Sentenza n. 104 del 1969

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SENTENZA N. 104

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vezio CRISAFULLI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, recante sanzioni per omessa denuncia di stranieri o apolidi, e della legge di ratifica 22 aprile 1953, n. 342, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 15 dicembre 1967 dal tribunale di Rovereto nel procedimento penale a carico di Leoni Lionello, iscritta al n. 10 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 24 febbraio 1968;

2) ordinanza emessa il 26 febbraio 1968 dal pretore di Bolzano nel procedimento penale a carico di Mayr Pietro, iscritta al n. 89 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 del 6 luglio 1968;

3) ordinanze emesse il 14 e il 25 giugno 1968 dal pretore di San Donà di Piave nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Rado Dante, di Buchacher Manfred e di Vanin Giuseppe, iscritte ai nn. 267, 268 e 269 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12 aprile 1969;

4) ordinanza emessa il 29 aprile 1968 dal pretore di Chiusa nei procedimenti penali riuniti a carico di Perathoner Giuseppina ed altri, iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 del 26 febbraio 1969.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 23 aprile 1969 la relazione del Giudice Ercole Rocchetti;

udito il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

 

1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Leoni Lionello, imputato del reato di cui all'art. 2 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, per aver alloggiato una cittadina austriaca senza comunicarne tempestivamente le generalità alla locale autorità di pubblica sicurezza, il Tribunale di Rovereto, con ordinanza 15 dicembre 1967, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 2, con riferimento agli artt. 14, 3 e 10 della Costituzione.

La norma impugnata prevede la comminazione di sanzioni penali a chiunque, a qualsiasi titolo, dia alloggio od ospitalità ad uno straniero, anche se parente o affine, e lo assuma per qualunque causa alle proprie dipendenze, senza comunicarne entro le ventiquattro ore le generalità all'autorità di pubblica sicurezza.

Secondo il giudice a quo, la disposizione dell'art. 2 contrasta innanzi tutto con il diritto alla inviolabilità del domicilio, garantito dall'art. 14 della Costituzione, poiché la limitazione in essa contenuta non appare, in una società democratica, obbiettivamente necessaria e viola il c.d. diritto alla riservatezza tutelato dall'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Inoltre, ad avviso del tribunale di Rovereto, l'art. 2 incide sulla parità di trattamento tra cittadini (art. 3) e tra cittadini e stranieri (art. 10 della Costituzione e artt. 14 e 16 della Convenzione citata) in quanto consente che per azioni obbiettivamente identiche (diversificandosi solo oggettivamente, in relazione all'origine nazionale del soggetto ospitato) l'ospitante debba essere sottoposto a diversa disciplina giuridica.

Infine, la norma impugnata concreterebbe una limitazione alla libertà di locomozione dello straniero che "non appare confacente in relazione alla citata normativa di parità rispetto al cittadino".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 24 febbraio 1968.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri a mezzo della Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 15 marzo 1968.

Secondo l'Avvocatura, la tutela costituzionale del domicilio di cui all'art. 14 della Costituzione, si riferisce esclusivamente ad invasioni reali e non già ad obblighi personali imposti dalla legge al cittadino. L'onere di comunicazione previsto dalla norma impugnata trova il suo fondamento nei motivi di sicurezza che impongono in una società democratica l'adozione di particolari cautele nei confronti dello straniero. D'altra parte l'indirizzo del luogo ove si risiede non costituisce un aspetto intimo della vita dell'individuo, ma rientra tra le notizie sulla propria identità che il cittadino é tenuto a fornire.

Neppure sussiste, secondo l'Avvocatura, la dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto il principio di eguaglianza é inviolabile solo nel caso in cui sussistano le medesime condizioni di fatto, e non dove la discriminazione é giustificata dalla differente nazionalità dei destinatari dell'ospitalità.

Quanto poi all'art. 10 della Costituzione, la difesa del Presidente del Consiglio rileva che la Carta costituzionale, col rinviare al legislatore ordinario la regolamentazione dello status dello straniero, sia pure in conformità delle norme e dei trattati internazionali, ha implicitamente riconosciuto la possibilità di differenziazioni tra il cittadino e lo straniero, con la conseguenza che appare irrilevante il richiamo alla libertà di circolazione e di soggiorno garantita al cittadino dall'art. 16 della Costituzione.

L'Avvocatura, quindi, conclude chiedendo che vengano dichiarate infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal tribunale di Rovereto.

2. - Il pretore di Bolzano, con ordinanza 26 febbraio 1968, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50 e della legge di ratifica 22 aprile 1953, n. 342, con riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, proposta dal difensore nel corso del procedimento penale a carico di Mayr Pietro, imputato della contravvenzione di cui all'art. 665 del Codice penale in relazione agli artt. 1 e 2 del decreto legislativo citato.

Nell'ordinanza si osserva che il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, é stato emanato in forza dell'art. 6 del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, che, nel delegare al Governo il potere legislativo, disponeva che i provvedimenti legislativi deliberati durante il periodo della costituente, dovessero essere sottoposti a ratifica del nuovo parlamento entro un anno dalla sua entrata in funzione. Il termine però non venne rispettato e solo con legge 22 aprile 1953, n. 342, il Parlamento provvide a ratificare, insieme ad altri analoghi provvedimenti, il suddetto decreto.

Secondo il giudice a quo, esso deve considerarsi privo di efficacia non essendo stato ratificato nel termine stabilito; d'altro canto, la legge di ratifica, emanata quando il provvedimento da ratificare era già caducato, gli ha attribuito ex post una efficacia temporale al di fuori dei limiti entro cui la funzione legislativa del Governo doveva essere contenuta. Questa situazione pone la legge di ratifica in contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, alla stregua dei quali "la determinazione dei principi e dei criteri direttivi nonché dei limiti di tempo, deve precedere e non seguire l'emanazione del decreto legislativo".

Inoltre, secondo l'ordinanza, la questione di legittimità si pone anche sotto il profilo della inesistenza della legge di delega, in quanto la delega del potere legislativo al Governo venne attuata con un decreto legislativo luogotenenziale.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 6 luglio 1968 n. 170.

Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale é intervenuto soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale nelle deduzioni del 23 luglio 1968 ha sostenuto l'infondatezza della questione, in quanto il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, non conferì al Governo una "delega legislativa" bensì una attribuzione straordinaria e provvisoria di potere legislativo al Consiglio dei Ministri.

Pertanto, il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, resta fuori dell'ambito di applicazione dei princìpi sulla delegazione legislativa, stabiliti dagli artt. 76 e 77 della Costituzione con la conseguenza che diventa irrilevante anche la censura relativa alla inesistenza della legge di delega.

Inoltre, per quanto concerne la questione relativa al termine, l'Avvocatura osserva che il decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 1946 si limitava soltanto a prescrivere l'obbligo per il Governo di presentare per la ratifica, entro un anno dall'entrata in funzione delle Camere, i decreti legislativi da esso emanati: ne deriva che nessun rilievo può essere attribuito alla circostanza che la ratifica stessa sia intervenuta molto più tardi, una volta assodato che il decreto fu presentato nei termini.

3. - La questione di legittimità costituzionale proposta dal pretore di Bolzano é stata sollevata negli stessi termini dal pretore di Chiusa con ordinanza 29 aprile 1968, nel corso dei procedimenti penali riuniti a carico di Perathoner Giuseppina ed altri.

L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 26 febbraio 1969 n. 52.

4. - Con ordinanza emessa in data 14 giugno 1968, nel corso dei procedimenti penali a carico di Rado Dante e di Buchacher Manfred ed altri, il pretore di San Donà di Piave ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, con riferimento all'art. 3 (in relazione agli artt. 2 e 10, primo e secondo comma) della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la differenza tra la situazione giuridica di colui che dà alloggio a un cittadino straniero o a un apolide e quella di chi dà alloggio a un cittadino italiano, pone in essere una ingiustificata disparità di trattamento che contrasta con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Nell'ordinanza si riconosce che tale norma si riferisce esclusivamente ai cittadini, ma si afferma che essa non può essere presa in considerazione isolatamente, ma deve essere interpretata, in relazione agli altri principi costituzionali: in particolare con riferimento all'art. 2 che tutela i diritti inviolabili dell'uomo a qualunque nazionalità appartenga; e all'articolo 10, secondo comma, secondo cui la condizione giuridica dello straniero é regolata dalla legge in conformità delle norme dei trattati internazionali. Sotto il primo profilo, secondo il giudice a quo, la diversificazione posta dalla norma impugnata é del tutto arbitraria, in quanto incide sui diritti fondamentali (di circolazione e di soggiorno) dello straniero: dal secondo punto di vista, il decreto legislativo n. 50 del 1948 contrasta con l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ratificata con legge ordinaria 4 agosto 1955, n. 848, in quanto consente una ingiustificata ingerenza dell'autorità di pubblica sicurezza nella vita privata e familiare dei cittadini.

Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12 febbraio 1969.

Nei giudizi dinanzi alla Corte non v'é stata costituzione di parti né intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri.

5.-Nel corso del procedimento penale a carico di Vanin Giuseppe, imputato del reato di cui all'art. 2 del decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, per avere assunto alle proprie dipendenze due cittadini siriani omettendo la relativa comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza, il pretore di San Donà di Piave, con ordinanza emessa il 25 giugno 1968, ha proposto nei confronti dell'art. 2 del decreto legislativo citato, analoga questione di legittimità costituzionale.

L'ordinanza, di contenuto identico a quelle emesse il 14 giugno 1968, é stata notificata, comunicata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 del 12 febbraio 1969.

Anche in questo giudizio, non v'é stata costituzione di parte.

 

Considerato in diritto

 

 

1. - Le questioni di costituzionalità proposte con le cinque ordinanze in epigrafe si riferiscono alle medesime disposizioni di legge e pertanto le cause relative, congiuntamente trattate, possono essere decise con unica sentenza.

Investito dalle censure, sotto le varie prospettazioni che verranno gradatamente esaminate, é il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, nella sua totalità e nelle norme dei due articoli di cui esso si compone.

Tale decreto, all'art. 1, dispone un aumento delle pene comminate dall'art. 109 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza per coloro che, dando alloggio per mercede, omettono, nei confronti degli stranieri o apolidi, quelle denunzie di arrivo, partenza e destinazione cui sono tenuti per tutte le persone alloggiate; e, all'art. 2, estende l'obbligo della denunzia, con la relativa sanzione per la sua omissione, a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, danno alloggio od ospitalità a stranieri o apolidi, anche se parenti o affini, o li assumono al lavoro.

2. - Pregiudiziale si presenta l'esame delle censure contenute nelle ordinanze dei pretori di Bolzano e di Chiusa, perché esse investono l'intero decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, che si assume emanato in violazione dei principi di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione.

Tale decreto risale ad epoca anteriore alla ricostituzione delle Assemblee parlamentari e fu emesso in forza delle disposizioni del decreto legislativo 25 giugno 1944, n. 151, che conferì al Governo la facoltà di emanare norme giuridiche, nonché in forza di quelle del successivo decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 48, che prescrisse, per tutti i provvedimenti legislativi in tal modo emanati, l'obbligo della loro sottoposizione a ratifica del nuovo Parlamento, entro un anno dalla sua entrata in funzione.

Ora, secondo i pretori di Bolzano e di Chiusa il decreto legislativo n. 50 del 1948 sarebbe da ritenersi costituzionalmente illegittimo, sia perché mancherebbe per esso una legge di delegazione, stante che la delega al Governo fu conferita non con legge, ma con decreto legislativo; e sia perché la ratifica cui un decreto doveva essere, per la già richiamata norma speciale, sottoposto entro un anno, sarebbe intervenuta fuori del termine anzidetto, a mezzo della legge 22 aprile 1953, n. 342.

Entrambe le questioni sono infondate.

Quanto alla prima, é da rilevare che questa Corte ha già ritenuto più volte (sentenze nn. 46 del 1960, 85 del 1962, 27 e 95 del 1964) che la facoltà di emanare provvedimenti aventi forza di legge, concessa al Governo a mezzo dei due decreti legislativi luogotenenziali 151 del 1944 e 98 del 1946 sull'ordinamento provvisorio dello Stato, non può inquadrarsi nei principi della delega legislativa, dovendo essere considerata come attribuzione allo stesso Governo del potere di legiferare in sostituzione degli organi legislativi mancanti, e salvo ratifica da parte di essi dopo la loro intervenuta ricostituzione.

Alla struttura di questo sistema straordinario e provvisorio, come ai provvedimenti in forza di esso emanati, sono da ritenersi estranee, e perciò inapplicabili, le norme degli artt. 76 e 77 della Costituzione. Questa, per altro, avendo, nella disposizione XV transitoria, disposto la conversione in legge del decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, sull'ordinamento provvisorio dello Stato, ha reso con ciò impossibile ogni riferimento a disposizioni diverse da quelle di cui al detto decreto per quanto attiene al riscontro della validità dei provvedimenti in base allo stesso emanati.

Anche l'altra censura sul preteso superamento dei termini stabiliti per la ratifica é poi da ritenersi priva di fondamento, giacché nulla rileva che tale ratifica é intervenuta soltanto con la legge n. 342 del 1953, dal momento che la sottoposizione a ratifica da parte del Governo venne effettuata nei termini dell'anno dall'entrata in funzione del nuovo Parlamento, così come disposto dall'art. 6 del decreto legislativo n. 98 del 1946, il cui precetto aveva come destinatario il primo e non il secondo dei detti due poteri dello Stato (sentenze 46 del 1960, 27 e 95 del 1964).

La richiesta di ratifica da parte del Governo avvenne infatti alla Camera dei Deputati il 4 maggio del 1949, e quindi prima che scadesse l'anno dall'entrata in funzione del nuovo Parlamento, la cui seduta inaugurale aveva avuto luogo il 9 maggio 1948.

Ed é appena il caso di rilevare, giacché la formula del citato art. 6 ("i provvedimenti... devono essere sottoposti a ratifica") non ammette equivoci, che nell'anno doveva avvenire la sottoposizione a ratifica, e cioé la presentazione per la ratifica e non già la ratifica stessa, per provvedere alla quale il Parlamento non aveva avuto assegnato alcun termine.

3. - Passando all'esame delle censure che attengono al merito della causa, si rileva innanzi tutto la infondatezza di quella dedotta dal tribunale di Rovereto relativamente all'art. 2 del decreto legislativo n. 50 del 1948 che, si sostiene, con l'imporre la denuncia all'autorità di p.s. della ospitalità concessa nella propria abitazione a stranieri o apolidi, anche se parenti, violerebbe l'art. 14, primo comma, della Costituzione, il quale proclama che il domicilio é inviolabile.

Ora la tutela garantita dall'art. 14, come é chiaramente rivelato dai tipi di immissione consentiti alla pubblica autorità con le forme e nei casi indicati nei due commi successivi dello stesso art. 14 (ispezioni, perquisizioni, sequestri ed accertamenti), non copre la sfera di quegli obblighi personali di informazione e comunicazione che la legge può imporre al cittadino, anche se connessi all'uso che egli fa del luogo da lui adibito a suo domicilio.

É pertanto da escludersi che sia violato, nel caso, il diritto di libertà garantito dall'art. 14 della Costituzione.

4. - Lo stesso tribunale di Rovereto, e successivamente il pretore di San Donà di Piave, hanno poi dedotto la illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 50 del 1948 con riferimento all'art. 3 della Costituzione e in relazione agli artt. 2 e 10 della stessa.

A loro dire, le norme del decreto legislativo in esame avrebbero irrazionalmente riservato un trattamento differenziato a due situazioni da ritenersi equivalenti, com'é quella di colui che alloggia od ospita un cittadino, di fronte a quella di colui che alloggia od ospita uno straniero od un apolide.

Presupposto di tale ritenuta eguaglianza delle due situazioni é ovviamente la eguaglianza, parimenti ritenuta nelle ordinanze di rimessione, fra il cittadino e lo straniero nella tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 della Costituzione) e nei diritti allo straniero riconosciuti dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali nell'ordinamento giuridico italiano che si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, secondo e primo comma della Costituzione).

La Corte ha accolto, nella sentenza 120 del 1962, (rectius 1967: nota della redazione) il punto di vista che il principio di eguaglianza, pur essendo nell'art. 3 della Costituzione riferito ai cittadini, debba ritenersi esteso agli stranieri allorché si tratti della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, garantiti allo straniero anche in conformità dell'ordinamento internazionale.

E da tale affermazione relativa alla parificazione dello straniero al cittadino, la Corte non ha motivo di discostarsi, essendo ovvio che, per quanto attiene ai diritti inviolabili della personalità, che rappresentano un minus rispetto alla somma dei diritti di libertà riconosciuti al cittadino, la titolarità di quei diritti, comune al cittadino e allo straniero nell'ambito di quella sfera, non può non importare, entro la stessa, una loro posizione di eguaglianza.

Ma la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento. Ora, nel caso, non può escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti. Il cittadino ha nel territorio un suo domicilio stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di risiedere ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero può recarsi a vivere nel territorio del nostro, come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che é in genere limitato, salvo che egli non ottenga il così detto diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata prolungata o indeterminata; infine il cittadino non può essere allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi reati.

Questa differenza di situazioni di fatto e di connesse valutazioni giuridiche, la cui elencazione é superfluo continuare. sono rilevabili in ogni ordinamento e si fondano tutte sulla basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo. Ne deriva che ogni indagine diretta ad accertare ove esuli si trovi nel territorio dello Stato, sia che si consegua con l'obbligo a lui imposto di denunciare ogni suo spostamento da Comune a Comune (art. 142 del testo unico legge di pubblica sicurezza) o con l'obbligo concorrente, ed eventualmente sostitutivo, imposto a chi lo alloggia o lo ospita di segnalare la sua presenza (artt. 1 e 2 decreto legislativo n. 50 del l948) é legittima, perché fondata sulla necessità razionale di poter raggiungere lo straniero ovunque si trovi; e ciò non solo allo scopo di sottoporlo a controllo, ma anche di assicurargli nelle forme di assistenza che gli sono dovute, partecipandogli, ad esempio, informazioni e notizie urgenti con le quali le sue autorità consolari intendano raggiungerlo.

Per tutte queste ragioni devono essere ritenute infondate anche le censure attinenti a pretese violazioni dei principi relativi all'eguaglianza di cui agli artt. 3, 2 e 10 della Costituzione.

5. - Ma il discorso su questo punto non può ritenersi concluso perché, a sostegno della tesi della violazione di quei principi, il tribunale di Rovereto e il pretore di San Donà di Piave hanno dedotto, come norme di riferimento, egualmente volte alla loro tutela, anche le disposizioni degli artt. 8, 14 e 16 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, stipulata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Tale convenzione dispone all'art. 8 il diritto al rispetto della vita privata o familiare, del domicilio e della corrispondenza e afferma, all'art. 14, che il godimento di tali diritti, come di ogni altro contemplato nell'intero testo della convenzione, deve essere assicurato a tutti senza distinzione alcuna salvo (art. 16) le limitazioni all'attività politica degli stranieri.

Il pretore di San Donà di Piave si pone per altro il quesito della forza di resistenza attribuibile a tale norma della convenzione sul piano del nostro diritto pubblico interno nel quale quelle norme potrebbero inserirsi per il tramite degli artt. 2 e 10 della Costituzione.

La Corte, che nella sentenza n. 32 del 1960 ebbe a ritenere che la disposizione dell'art. 10 si riferisce alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e non ai singoli impegni assunti nel campo internazionale dallo Stato, nel riportarsi a tale suo avviso, non ritiene necessario, ai fini della risoluzione dei problemi formanti oggetto di questo giudizio, ogni ulteriore indagine sull'argomento. E ciò perché, anche se le citate norme della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo avessero quella forza di resistenza che il pretore di San Donà di Piave mostra di ritenere, la soluzione del caso non cambierebbe, non essendo dubitabile che, anche in presenza dei diritti garantiti dai richiamati articoli di detta Convenzione, abbiano rilevanza le differenze di fatto esistenti fra soggetti tutelati, con le conseguenze di cui si é innanzi discusso.

Inoltre, il secondo comma dell'art. 8 della Convenzione che ha, nei confronti delle correlative norme della Costituzione qualche sfumatura di migliore precisazione della tutela della riservatezza, non esclude che possa nella vita privata e familiare, nel domicilio e nella corrispondenza, aversi ingerenza della pubblica autorità, "nei limiti in cui tale ingerenza é prevista dalla legge e costituisce una misura che, in una società democratica, é necessaria per la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, il benessere economico del paese, la difesa dell'ordine e la prevenzione delle infrazioni penali, la protezione dei diritti e delle libertà altrui".

Tenuto conto di ciò, deve affermarsi che le norme dei due articoli di cui si compone il decreto legislativo n. 50 del 1948, e che tendono ad accertare soltanto la notizia del luogo ove lo straniero si trovi nel nostro Paese e cioè ad averne in ogni momento il recapito, non possono violare il disposto dell'art. 8 della Convenzione, perché l'ingerenza della nostra autorità, cui dalla legge é consentito di procurarsi quelle notizie, non può non trovare giustificazione in una o più delle molteplici ragioni contemplate da quell'articolo e ritenute valide a giustificare quella ingerenza.

Anche quest'ultima censura di cui alle richiamate ordinanze deve pertanto dichiararsi infondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze di cui in epigrafe e relative al decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50, ratificato con legge 22 aprile 1953, n. 342, avente per oggetto sanzioni per omessa denunzia di stranieri, in riferimento agli artt. 76 e 77, 14, 3, 2 e 10 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 1969.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -   Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI 

 

 

Depositata in cancelleria il 26 giugno 1969.