Sentenza n. 229/99

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 229

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO            

- Avv.    Massimo VARI                     

- Dott.   Cesare RUPERTO                

- Dott.   Riccardo CHIEPPA             

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY              

- Prof.    Valerio ONIDA                    

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI               

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il 24 marzo 1998 (n. 2 ordinanze) dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona, il 17 febbraio 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa, il 29 aprile 1998 dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, il 6 giugno 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Parma, l'11 luglio 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Viterbo, il 22 aprile 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Torino e il 30 ottobre 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, rispettivamente iscritte ai nn. 476, 485, 508, 581, 688, 739 e 859 del registro ordinanze 1998 ed al n. 71 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta ufficiale della Repubblica nn. 27, 28, 36, 40, 41 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1998 e n. 8, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visto l'atto di costituzione di Paternoster Giovanni nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 aprile 1999 il giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto in fatto

1. - Con due ordinanze di identico contenuto emesse il 24 marzo 1998, la Commissione tributaria provinciale di Ancona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 102 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), che così recita: "Il primo comma dell’art. 36- bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare sino alla data stabilita nell’art. 16 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non é stabilito a pena di decadenza".

Basata la rilevanza della questione sull'assunto che i giudizi a quibus hanno ad oggetto ricorsi avverso cartelle di pagamento fondati, tra l’altro, sull’eccepita decadenza dell’amministrazione, per inosservanza del termine di cui all’art. 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), la Commissione rimettente osserva che, nella giurisprudenza tributaria, a partire dal 1994, si sarebbe andato consolidando un indirizzo interpretativo nel senso del carattere perentorio del termine di cui si tratta. Indirizzo successivamente avallato dalla Corte di cassazione che nelle sentenze 29 luglio 1997, n. 7088, e 24 settembre 1997, n. 12442, avrebbe altresì ribadito la riferibilità del termine in questione all’iscrizione a ruolo, e non alla mera liquidazione, delle imposte che risultano dovute in base al controllo "formale" delle dichiarazioni.

La norma impugnata - intervenuta pochi mesi dopo le suddette pronunce del giudice di legittimità e destinata ad operare quasi esclusivamente per il passato, in quanto applicabile solo alle dichiarazioni presentate fino a tutto l’anno 1997 (recte: 1998) - sarebbe perciò, ad avviso del giudice a quo, in primo luogo lesiva, secondo l’insegnamento contenuto nelle sentenze di questa Corte n. 155 del 1990, n. 397 del 1994 e n. 14 del 1995, delle prerogative del potere giudiziario, perchè sostanzialmente intesa a risolvere in senso favorevole all’amministrazione finanziaria le migliaia di ricorsi pendenti aventi il medesimo oggetto. Il carattere innovativo, e non meramente interpretativo, della norma risulterebbe, infatti, evidente dal fatto che questa non si limita a dichiarare l’ordinatorietà del termine, del quale la giurisprudenza aveva definitivamente stabilito la perentorietà, ma giunge ad escludere che la sua inosservanza possa dare luogo a decadenza, laddove invece dovrebbe ritenersi pacifico che anche l’inosservanza di un termine ordinatorio, se non prorogato prima della scadenza, comporta il verificarsi della decadenza.

Ritiene il rimettente che la norma denunciata sia altresì in contrasto con il principio di eguaglianza, tutelato dall’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare fra tre diverse categorie di contribuenti: quelli che hanno già ottenuto con una sentenza passata in giudicato il riconoscimento, secondo il ricordato orientamento giurisprudenziale, del carattere perentorio del termine di cui all’art. 36-bis; quelli che hanno una lite pendente incentrata sulla dedotta perentorietà del termine stesso, il cui esito risulterebbe compromesso dalla norma asseritamente interpretatrice; quelli, infine, in futuro perseguiti dall’amministrazione, ex art. 36-bis, per errori formali commessi anche molti anni prima e che, avendo fatto legittimamente affidamento sulla perentorietà del termine de quo, potrebbero non essere più in grado di opporre la prova cartolare del loro buon diritto. In relazione alla situazione di questi ultimi la norma, ad avviso del giudice a quo, va scrutinata anche con riferimento ai parametri di cui agli artt. 24 e 53 Cost., in quanto da un lato risulterebbe leso il loro diritto di difesa e, dall’altro, si effettuerebbe un illegittimo recupero di una capacità contributiva della quale tali contribuenti "erano sì garanti, ma solo nei termini di legge".

1.1. - E’ intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.

Ricorda innanzitutto l’Avvocatura che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, le norme interpretative non sono di per sè illegittime, purchè non si pongano in contrasto con i principi costituzionali ovvero con altri fondamentali valori di civiltà giuridica, quali il principio generale di ragionevolezza, la tutela dell’affidamento, la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

Con riferimento, quindi, alla norma impugnata, l’Avvocatura ritiene che non possa revocarsi in dubbio la sua natura interpretativa, atteso che il carattere ordinatorio e non perentorio del termine di cui all’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 era già certamente compatibile col tenore letterale della norma ed altresì coerente con l’intenzione del legislatore, quale desumibile dalle connesse norme sulla iscrizione a ruolo delle imposte liquidate e dalla evoluzione della normativa in materia, dalla sua originaria formulazione ad oggi, dettagliatamente ricostruita nella memoria.

Dovrebbe d’altro canto escludersi, ad avviso ancora dell’Avvocatura, la violazione, mediante la suddetta norma interpretativa, di altri principi costituzionali. La norma non comporta, infatti, violazione di giudicati nè é diretta ad incidere su concrete fattispecie sub iudice nè determina ingiustificate disparità di trattamento o violazione di legittimi affidamenti. L’intervento del legislatore é stato insomma dettato esclusivamente dalla preoccupazione di evitare il consolidarsi di un’interpretazione suscettibile di arrecare grave danno alle finanze pubbliche e palesemente contrastante con il principio di ragionevolezza, stante l’impossibilità, per gli uffici finanziari, di procedere nel breve termine di cui al citato art. 36-bis al controllo di tutte le dichiarazioni.

2. - Con ordinanza del 17 febbraio 1998 la Commissione tributaria provinciale di Pisa ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., questione di legittimità costituzionale della stessa norma.

Il giudice rimettente, premessa la rilevanza della questione e ricordato che la giurisprudenza di merito e di legittimità era ormai orientata nel senso della perentorietà del termine in questione, ritiene in primo luogo che la norma denunciata violi l’art. 3, primo comma, della Costituzione "sotto il profilo della ragionevolezza, che impone il rispetto di un rapporto di uguaglianza delle parti nel rapporto tributario".

La stessa norma determinerebbe inoltre una "grave compressione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., e più specificamente della tutela giurisdizionale dei diritti contro gli atti della pubblica amministrazione, incondizionatamente garantita dall’art. 113 Cost., (...) sproporzionata rispetto all’esigenza di consentire all’amministrazione finanziaria lo svolgimento dei propri compiti" e tale da assumere "il carattere di privilegio ingiustificato".

La norma risulterebbe, infine, in palese contrasto con l’art. 97, primo comma, Cost., posto a tutela del principio di imparzialità dell’amministrazione, cui "debbono necessariamente collegarsi tutte le norme, anche tributarie, che disciplinano i rapporti dei cittadini con il fisco che deve ad essi garantire la legittimità del proprio operato e la parità di trattamento".

2.1. - La Presidenza del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, é intervenuta in giudizio concludendo per la declaratoria di infondatezza della questione.

In aggiunta alle considerazioni già svolte negli atti di intervento depositati nei giudizi precedentemente instaurati, la parte pubblica rileva che la norma censurata non limita in alcun modo l’impugnabilità degli atti della pubblica amministrazione, e dunque non viola l’art. 113 della Costituzione, nè lede il principio di imparzialità dell’amministrazione, in quanto il carattere (perentorio o ordinatorio) del termine é comunque tale per tutti i contribuenti e per tutti gli uffici dell’amministrazione.

3. - Con ordinanza emessa il 29 aprile 1998 la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della stessa norma, con argomentazioni simili a quelle esposte nelle precedenti ordinanze di rimessione.

3.1. - L’Avvocatura generale dello Stato é intervenuta nel giudizio per la Presidenza del Consiglio dei ministri mediante atto di contenuto analogo ai precedenti.

4. - Con ordinanza emessa il 6 giugno 1998, la Commissione tributaria provinciale di Parma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma e 108, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della stessa norma.

Il giudice rimettente, precisata la rilevanza della questione, osserva che sia la giurisprudenza della Commissione tributaria centrale sia quella della Corte di cassazione si erano ormai orientate ad attribuire al termine di cui all’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 carattere perentorio, sanzionato quindi con la decadenza. La Corte di cassazione, nella sentenza 29 luglio 1997, n. 7088, aveva anzi affermato l’esistenza di un principio di carattere generale secondo cui i termini posti alla pubblica amministrazione per l’esercizio dei suoi poteri, indipendentemente dalla loro qualificazione come perentori o ordinatori, devono ritenersi posti a pena di decadenza, a tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione. L’inutile decorso dei termini ordinatori non prorogati prima della scadenza produce d’altro canto - secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità - gli stessi effetti preclusivi di quelli perentori.

Ciò premesso, secondo il giudice a quo, la norma impugnata - in quanto non si limita a qualificare come ordinatorio il termine in questione, ma dispone altresì che la sua inosservanza non dia luogo a decadenza - verrebbe a dettare per il solo termine di cui all’art. 36-bis una disciplina speciale diversa da quella applicabile agli altri termini ordinatori posti a carico dello stesso soggetto pubblico, ed in tal modo sarebbe lesiva del principio di eguaglianza in danno dei destinatari di quella attività alla quale il termine in questione si riferisce.

La medesima norma sarebbe poi in contrasto con il principio di buon andamento dell’amministrazione, tutelato dall’art. 97 Cost., in quanto dal suddetto principio discende - come si legge nella menzionata sentenza del giudice di legittimità - che "i termini posti a presidio della tempestività dell’azione amministrativa (soprattutto quando sono posti nell’interesse del cittadino sotto il profilo della certezza e stabilità dei rapporti giuridici) non possono non essere tali da comportare, se violati, l’invalidità dell’esercizio del potere, non apparendo sufficiente tutela la possibilità di perseguire disciplinarmente i responsabili del ritardo".

La norma in questione, infine, violerebbe gli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma, e 108, secondo comma, Cost. essendo palesemente intesa a prevenire l’ormai inevitabile dichiarazione di decadenza di tutti gli atti impositivi emessi in base all’art. 36-bis e sottoposti al vaglio del giudice tributario, "interferendo decisamente nella sfera del potere giudiziario con l’imposizione di una soluzione dettata non già da principi generali ma da un provvedimento determinato a valere per una singola ipotesi e non per casi analoghi".

4.1. - L’Avvocatura generale dello Stato é intervenuta anche in questo giudizio per la Presidenza del Consiglio dei ministri mediante atto di contenuto analogo ai precedenti.

In relazione alla asserita lesione del principio di eguaglianza, sotto il profilo, specificamente denunciato dal rimettente, della diversità di disciplina tra il termine di cui all’art. 36-bis e gli altri termini ordinatori imposti alla pubblica amministrazione, l’Avvocatura, pur negando, in linea di principio, che ogni termine posto all’attività della pubblica amministrazione sia sanzionato dalla illegittimità dell’atto emanato dopo la scadenza, rileva che il legislatore può in ogni caso legittimamente chiarire che ad un dato termine non é collegato alcun effetto di decadenza, senza per questo dovere necessariamente dettare analoga disposizione per ogni altro termine imposto alla pubblica amministrazione.

5. - Con ordinanza emessa l’11 luglio 1998, la Commissione tributaria provinciale di Viterbo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della stessa norma.

Ad avviso del giudice rimettente, la qualificazione, con norma interpretativa, come ordinatorio del termine di cui all’art. 36-bis - nonostante l’ormai consolidata giurisprudenza in senso contrario - sarebbe irrazionale e lesiva del diritto di agire e di difendersi dei contribuenti. La norma impugnata violerebbe inoltre il principio di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione e sarebbe altresì in contrasto con il principio di eguaglianza tra le parti del rapporto tributario.

5.1. - E’ intervenuta in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato.

Rileva l’Avvocatura che la Commissione rimettente non contesta il carattere interpretativo della norma ed appare, per altro verso, consapevole delle "devastanti" conseguenze che deriverebbero all’erario dalla interpretazione dell’art. 36-bis accolta dal giudice di legittimità. Ritiene, pertanto, contraddittoria con tali premesse la questione di costituzionalità sollevata e ne chiede la declaratoria di infondatezza sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte nei giudizi già pendenti.

6. - Con ordinanza emessa il 22 aprile 1998, la Commissione tributaria provinciale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della stessa norma.

Ritiene la Commissione rimettente che alla norma denunciata debba attribuirsi natura innovativa, e non interpretativa, difettando il presupposto indispensabile del contrasto giurisprudenziale, in quanto sia i giudici di merito sia quelli di legittimità sarebbero stati ormai concordi nel riconoscere al termine di cui all’art. 36-bis carattere perentorio. Per la sua efficacia retroattiva, la norma risulterebbe perciò lesiva dei valori costituzionali dell’affidamento e della certezza dei rapporti giuridici, nonchè del principio della ragionevolezza degli atti legislativi, alla stregua di quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale nelle sentenze n. 187 del 1981 e n. 155 del 1990. L’intento del legislatore sarebbe stato, in definitiva, solo quello di "favorire" l’amministrazione finanziaria nelle numerose controversie in corso.

6.1. - L’Avvocatura generale dello Stato é intervenuta in giudizio per la Presidenza del Consiglio dei ministri mediante atto di contenuto analogo ai precedenti.

7. - Con ordinanza emessa il 30 ottobre 1998, la Commissione tributaria provinciale di Genova ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della stessa norma.

Rileva la Commissione rimettente che la norma, da ritenersi innovativa e non meramente interpretativa, avrebbe sostanzialmente mutato le "regole del gioco" a favore di una delle parti del rapporto tributario, dilatando in suo favore i tempi per provvedere, con violazione sia del principio di ragionevolezza, "a cagione dell’equiparazione della più blanda infrazione connessa alla violazione di norme formali ad ipotesi di più incisive violazioni tributarie", sia del principio della certezza del diritto, "conseguenza del consolidamento delle situazioni giuridiche ricollegato al decorso del tempo".

7.1 - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, con atto di contenuto analogo ai precedenti.

Considerato in diritto

1. - Le otto ordinanze di rimessione contestano tutte la legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), a tenore del quale "Il primo comma dell’art. 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare sino alla data stabilita nell’art. 16 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non é stabilito a pena di decadenza".

Quanto ai parametri, tutte le ordinanze fanno riferimento all’art. 3 della Costituzione. Vengono altresì evocati gli artt. 24 (Commissioni tributarie provinciali di Viterbo, di Ancona e di Pisa), 53 (Commissione tributaria provinciale di Ancona), 97 (Commissioni tributarie provinciali di Parma, di Viterbo e di Pisa), 101, secondo comma (Commissioni tributarie provinciali di Parma e di Torino), 102 (Commissioni tributarie provinciali di Parma e di Ancona), 108, secondo comma (Commissione tributaria provinciale di Parma), e 113 Cost. (Commissioni tributarie provinciali di Viterbo e di Pisa).

2. - Nonostante la diversità delle prospettazioni, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalle otto ordinanze di rimessione, si presenta in termini fondamentalmente comuni, in quanto la norma denunciata viene fatta oggetto di censura per avere attribuito, con efficacia retroattiva, carattere di ordinatorietà ad un termine, quello di cui all’art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che la giurisprudenza della Commissione tributaria centrale e della Corte di cassazione aveva invece qualificato come perentorio.

I giudizi vanno pertanto riuniti per essere decisi con unica sentenza.

3. - La questione non é fondata.

Secondo i giudici a quibus, in buona sostanza, la norma impugnata non potrebbe dirsi realmente interpretativa, quanto piuttosto retroattivamente innovativa rispetto alla precedente disciplina ed emanata, in contrasto con il generale principio di ragionevolezza, con l’unica intenzione di incidere sui giudizi in corso, così violando valori costituzionalmente tutelati, di volta in volta individuati dai medesimi rimettenti nell’autonomia della funzione giudiziaria, nel diritto di difesa e di tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, nel principio dell’affidamento, nel principio della capacità contributiva ed in quello del buon andamento della pubblica amministrazione.

A tale riguardo va subito chiarito - sgombrando così il campo da un equivoco nel quale sembrano essere caduti quasi tutti i rimettenti - che non é affatto decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo ovvero sia una norma innovativa con efficacia retroattiva. Questa Corte ha infatti ripetutamente precisato che il divieto di retroattività della legge - pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore deve in linea di principio attenersi - non é stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, se si eccettua la previsione dell’art. 25 Cost., limitatamente alla legge penale (ex plurimis, sentenze n. 397 del 1994, n. 155 del 1990, n. 13 del 1977). Il legislatore ordinario, pertanto, nel rispetto del suddetto limite, può emanare norme con efficacia retroattiva, interpretative o innovative che esse siano, a condizione però che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (ancora, tra le tante, sentenze n. 432 del 1997, n. 376 del 1995, n. 153 del 1994).

Ed é proprio sotto l'aspetto del controllo di ragionevolezza che può venire in considerazione la c.d. funzione di interpretazione autentica che una norma sia chiamata a svolgere con efficacia retroattiva.

4. - Nella specie, lo scrutinio della norma denunciata alla stregua del criterio di ragionevolezza deve prendere necessariamente le mosse dalla constatazione dell’esistenza di una significativa divergenza di opinioni, manifestatasi tanto nella giurisprudenza di merito quanto in dottrina, sulla natura del termine per la liquidazione delle imposte che risultano dovute in base al controllo "formale" delle dichiarazioni, previsto dall’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 27 settembre 1979, n. 506 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e n. 602, concernenti l’accertamento e la riscossione delle imposte sui redditi), e riguardo al coordinamento tra detta norma e l’art. 17, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), concernente i termini per l’iscrizione a ruolo delle imposte liquidate in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti.

Non compete evidentemente a questa Corte esprimere valutazioni sulla fondatezza delle diverse tesi. Ciò che importa sottolineare é la non univocità degli orientamenti emersi - tale da indurre qualche commissione tributaria ad auspicare, nella stessa motivazione della propria decisione, un intervento chiarificatore del legislatore - e la considerazione che il contrasto interpretativo, ancora persistente nei mesi immediatamente precedenti l’emanazione della norma impugnata, non poteva certo dirsi definitivamente risolto - diversamente da quanto i rimettenti mostrano di ritenere - per effetto delle uniche due pronunce della Corte di cassazione intervenute in materia a breve distanza di tempo l’una dall’altra.

La norma denunciata trova, dunque, la giustificazione della propria efficacia retroattiva, sotto il profilo della ragionevolezza, nella esistenza di un obiettivo dubbio ermeneutico sulla natura del termine previsto dal citato art. 36-bis, nella gravità, più volte sottolineata anche dalla dottrina, delle conseguenze che da siffatta incertezza derivavano in una materia delicata quale é quella dei controlli sulle dichiarazioni dei redditi, e nella circostanza che l’interpretazione imposta dal legislatore risulta compatibile con il testo della norma ed anzi conforme ad una delle letture già prospettate dalla giurisprudenza.

5. - La norma scrutinata non si pone d’altro canto in conflitto con altri valori costituzionalmente tutelati.

5.1. - La rilevata sussistenza di un obiettivo contrasto interpretativo in sede giurisdizionale induce innanzitutto ad escludere la violazione del principio dell’affidamento. Nessun legittimo affidamento poteva infatti sorgere sulla base di una interpretazione della norma tutt’altro che pacifica e consolidata ed anzi fortemente contrastata nella giurisprudenza di merito.

Per altro verso, deve considerarsi che l’art. 36-bis, oggetto dell’interpretazione autentica, non ha contenuto precettivo nei confronti dei contribuenti ma pone, come si é visto, un termine a carico dell’amministrazione finanziaria per la liquidazione delle maggiori imposte accertate a seguito di controllo "formale" delle dichiarazioni, cosicchè il preteso affidamento dei contribuenti stessi dovrebbe riguardare non già la legittimità della propria condotta ma l’intervenuta decadenza dell’amministrazione dal potere di iscrivere a ruolo somme che siano risultate effettivamente dovute, a titolo di imposta, a seguito del suddetto controllo. Il che, evidentemente, porta ad escludere che la situazione soggettiva degli interessati possa, sotto tale aspetto, ritenersi meritevole di tutela.

5.2. - La norma denunciata non é nemmeno lesiva delle attribuzioni del potere giudiziario (artt. 101, 102 e 108 Cost.). Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che l’attività del legislatore, pur se diretta a stabilire il significato di una norma preesistente, opera su un piano diverso dall'interpretazione in senso proprio del giudice, in quanto mentre la prima "interviene sul piano generale ed astratto del significato delle fonti normative, quella del giudice opera sul piano particolare come premessa per l’applicazione concreta della norma alla singola fattispecie sottoposta al suo esame" (sentenze n. 432 del 1997, n. 311 del 1995, n. 397 del 1994, n. 402 del 1993). L’efficacia retroattiva della norma non viene ad incidere dunque sulla potestas iudicandi, bensì sul modello di decisione cui l’esercizio della suddetta potestà deve attenersi.

5.3. - Le medesime considerazioni portano altresì ad escludere la violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del diritto di tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.).

5.4. - Non sussiste nemmeno la lamentata violazione del principio della capacità contributiva, prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona sul rilievo che i contribuenti, i quali avessero fatto affidamento sulla perentorietà del termine di cui all’art. 36-bis, si troverebbero ora costretti a recuperare una capacità contributiva che ritenevano di non dover più garantire.

Si é già visto, infatti, che nella fattispecie non ricorrevano i presupposti per la formazione di un legittimo affidamento. A ciò deve aggiungersi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il principio sancito dall’art. 53 Cost. ha carattere oggettivo, riferendosi ad indici concretamente rivelatori di ricchezza e non già a stati soggettivi di affidamento del contribuente (sentenza n. 143 del 1982, ordinanza n. 542 del 1987).

5.5. - Per quanto riguarda l’asserita lesione del principio di eguaglianza, per la diversità di trattamento che si realizzerebbe tra quei contribuenti, i cui ricorsi, fondati sulla eccezione di decadenza dell’amministrazione finanziaria per il decorso del termine di cui all’art. 36- bis, sono stati accolti con sentenza passata in giudicato e gli altri, le cui controversie sono ancora pendenti o che saranno oggetto in futuro di pretesa fondata su controllo "formale" delle dichiarazioni, é sufficiente rilevare che la denunciata diversità non é determinata dalla legge interpretativa, ma deriva dal necessario rispetto del giudicato (v. ordinanza n. 167 del 1996).

5.6. - Va da ultimo escluso che la norma denunciata sia in contrasto con l’art. 97 della Costituzione. Il principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione non comporta, infatti, necessariamente, che tutti i termini a questa imposti per il compimento delle proprie attività debbano avere carattere perentorio. Va ricordato d’altro canto che l’art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nel riconoscere come ordinatorio e non posto a pena di decadenza il termine di cui all’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non lascia priva di termini decadenziali l’attività di controllo "formale" delle dichiarazioni, trovando comunque applicazione l’art. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, secondo il quale le imposte liquidate in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti (e dunque anche quelle liquidate a seguito di controllo "formale") devono essere iscritte a ruolo, a pena di decadenza, nel termine previsto dal primo comma dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), sollevata, con le ordinanze in epigrafe, dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 102 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Parma, in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Viterbo, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, in riferimento agli artt. 3 e 101, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in cancelleria l’11 giugno 1999.