Sentenza n. 134 del 2012

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SENTENZA N. 134

ANNO 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Alfonso                  QUARANTA                                      Presidente

-    Franco                    GALLO                                                  Giudice

-    Luigi                      MAZZELLA                                              

-    Gaetano                 SILVESTRI                                               

-    Sabino                    CASSESE                                                  

-    Paolo Maria            NAPOLITANO                                         

-    Giuseppe                FRIGO                                                       

-    Alessandro             CRISCUOLO                                            

-    Paolo                      GROSSI                                                     

-    Giorgio                   LATTANZI                                                

-    Aldo                       CAROSI                                                    

-    Marta                     CARTABIA                                               

-    Sergio                     MATTARELLA                                        

-    Mario Rosario        MORELLI                                                 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza del 20 gennaio 2011 e dalla Corte di cassazione con ordinanza del 21 aprile 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 77 e 251 del registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 aprile 2012 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1.–– Con ordinanza del 20 gennaio 2011 la Corte d’appello di Trieste ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, e 41 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.

La Corte rimettente premette che oggetto del giudizio è l’appello avverso la sentenza con la quale gli appellanti sono stati condannati dal Tribunale di Udine in ordine al «delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale p. e p. dagli artt. 110 e 40, comma 2, c.p. e dagli artt. 216, comma 1 n. 1, 223, comma 1, e 219 R.D. 16.3.1942, n. 267 (l. Fall.), per avere (recte: perché), in concorso tra loro, quali componenti del consiglio di amministrazione, e quindi amministratori della società (omissis) con sede in Trivignano Udinese (UD) […] dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Udine n. 30/2006 del 26 giugno 2006, distraevano, dissipavano, ovvero non impedivano la distrazione e la dissipazione, di attività della società fallita».

La Corte rimettente evidenzia che il Tribunale di Udine, con la sentenza appellata, ha condannato tutti gli imputati, previa concessione delle attenuanti generiche ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti contestate, alla pena principale di anni due di reclusione e alla pena accessoria, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale per la durata di anni dieci e dell’incapacità, per la stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. A tutti gli imputati è stato concesso, inoltre, il beneficio della sospensione condizionale della pena.

All’udienza dibattimentale del giudizio di appello il difensore degli imputati ha rinunciato ai motivi d’appello diversi da quello afferente l’entità della pena principale e delle conseguenti pene accessorie, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e ha concluso chiedendo la riduzione di entrambe le pene, quella principale e quella accessoria.

Il Procuratore Generale della Repubblica ha chiesto la riduzione della pena inflitta agli imputati, tenuto conto «dell’intervenuto, seppur tardivo, risarcimento del danno nei confronti del fallimento già costituitosi parte civile, costituzione revocata in apertura d’udienza, a quella di anni uno e mesi sei di reclusione e la conferma delle ulteriori statuizioni dell’impugnata sentenza, fra cui, l’irrogazione delle pene accessorie anzidette per la durata di anni dieci».

La Corte d’appello di Trieste, così delineata la vicenda processuale, precisa di aver esaminato i profili di responsabilità degli imputati, particolarmente per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato e di ritenere che la pena inflitta agli imputati possa essere effettivamente ridotta come richiesto dalla pubblica accusa.

In particolare, la rimettente valorizza, ai fini della riduzione della pena, i seguenti fatti: che la contestata bancarotta fraudolenta non sarebbe stata consumata con artifizi particolari – le condotte materiali risultano in termini trasparenti dalle stesse scritture contabili tanto che, non a caso, non è contestata la bancarotta documentale –, che la «distrazione» ha connotati del tutto peculiari, e che gli imputati si sono adoperati, seppure tardivamente, per risarcire il danno, in modo da meritare l’applicazione dell’attenuante comune di cui all’art. 62, numero 6), del codice penale.

Secondo la Corte rimettente, stante la ridotta gravità dei fatti, anche le pene accessorie dovrebbero, secondo equità, essere ridotte, ma osterebbe a tale riduzione il disposto dell’ultimo comma dell’art. 216 del r.d. n. 267 del 1942 che stabilisce la durata di tali pene in misura fissa (dieci anni).

Anche la giurisprudenza di legittimità ha interpretato – anche se non univocamente – la norma in esame nel senso che non è possibile una rimodulazione della pena accessoria in relazione alla maggiore o minore gravità del fatto (Corte di cassazione, sezione V penale, 18 febbraio 2007, n. 39337; sezione V penale, 18 febbraio 2010, n. 17960).

La Corte d’appello di Trieste cita anche la giurisprudenza contraria (Corte di cassazione, sezione V penale, 31 marzo 2010, n. 23720) che, se pur fondata su esigenze di equità e di conformità a Costituzione, ritiene di non poter seguire a fronte dell’inderogabile previsione normativa significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.

Secondo la rimettente, l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 non sarebbe conforme a molteplici principi costituzionali, da quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), a quelli che riconoscono il diritto al lavoro e che permettono ad ogni cittadino di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). La disposizione legislativa contrasterebbe, infine, con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), e con i principi che indirizzano a fini sociali l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e che ne riconoscono la libertà.

La norma oggetto di censura, nel predeterminare in misura fissa la durata delle pene accessorie, non terrebbe conto del fatto che tali pene accessorie conseguono a comportamenti di gravità assolutamente diversa, essendo profondamente differenziate le varie condotte sussunte nella norma incriminatrice – bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – difformi fra loro sul piano oggettivo e che consentono al giudice di determinare la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di reclusione, riconoscendosi in tal modo implicitamente che la fattispecie astratta trova applicazione rispetto a condotte di gravità molto diversa tra loro.

Lo spettro sanzionatorio sarebbe ancora più ampio, posto che le pene accessorie predeterminate nella durata trovano applicazione indifferentemente tanto nelle ipotesi aggravate che in quelle attenuate contemplate dall’art. 219 del r.d. n. 267 del 1942.

Secondo la Corte rimettente, infine, una pena accessoria di tale durata – «e che può prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» – non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del condannato anche quale membro economicamente attivo della società, considerato che non gli è consentito di svolgere alcuna attività imprenditoriale di produzione di beni o servizi ovvero commerciale, anche come imprenditore individuale.

Tale pena accessoria, pertanto, comprimerebbe significativamente, «nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale», le attitudini lavorative del condannato, per un tempo che potrebbe essere persino superiore di dieci volte la durata della pena principale inflitta.

2.–– È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

Secondo la difesa statale, lo stesso giudice a quo avrebbe dato atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 – lungi dall’aver stabilito la durata delle pene accessorie nella misura fissa ed inderogabile di dieci anni – ha solo individuato la misura massima delle stesse, lasciando al giudice la commisurazione della durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell’art. 133 cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, 31 marzo 2010, n. 23720).

L’Avvocatura dello Stato prende atto che il rimettente afferma di non poter seguire tale indirizzo, a ciò ostando l’inderogabilità della previsione normativa, significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, della legge fallimentare. Osserva, al riguardo, che l’opzione interpretativa autorevolmente avallata dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte trova il suo fondamento nella consapevolezza dell’incostituzionalità della disposizione in questione, ove interpretata in senso angustamente letterale, e della conseguente esigenza di darne una lettura costituzionalmente orientata.

Sulla base di queste argomentazioni l’Avvocatura dello Stato chiede che la questione sia dichiarata infondata.

3.–– Con ordinanza del 21 aprile del 2011 la Corte di cassazione ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.

La Corte rimettente premette, in fatto, di dover giudicare sul ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Caltanissetta nei confronti di alcuni imputati, a vario titolo, di fatti di bancarotta fraudolenta.

Tra i motivi di impugnazione, prosegue la rimettente, vi è quello relativo all’applicazione delle sanzioni accessorie – non dedotte nell’accordo pattizio – in misura fissa, anziché pari alla durata della pena principale.

Su questo motivo di ricorso, il Collegio dà atto di non poter decidere allo stato degli atti, ravvisando un contrasto di pronunce sul punto anche all’interno della stessa sezione della Corte di cassazione.

Il contrasto attiene all’interpretazione dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e, segnatamente, alla durata della sanzione dell’inabilitazione ivi prevista.

L’orientamento seguito pressoché costantemente dalla Corte in tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin dalla sentenza della sezione V del 16 ottobre 1973, n. 126018) è nel senso che la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali ed alla incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sia fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni. Pertanto, non trattandosi di pena indeterminata, la sua durata si sottrae alla disciplina disposta dall’art. 37 cod. pen.

Tuttavia, a fronte di siffatta lettura, recenti sentenze (Corte di cassazione, sezione V penale, 10 marzo 2010, n. 9672; sezione V penale, 31 marzo 2010, n. 23720) hanno ritenuto che la fissità della sanzione accessoria contrasti con «il "volto costituzionale” dell’illecito penale», e che il sistema normativo debba lasciare, comunque, adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, al fine di permettere l’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete: in tal senso sarebbe illegittima una previsione che lasci il giudice privo di sufficienti margini di adattamento del trattamento sanzionatorio alle peculiarità della singola ipotesi concreta.

La Corte rimettente precisa che questo secondo indirizzo ermeneutico è ispirato da importanti pronunce della Corte costituzionale (ordinanze nn. 91 e 4 del 2008, n. 50 del 1980) nelle quali si è detto che: «In linea di principio [...] previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il "volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio di illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionatorio e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».

A parere della Corte di cassazione, la sottrazione del giudizio ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. urta con le previsioni costituzionali degli artt. 3 e 27 Cost.

Venendo alla motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, la rimettente precisa, in primo luogo, che l’interpretazione costituzionalmente orientata si scontra con il dato testuale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e che spetta alla Corte costituzionale l’eventuale affermazione di illegittimità della previsione legislativa.

In questa prospettiva si ravvisa un contrasto tra l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, e gli artt. 3 e 27 della Carta fondamentale, attesa la rigidità dispositiva della prescrizione penale, a fronte del variare della situazione concreta, caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale.

La Corte di cassazione si riferisce, in particolare, alla ipotesi di «bancarotta preferenziale» nonché alla singolare ampiezza dell’escursione afflittiva contemplata dalle circostanze speciali di cui all’art. 219, primo e ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.

Inoltre, evidenzia la sproporzione che l’ordinamento appresta nei riti alternativi in cui – come nel caso in esame – la risposta della pena principale risulta grandemente inferiore rispetto a quella accessoria, a cagione della diminuzione premiale consentita o imposta dal legislatore.

Anche in relazione all’art. 111 Cost. il ragionamento precedentemente svolto sembra, secondo la Corte rimettente, rafforzarsi. Tale norma costituzionale, nell’imporre all’ordinamento la celebrazione di processi «giusti», non pretende soltanto un corretto svolgimento degli stessi per il rispetto della legge, delle garanzie assegnate alle parti, del contraddittorio e per l’espletamento del processo in limiti di tempo ragionevoli. Essa prefigura anche la garanzia di un’equa soluzione, alla luce delle risultanze di causa che il giudice acquisisce nella varie fasi processuali.

Risulterebbero vanificati gli strumenti di garanzia che assicurano equilibrio del dibattito e pienezza di poteri argomentativi per arrivare, in un processo «giusto», ad una decisone «giusta», se poi la soluzione che compete al giudice, terzo ed imparziale, fosse coartata nella fase decisionale in ordine ai dati correttamente versati in atti.

In altri termini, non si comprenderebbe quale effettivo significato possa darsi ad un sistema che annovera un dettagliato paradigma valutativo negli artt. 132 e 133 cod. pen., ma, all’effetto pratico, impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad un’equa e adeguata considerazione sanzionatoria, ancorché «accessoria».

In conclusione, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio del «minore sacrificio necessario» nella risposta punitiva dell’ordinamento a fronte della violazione penale, quando nulla impedirebbe di estendere i parametri propri della pena principale alla misura della pena accessoria, assegnando al giudice, caso per caso, la più opportuna statuizione.

3.1.–– È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

Secondo la difesa statale lo stesso giudice a quo avrebbe dato atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, lungi dall’aver stabilito la durata delle pene accessorie nella misura fissa ed inderogabile di dieci anni, ha solo individuato la misura massima delle stesse, lasciando al giudice la commisurazione della durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell’art. 133 cod. pen. (in particolare, Corte di cassazione 31 marzo 2010, n. 23720).

Il rimettente afferma di non poter seguire tale indirizzo a ciò ostando l’inderogabilità della previsione normativa, significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.

In realtà, l’opzione interpretativa autorevolmente avallata dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte risulta proprio dalla consapevolezza dell’incostituzionalità della disposizione in questione, ove interpretata in senso angustamente letterale, e della conseguente esigenza di darne una lettura costituzionalmente orientata.

Sulla base di queste argomentazioni l’Avvocatura dello Stato chiede che la questione sia dichiarata infondata.

Con memoria depositata in prossimità dell’udienza la difesa statale ribadisce la proprie argomentazioni circa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata e conclude per l’infondatezza della questione sollevata.

Considerato in diritto

1.–– La Corte d’appello di Trieste, con ordinanza del 20 gennaio 2011, e la Corte di cassazione, con ordinanza del 21 aprile del 2011, hanno sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, 41 e 111 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.

Secondo la Corte d’appello di Trieste la determinazione dell’entità della pena accessoria del delitto di bancarotta fraudolenta in misura fissa violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost. perché non consentirebbe di tener conto del fatto che tali pene accessorie conseguono a condotte di gravità assolutamente diversa – bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – tanto da consentire al giudice di determinare la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di reclusione, riconoscendosi in tal modo implicitamente che la fattispecie astratta trova applicazione rispetto a condotte di gravità molto diverse tra loro.

Inoltre, una pena accessoria di tale durata – e che «può prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» – non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del condannato quale membro economicamente attivo della società, violando, quindi, gli artt. 27, terzo comma, e 4 Cost.

Infine, risulterebbe violato anche l’art. 41 Cost., in quanto una pena accessoria così modulata «comprime significativamente, nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale le attitudini lavorative del condannato per un tempo che può essere persino superiore di dieci volte la durata della pena principale inflitta».

Anche la questione sollevata dalla Corte di cassazione si fonda sulla violazione degli artt. 3, 27 e 111 Cost. perché la rigidità della prescrizione, a fronte del variare della situazione concreta, determinerebbe una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale e, anche, una violazione del «giusto processo».

1.1.–– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri, della legittimità costituzionale della disciplina che stabilisce la durata della pena accessoria, prevista, per il delitto di bancarotta fraudolenta dall’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella misura fissa di dieci anni.

2.–– Premesso che la Corte intende ribadire (da ultimo, ordinanza n. 293 del 2008) l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma, tuttavia le questioni di legittimità costituzionale oggi all’esame sono inammissibili in considerazione del petitum formulato dai rimettenti.

Infatti, in entrambe le ordinanze, si lamenta la non conformità a Costituzione della predeterminazione nella misura fissa di dieci anni della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 per il delitto di bancarotta.

La Corte d’appello di Trieste afferma che la predeterminazione in misura fissa della pena accessoria impedisce l’applicazione dell’art. 37 cod. pen. secondo il quale «Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato».

Nello stesso senso la Corte di cassazione, ritenendo preclusa un’interpretazione dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, che consenta di applicare l’art. 37 cod. pen., vuole giungere al medesimo risultato mediante una pronuncia di questa Corte.

Le rimettenti, dunque, chiedono alla Corte di aggiungere le parole «fino a» all’ultimo comma dell’art. 216 del r.d. n. 267 del 1942 al fine di rendere possibile l’applicazione dell’art. 37 cod. pen.

Tuttavia, la soluzione prospettata è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva.

Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore.

Pertanto deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevate – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, e 41 della Costituzione – dalla Corte d’appello di Trieste e – in riferimento agli articoli 3, 27 e 111 della Costituzione – dalla Corte di cassazione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere