svalutazione monetaria intervenuta medio tempore, fissando un “tasso di monetizzazione” oggettivamente più elevato della pena limitativa della libertà personale. Si tratta di una scelta di politica criminale che rientra nell’ambito della discrezionalità legislativa, alla quale il giudice a quo muove critiche che attengono, nella sostanza, al piano della mera opportunità.

Il parametro cui agganciare l’auspicato intervento di “riequilibrio” del sistema non potrebbe essere costituito, in ogni caso, dai coefficienti di rivalutazione delle pene pecuniarie previsti dall’art. 3, comma 65, della legge n. 94 del 2009. Prospettando un simile intervento, il rimettente contrappone, in realtà, alla scelta legislativa censurata una propria soluzione personale, ritenuta più adeguata, ma non certo costituzionalmente imposta. L’idea sottesa a tale soluzione – e, cioè, che l’incremento del coefficiente di ragguaglio debba andare di pari passo a quello di aumento delle pene pecuniarie – non corrisponde, infatti, ad una esigenza costituzionale: e ciò tanto più ove si consideri che, nel frangente, l’aumento delle pene pecuniarie – che dovrebbe fornire il parametro di raffronto – è rimasto privo di concreta attuazione.

5.– La questione va dichiarata, pertanto, inammissibile (sulla inammissibilità delle questioni che richiedono interventi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, ex plurimis, sentenze n. 134 e n. 36 del 2012).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata dell’art. 135 del codice penale, come modificato dall’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Imperia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.

F.to:

Sabino CASSESE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2014.