Sentenza n. 236 del 2008

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SENTENZA N. 236

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                     BILE                                                                Presidente

- Giovanni Maria        FLICK                                                              Giudice

- Francesco                AMIRANTE                                                           ”

- Ugo                         DE SIERVO                                                           ”

- Paolo                       MADDALENA                                                      ”

- Alfio                        FINOCCHIARO                                                    ”

- Alfonso                    QUARANTA                                                         ”

- Franco                     GALLO                                                                  ”

- Luigi                        MAZZELLA                                                           ”

- Gaetano                   SILVESTRI                                                            ”

- Sabino                     CASSESE                                                              ”

- Giuseppe                 TESAURO                                                             ”

- Paolo Maria             NAPOLITANO                                                     ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) – come sostituiti dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione) –, promossi con ordinanze del 10 aprile 2006 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Canicattì, del 6 maggio e del 5 settembre 2006 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata, del 13 luglio (nn. 2 ordinanze) 2007 dal Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, rispettivamente iscritte ai nn. 413 e 578 del registro ordinanze 2006 e ai nn. 540, 781 e 783 del registro ordinanze 2007, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 32 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2007.

            Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1.− Con tre ordinanze di analogo tenore, il Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì (r.o. n. 413 del 2006) e di Licata (r.o. n. 578 del 2006 e n. 540 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) – come sostituiti dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione) –, nella parte in cui, rispettivamente, configurano la fattispecie delittuosa dell’indebito trattenimento del cittadino extracomunitario nel territorio dello Stato (comma 5-ter) e l’arresto obbligatorio del soggetto responsabile di tale delitto (comma 5-quinquies).

I rimettenti, chiamati a provvedere in merito alla convalida dell’arresto di cittadini extracomunitari inottemperanti all’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale, emesso dal questore ai sensi dell’art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, hanno disposto la scarcerazione degli arrestati con motivazione fondata sulla carenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla sussistenza del delitto contestato, e successivamente hanno sospeso i giudizi di convalida.

Le censure prospettate concernono in primo luogo l’asserito contrasto della previsione dell’arresto obbligatorio con i principi sanciti dagli artt. 27 e 13 Cost. A parere dei rimettenti, il legislatore ha imposto l’applicazione della “misura eccezionale” di limitazione provvisoria della libertà nei confronti di soggetti i quali «non si trova[no] generalmente nelle condizioni materiali di adempiere spontaneamente l’ordine di espulsione», per mancanza di documenti, mezzi finanziari e capacità di procurarsi un regolare mezzo di trasporto per fare ritorno in patria, e dunque a fronte di situazioni nelle quali l’ottemperanza all’ordine di allontanamento può risultare inesigibile.

I giudici a quibus si soffermano su tale aspetto del fenomeno, osservando come, in mancanza del trasferimento del cittadino extracomunitario fuori dal territorio dello Stato ad opera dell’autorità, e stante «l’impossibilità pratica da parte dello straniero di fare utilmente rientro da solo nel suo paese», non potrebbe «oggettivamente pretendersi che questi esegua spontaneamente un provvedimento a lui pregiudizievole». I rimettenti aggiungono l’ulteriore considerazione secondo cui l’ottemperanza all’ordine di espulsione potrebbe esporre il cittadino extracomunitario a conseguenze personali e giuridiche «perfino più gravi di quelle derivanti dalla sua permanenza illegale in Italia», ogni qual volta lo stesso, non potendo raggiungere il Paese d’origine, sia costretto a fare ingresso in altro Stato, con il rischio «certamente inesigibile» di subire ulteriori limitazioni della libertà.

In un solo caso (r.o. n. 540 del 2007) è prospettato anche il contrasto della normativa censurata con l’art. 10 Cost., per violazione degli obblighi di tutela delle vittime del traffico internazionale di esseri umani.

Le norme censurate, secondo i giudici a quibus, risulterebbero inoltre elusive della pronuncia della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del previgente art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, che stabiliva «identico congegno normativo». Al solo fine di ripristinare l’arresto obbligatorio, infatti, il legislatore avrebbe «surrettiziamente» trasformato la precedente fattispecie contravvenzionale in una previsione delittuosa, il cui rigore sanzionatorio non troverebbe giustificazione nel bilanciamento tra interesse protetto e inviolabilità della libertà personale.

I rimettenti segnalano quindi il contrasto della normativa censurata con il principio di uguaglianza, rilevando come tale normativa realizzi «una indebita e arbitraria disparità di trattamento tra la condotta incriminata e altri fatti per i quali, invece, malgrado la loro obiettiva maggiore gravità, l’arresto è reso solamente facoltativo in base ai principi generali dettati dal Codice di procedura penale».

Con riferimento alla rilevanza delle questioni, i giudici a quibus ne affermano la sussistenza, in quanto dall’accoglimento delle stesse discenderebbero effetti favorevoli in capo agli indagati.

1.1. – Con atti di identico tenore, in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso in via principale per la declaratoria di manifesta inammissibilità delle questioni e, in subordine, di non fondatezza.

Quanto al profilo preliminare, la difesa erariale evidenzia la carenza di motivazione in ordine alla rilevanza delle questioni, affermata dai rimettenti con il generico riferimento agli «effetti favorevoli che deriverebbero, in capo all’indagato, dall’accoglimento delle questioni».

Nel merito, l’Avvocatura generale osserva come la peculiare gravità della condotta del soggetto il quale, espulso dal territorio dello Stato, continui deliberatamente a soggiornarvi, rappresenti una costante della disciplina in materia di immigrazione, essendo stato l’arresto obbligatorio previsto già per l’originaria fattispecie contravvenzionale introdotta dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

Con la novella recata dalla legge n. 271 del 2004, di conversione del decreto-legge n. 241 del 2004, il legislatore è intervenuto per rimodulare il sistema sanzionatorio, diversificando le possibili condotte offensive e attribuendo natura delittuosa a quelle più gravi.

All’esito di tale opera di risistemazione risultano infatti diversamente disciplinate l’ipotesi di ingresso illegale nel territorio dello Stato (equiparata all’omessa richiesta di permesso di soggiorno nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, nonché ai casi di revoca o di annullamento del permesso), e quella di espulsione disposta per scadenza del permesso di soggiorno superiore ai sessanta giorni in mancanza di richiesta di rinnovo. Alla prima ipotesi, ictu oculi più grave, il legislatore ha riservato il trattamento più severo, stabilendo la pena della reclusione da uno a quattro anni, mentre ha confermato, per la seconda e meno grave fattispecie, la natura contravvenzionale e la sanzione dell’arresto da sei mesi ad un anno.

Ritiene, pertanto, la difesa erariale che le scelte operate dal legislatore sotto il profilo della dosimetria della pena risultino rispettose del limite della ragionevolezza.

Quanto, infine, alla «inesigibilità» dell’ottemperanza all’ordine di espulsione, prospettata dai rimettenti come conseguenza delle difficoltà che il cittadino extracomunitario incontrerebbe nel fare ritorno al Paese d’origine, l’Avvocatura generale si limita ad osservare che l’assunto non è comprensibile, e che, in ogni caso, «proverebbe troppo».

2. – Con due ordinanze di identico tenore (r.o. n. 781 e n. 783 del 2007) il Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dalla legge n. 271 del 2004, nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, del medesimo decreto.

Entrambi i giudizi principali riguardano la convalida dell’arresto di cittadini extracomunitari inottemperanti all’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale, emesso dal questore ai sensi dell’art. 14, comma 5-bis, del testo unico in materia di immigrazione. Il giudice a quo riferisce che gli interessati – all’esito degli accertamenti dattiloscopici – risultano privi di precedenti penali e giudiziali, e mai segnalati alla polizia.

Il rimettente, che ha sospeso i giudizi prima di pronunciarsi sulla convalida, censura la previsione dell’arresto obbligatorio per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, evidenziando in premessa il carattere doppiamente eccezionale dei casi in cui la privazione della libertà personale avviene non solo al di fuori della riserva di giurisdizione, ma anche precludendo «ogni valutazione in ordine alla opportunità o necessità nel caso concreto di privare l’individuo della libertà personale». In tema di tutela della libertà personale, infatti, l’art. 13 Cost. consente la previsione della misura dell’arresto obbligatorio solo «in casi eccezionali di necessità ed urgenza», tra i quali non sarebbe annoverabile l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del testo unico in materia di immigrazione.

La scelta legislativa di rendere obbligatorio l’arresto in flagranza per una fattispecie, come quella in esame, punita con la reclusione da uno a quattro anni, e che si sostanzia nell’inottemperanza ad un ordine impartito dall’autorità amministrativa, risulterebbe priva di ragionevolezza (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 394 del 1994, n. 409 del 1989, n. 103 del 1982 e n. 26 del 1979), come dimostrerebbe il raffronto con analoghe fattispecie previste dall’ordinamento, alla luce dei criteri generali stabiliti nell’art. 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, nei quali trovano positiva specificazione i limiti configurati dalla Costituzione ai fini dell’adozione della eccezionale misura privativa della libertà.

L’arresto obbligatorio è infatti previsto dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., per delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a venti anni e nel minimo a cinque anni, e, al comma 2 del medesimo art. 380, per reati, tassativamente indicati, le cui pene edittali sono in ogni caso significativamente superiori, nel massimo, a quella prevista per il delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998.

L’irragionevolezza della scelta legislativa, e la conseguente ingiustificata disparità di trattamento, deriverebbero proprio dall’avere il legislatore accomunato, ai fini della adozione della misura dell’arresto obbligatorio, fattispecie non comparabili sia avuto riguardo al trattamento sanzionatorio, sia sotto il diverso profilo dell’allarme sociale destato. A parere del rimettente, infatti, l’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale non produce alcuna offesa diretta ad interessi costituzionalmente rilevanti per la collettività (si tratta di un “reato ostacolo”), e, per altro verso, nemmeno si può ritenere che il cittadino extracomunitario sia socialmente pericoloso in ragione dello stato di clandestinità o perché illegalmente presente nel territorio nazionale.

Il giudice a quo istituisce quindi un ulteriore raffronto tra il reato in esame e altre fattispecie che, a suo dire, non solo presentano struttura analoga al primo, ma anche risultano direttamente o potenzialmente lesive di interessi collettivi, e per le quali, invece, l’arresto in flagranza è soltanto facoltativo.

Il riferimento immediato è al reato di evasione, che si sostanzia nella violazione di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, e «non di un semplice provvedimento amministrativo», da parte di un soggetto il quale, per il solo fatto di essere detenuto per altra causa, deve presumersi socialmente pericoloso.

Il raffronto prosegue con il richiamo al reato previsto dall’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione), che punisce l’inosservanza agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con la reclusione da uno a cinque anni, e per il quale il comma 3 della stessa disposizione prevede l’arresto soltanto facoltativo. Anche in questa ipotesi, evidenzia il rimettente, come nel reato di evasione, l’inosservanza riguarda un provvedimento dell’autorità giudiziaria e l’agente è soggetto la cui elevata pericolosità sociale è stata già accertata.

Allo stesso modo, l’art. 8, comma 1-bis, della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive), prevede l’arresto facoltativo dei soggetti già resisi responsabili di fatti di violenza nel corso di manifestazioni sportive, e dunque sicuramente pericolosi.

Quanto, infine, al trattamento riservato dal legislatore alle altre ipotesi di violazione o trasgressione di provvedimenti emessi dalla pubblica autorità (amministrativa o giurisdizionale), il rimettente richiama in via esemplificativa le fattispecie previste dagli artt. 388 e 650 del codice penale, nonché dagli artt. 9, comma 1, della legge n. 1423 del 1956 e 51 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), per sottolineare come, in tali ipotesi, l’arresto non sia previsto, neppure in forma facoltativa.

La disamina che precede renderebbe evidente, a parere del giudice a quo, che il legislatore ha trattato allo stesso modo situazioni affatto difformi, violando il principio di uguaglianza che, benché riferito testualmente ai «cittadini», deve ritenersi esteso agli stranieri, in quanto norma diretta alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 104 del 1969).

La dedotta lesione del principio sancito dall’art. 13, terzo comma, Cost., è argomentata previo richiamo ai rilievi già svolti, secondo cui il legislatore può stabilire restrizioni provvisorie alla libertà personale, al di fuori dell’intervento dell’autorità giudiziaria, solo «in casi eccezionali di necessità ed urgenza», laddove l’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 1998, che concerne la mancata osservanza dell’ordine di allontanamento disposto dal questore, configurerebbe un reato la cui struttura «non prevede né la lesione né la messa in pericolo diretta e immediata di un bene costituzionalmente protetto».

Secondo il rimettente, la ratio della previsione risiederebbe, infatti, «unicamente nella scelta del legislatore di assicurare, mediante la minaccia di sanzioni penali, l’ottemperanza ad un provvedimento amministrativo, e quindi di garantire l’effettività dei meccanismi di espulsione degli stranieri “indesiderati”».

Il giudice a quo si sofferma ancora sul profilo soggettivo dell’assenza di una condizione di pericolosità specifica dell’agente, evidenziando ulteriormente come, a fronte di soggetti mai condannati né giudicati per altri reati, non sia possibile formulare un giudizio di pericolosità sociale (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 64 del 1977 e n. 126 del 1972). La permanenza clandestina dello straniero in Italia non costituisce di per sé reato – essendo invece condizione che legittima l’espulsione –, né la formale assenza di un titolo legittimante l’ingresso nel territorio dello Stato può essere considerata in sé indice di specifica pericolosità del soggetto.

Il rimettente esamina quindi le conseguenze del censurato automatismo osservando come, in molti casi, gli organi di polizia siano costretti a procedere all’arresto di soggetti che non presentano alcun profilo di pericolosità sociale, e che sono talora perfino inseriti nel contesto locale di riferimento. In questi casi, rileva ancora il rimettente, l’adozione della misura precautelare prescinde dalla sua utilità (non apprezzabile né dalla polizia in fase di esecuzione, né dall’autorità giudiziaria in sede di convalida), senza trovare giustificazione nella gravità oggettiva del fatto ovvero nella pericolosità del soggetto agente.

Sarebbe da escludere, infine, secondo il giudice a quo, qualsiasi strumentalità tra l’obbligatorietà dell’arresto e l’esigenza di garantire l’ottemperanza al provvedimento di allontanamento: l’effetto di deterrenza, attraverso il quale il legislatore intende assicurare l’efficacia del procedimento di espulsione, può legittimamente essere rappresentata dalla sanzione penale inflitta dall’autorità giudiziaria all’esito di un giusto processo, non anche da una misura precautelare alla quale la Costituzione e la legislazione penale assegnano altra funzione (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2004).

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente evidenzia la maggiore ampiezza del controllo sull’operato della polizia giudiziaria che il giudice della convalida è chiamato ad effettuare nei casi di arresto facoltativo, come affermato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il controllo giudiziale si estende alla valutazione dei presupposti sostanziali della misura limitativa della libertà (gravità del fatto, pericolosità dell’agente), avuto riguardo agli elementi conosciuti o conoscibili al momento del fatto.

Pertanto, in caso di accoglimento della questione, sarebbe restituita al giudice della convalida la possibilità di sindacare l’adozione della misura precautelare sotto tutti i profili sopra indicati e, in definitiva, di non convalidare l’arresto in ipotesi di carenza di detti presupposti.

Ancora a proposito della rilevanza della questione, il giudice a quo ribadisce l’autonomia del giudizio di convalida rispetto al successivo giudizio direttissimo (obbligatorio nei casi di specie), e richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 1993, nella quale si è affermato che nel giudizio di convalida «la rilevanza della questione permane, trattandosi di stabilire se la liberazione dell’arrestato debba considerarsi conseguente all’applicazione dell’art. 391, settimo comma, ovvero più radicalmente, alla caducazione con effetto retroattivo della disposizione in base alla quale gli arresti furono eseguiti».

2.1. – Nel giudizio introdotto con l’ordinanza r.o. n. 783 del 2007 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

Nell’atto di intervento la difesa erariale ripropone gli argomenti già prospettati negli omologhi atti riguardanti i giudizi introdotti con le ordinanze emesse dal Tribunale di Agrigento, già sintetizzati al paragrafo 1.1.

Considerato in diritto

1. − Con tre distinte ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 413 e n. 578 del 2006, n. 540 del 2007), il Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì e di Licata, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituiti dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), nella parte in cui, rispettivamente, configurano la fattispecie delittuosa dell’indebito trattenimento del cittadino extracomunitario nel territorio dello Stato (comma 5-ter) e l’arresto obbligatorio del soggetto responsabile di tale delitto (comma 5-quinquies).

Il Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, con le rimanenti ordinanze, di identico tenore (r.o. numeri 781 e 783 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, del medesimo d.lgs. n. 286 del 1998.

2. – I giudizi possono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza per la parziale coincidenza dell’oggetto delle singole questioni e dei parametri evocati.

3. – Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze r.o. n. 413 del 2006 del Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Canicattì, e con le ordinanze r.o. numeri 578 del 2006 e 540 del 2007 dello stesso Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata.

Dai suddetti atti introduttivi emerge che i giudici rimettenti hanno ordinato l’immediata liberazione degli arrestati per carenza del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla consumazione del reato loro contestato. Poiché i giudici a quibus hanno già escluso la possibilità di convalidare gli arresti eseguiti, l’esito del presente giudizio incidentale di legittimità costituzionale non può spiegare alcun effetto nei giudizi principali. Da ciò discende la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate, per difetto di rilevanza.

3.1. − La questione di legittimità costituzionale sollevata con le ordinanze r.o. numeri 781 e 783 del 2007 del Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, non è fondata.

3.2. − La previsione legislativa dell’arresto obbligatorio in flagranza di reato obbedisce all’intento del legislatore di contenere la discrezionalità della polizia giudiziaria in tutti i casi in cui lo stesso ritiene che sussistano indilazionabili esigenze di tutela della collettività. L’impianto del vigente codice di procedura penale è retto, nella materia de qua, da due criteri enunciati in modo distinto dalla legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). Il primo ha natura quantitativa e si basa sulla gravità del reato, quale risulta dalle pene edittali, minima e massima, previste. Il secondo ha natura qualitativa e si basa su «speciali esigenze di tutela della collettività».

Al primo criterio si informa l’art. 380, comma 1, del codice di procedura penale, che prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per reati puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Al secondo criterio si informa il comma 2 dello stesso articolo, che contempla, accanto ai reati consumati, anche quelli tentati, per i quali, ai sensi dell’art. 56 del codice penale, la pena è diminuita da un terzo a due terzi. Tale diminuzione di pena porta il minimo e il massimo applicabile ai suddetti reati a valori molto vicini a quelli previsti dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998.

3.3. − Dal dato sopra esposto si desume che rilevano, per questa seconda fascia di reati, non i valori della pena in sé e per sé considerati, ma le particolari esigenze di tutela della collettività, che vengono apprezzate dal legislatore in rapporto ad una serie molteplice di elementi, storicamente mutevoli e frutto di scelte di politica criminale non censurabili in sede di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, a meno che non si tratti di opzioni manifestamente irragionevoli.

La manifesta irragionevolezza può essere rilevata o a seguito di confronto con tertia comparationis omogenei o in esito alla constatazione di una contraddizione intrinseca della norma censurata.

Nella fattispecie oggetto del presente giudizio non ricorrono né la prima né la seconda ipotesi.

3.4. − Non la prima, poiché, come già s’è rilevato, l’ordinamento conosce previsioni di arresto obbligatorio in flagranza per reati, consumati o tentati, le cui pene, minime e massime, sono fissate dal legislatore su valori analoghi a quelli del reato di ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato.

A puro titolo esemplificativo, in aggiunta a quanto detto sopra a proposito del reato tentato, si può citare l’art. 624-bis cod. pen., che prevede, per il furto in abitazione e per il furto con strappo, la reclusione da uno a sei anni. Tale fattispecie è stata inserita dall’art. 10, comma 2, della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), tra i casi di arresto obbligatorio in flagranza contemplati dall’art. 380, comma 2, cod. proc. pen.. Come nel caso oggetto del presente giudizio, si tratta di azioni delittuose che hanno provocato, in tempi successivi all’entrata in vigore del codice di procedura penale, un aumentato allarme sociale, cui il legislatore ha ritenuto di rispondere, tra l’altro, con la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza.

Quanto al rilievo concernente il rapporto tra l’arresto obbligatorio e la tenuità della pena edittale, questa Corte ha precisato, per un caso analogo, che «si tratta di una scelta di politica criminale di prevenzione sociale di spettanza del legislatore, il quale ha ritenuto di dover prescindere, nelle sue discrezionali determinazioni, dall’entità obiettiva del reato e della pena edittale» (sentenza n. 588 del 1989, conforme alla sentenza n. 211 del 1975; lo stesso principio esprime la sentenza n. 305 del 1996).

Più in generale, questa Corte ha messo in rilievo l’insufficienza delle censure di legittimità costituzionale basate su «una comparazione tra norme concernenti misure cautelari, condotta sul solo piano dell’offensività piuttosto che su quello, più ampio, delle complessive esigenze che possono essere assicurate attraverso le misure in questione» (sentenza n. 22 del 2007).

La scelta dell’arresto obbligatorio in flagranza per il reato oggetto dei giudizi a quibus è collegata ad una risposta politica che il Parlamento ha ritenuto di attuare, in questo come in altri casi, a fronte dell’aumentata percezione sociale della pericolosità di un fenomeno (nella specie, l’inottemperanza all’ordine di allontanamento conseguente ad un provvedimento di espulsione), ferma restando la garanzia del controllo del giudice sull’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura. Questa Corte infatti ha richiamato l’attenzione sul rilievo che «l’art. 385 cod. proc. pen. esclude in via generale l’arresto quando, tenuto conto delle circostanze, il fatto appare compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, ovvero in presenza di una causa di non punibilità: e la stessa regola non può non valere, a fortiori, quando si tratti, come nella specie, di elemento negativo interno allo stesso fatto tipico» (sentenza n. 5 del 2004).

Non spetta a questa Corte esprimere valutazioni sull’efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti antigiuridici che si manifestino nell’ambito del fenomeno imponente dei flussi migratori dell’epoca presente, che pone gravi problemi di natura sociale, umanitaria e di sicurezza. Al giudice delle leggi appartiene il compito di verificare che il legislatore non abbia introdotto ingiustificate disparità di trattamento all’interno di un quadro normativo storicamente dato.

Per i motivi esposti, si deve ritenere che la previsione dell’arresto obbligatorio si collochi sulla stessa linea che ha indotto il legislatore a previsioni simili in altri casi.

3.5. – Non è riscontrabile neppure, nella norma censurata, una contraddizione intrinseca, che ne riveli la manifesta irragionevolezza. Non vale in proposito richiamare la sentenza n. 223 del 2004 di questa Corte, giacché tale pronuncia di illegittimità costituzionale si è fondata sulla contraddizione palese insita in una misura precautelare che non avrebbe mai potuto avere uno sbocco processuale, attesa la natura contravvenzionale del reato previsto dalla legge allora vigente, e la connessa inapplicabilità di misure cautelari da parte del giudice, rimanendo pertanto «fine a se stessa». Dopo la modifica legislativa, che ha trasformato la fattispecie di «indebito trattenimento» da contravvenzione in delitto, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni (e dunque suscettibile dell’applicazione di una misura cautelare personale), la contraddizione riscontrata dalla Corte nella citata pronuncia è venuta meno, fermi restando i rilievi sugli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie del complessivo sistema sanzionatorio già segnalati dalla sentenza n. 22 del 2007, rimediabili solo da un intervento organico del legislatore.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dal Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 Cost., dal Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì e di Licata, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008.