Sentenza n. 402 del 1993

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SENTENZA N. 402

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 4, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 23 novembre 1992 dal Pretore di Torino nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Vittorioso Maria ed altri e la s.p.a. Fiat Auto, iscritta al n. 15 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993;

 

2) ordinanza emessa il 24 dicembre 1992 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Acutis Luigi e la s.p.a. Microtecnica, iscritta al n. 84 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visti gli atti di costituzione di Pisicoli Vincenza, della s.p.a. Fiat Auto e della s.p.a. Microtecnica nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 5 ottobre 1993 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

 

uditi gli avvocati Massimo D'Antona e Luciano Ventura per Pisicoli Vincenza, Paolo Tosi e Rosario Flammia per la s.p.a. Fiat Auto, Paolo Tosi per la s.p.a. Microtecnica e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Nel corso di un giudizio promosso da Maria Vittorioso e altri contro la s.p.a. FIAT AUTO per ottenere la condanna al maggior accantonamento ai fini del trattamento di fine rapporto e al pagamento di differenze retributive a vario titolo dovute (per festività, ferie, gratifica natalizia ecc.), computando l'indennità sostitutiva della mensa per il valore reale del pasto e non soltanto per quello convenzionale (fissato da un accordo aziendale nell'importo di lire 172 giornaliere), il Pretore di Torino, con ordinanza del 23 novembre 1992, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art.6, comma 4, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359.

 

La norma impugnata fa "salve, a far data dalla loro decorrenza, le disposizioni degli accordi e dei contratti collettivi, anche aziendali, pur se stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che prevedono limiti e valori convenzionali del servizio di mensa e dell'importo della prestazione sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio istituito, a qualsiasi effetto attinente ad istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato".

 

Premesso:

 

a) che a partire dal 1989 la giurisprudenza prevalente, sul presupposto che il servizio di mensa assume natura retributiva quando sia prevista una indennità sostitutiva per coloro che non ne usufruiscono, ha affermato l'incidenza del suo valore reale (e non solo di quello convenzionale) sugli elementi retributivi indiretti o differiti;

 

b) che, in contrasto con questa giurisprudenza, l'art. 6, comma 3, del d.l.n. 333 del 1992 ha introdotto una nuova disciplina della materia per il futuro, la quale esclude, salvo pattuizioni collettive in deroga, la computabilità nella retribuzione, ad ogni effetto, del valore del servizio di mensa e dell'importo della prestazione pecuniaria sostitutiva di esso; il giudice remittente ritiene che il successivo comma 4 ha "una portata indubbiamente retroattiva nella parte in cui sancisce la salvezza delle dette pattuizioni collettive a far data dalla loro decorrenza". Sarebbe stata così disposta la sanatoria di clausole collettive colpite, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, da nullità per contrarietà alle norme imperative di legge che impongono il calcolo delle voci retributive indirette o differite su tutti gli elementi della retribuzione.

 

La deroga al principio di cui all'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile sarebbe: a) irrazionale, perchè viola la certezza del diritto sanando una situazione di nullità negoziale risalente per un periodo di oltre quarant'anni; b) invasiva delle attribuzioni dell'autorità giudiziaria, perchè modifica d'imperio la giurisprudenza prevalente condizionando in senso opposto la decisione dei giudizi in corso; c) lesiva, conseguentemente, anche del diritto di difesa dei cittadini.

 

2. Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito uno dei lavoratori in causa. Premesso che è dubbia la rilevanza della questione, dovendosi escludere l'intenzione della norma impugnata di convalidare clausole collettive attributive al servizio di mensa di valori monetari puramente simbolici, essa conclude in subordine per una dichiarazione di illegittimità costituzionale.

 

3. Si è pure costituita la società convenuta chiedendo che la questione sia dichiarata infondata e formulando riserva di deduzioni, alle quali ha provveduto con un'ampia memoria depositata in prossimità dell'udienza di discussione.

 

Si osserva anzitutto che i dubbi di costituzionalità prospettati dall'ordinanza di rimessione sono eliminati in radice dalla sentenza n. 3888 del 1993 pronunciata dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, nell'esercizio della funzione nomofilattica prevista dall'art. 374, secondo comma, cod.proc.civ. La sentenza nega che il servizio di mensa, la cui fruizione dipende da una scelta del lavoratore, abbia per se stesso natura retributiva, mancando il nesso di corrispettività con la prestazione di lavoro: la qualificazione di retribuzione può ad esso accedere solo in virtù di un precetto dell'autonomia collettiva e nei limiti del valore monetario convenzionalmente fissato dalle clausole che prevedono un'indennità sostitutiva per i lavoratori che non profittano del servizio.

 

Pertanto, l'art. 6, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 non è norma di interpretazione autentica, nè retroattivamente innovativa, ma si limita a confermare, convertendolo in una disposizione esplicita, quello che fino al 1989 era il diritto pacificamente applicato nella materia de qua e del quale le Sezioni unite riconoscono ora la conformità ai principi.

 

Comunque, soggiunge la società convenuta, anche ammesso - giusta l'interpretazione seguita dal giudice remittente e respinta dalle Sezioni unite - che si tratti di norma innovativa munita di efficacia retroattiva, essa non viola nessuno dei parametri costituzionali invocati. Non offende il principio di razionalità, perchè non retroagisce "per quasi quarant'anni", come asserisce il giudice a quo, sanando clausole collettive nulle per contrarietà a norme imperative di legge, bensì impone retroattivamente una disciplina legale corrispondente alla contrattazione collettiva e all'interpretazione dell'accordo interconfederale 20 aprile 1956, recepito nel d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1026, ripetutamente confermata da accordi aziendali e per quasi quarant'anni applicata senza contrasti dalla giurisprudenza.

 

Non invade la sfera delle attribuzioni del potere giudiziario perchè non mira a definire specifici giudizi in corso, ma regola in generale la materia muovendosi su un piano diverso da quello del giudice. Non contrasta, infine, col diritto di difesa, perchè non preclude al giudice la decisione di merito imponendogli di dichiarare d'ufficio l'estinzione dei giudizi pendenti, ma semplicemente detta una regola per la decisione del merito.

 

4. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata con argomenti analoghi a quelli testè riferiti, senza escludere peraltro una valutazione di irrilevanza sul riflesso che le disposizioni del citato accordo interconfederale non contrastano con norme imperative di legge: non con l'art. 2121, testo del 1942, in tema di indennità di anzianità, perchè il servizio di mensa non è equiparabile alla retribuzione in natura, nè con l'art. 5 della legge 27 maggio 1949, n. 260, modificato dalla legge n. 90 del 1954, in tema di compenso per festività, perchè la "normale retribuzione globale di fatto", ivi prevista come base del computo, concerne le sole componenti monetarie del salario.

 

5. Nel corso di un giudizio promosso da Luigi Acutis contro la S.p.a. Microtecnica la questione è stata nuovamente sollevata dallo stesso Pretore di Torino con ordinanza di identico tenore in data 24 dicembre 1992.

 

6. Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la Società Microtecnica chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. In una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza di discussione la Società richiama la più volte citata sentenza n. 3888 del 1993 della Corte di cassazione, la quale, anche a suo avviso, dissolve ogni questione di costituzionalità e in particolare quella sollevata dall'ordinanza del Pretore di Torino. Aggiunge una serie di argomentazioni analoghe a quelle sviluppate dalla difesa della Fiat nell'altro giudizio, sottolineando che le ragioni con cui le Sezioni unite hanno escluso ogni profilo di in costituzionalità della norma impugnata, qualificandola come legge confermativa del diritto vivente, conducono alla medesima conclusione anche se la si considera come legge introduttiva di una nuova disciplina con efficacia retroattiva.

 

7. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per gli stessi motivi indicati nell'intervento spiegato nell'altro giudizio.

 

Considerato in diritto

 

l. Con due ordinanze di identico tenore il Pretore di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 4, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui attribuisce efficacia retroattiva alla norma del comma precedente, facendo "salve, a far data dalla loro decorrenza, le disposizioni degli accordi e dei contratti collettivi, anche aziendali, pur se stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che prevedono limiti e valori convenzionali del servizio di mensa di cui al comma 3 e dell'importo della prestazione sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio istituito, a qualsiasi effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato".

 

2. I giudizi di legittimità costituzionale introdotti dalle due ordinanze hanno il medesimo oggetto; pertanto è opportuno disporne la riunione affinchè siano definiti con unica sentenza.

 

3. La questione non è fondata.

 

L'art. 6, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992 esclude il valore del servizio di mensa e l'importo dell'indennità sostitutiva dalla base di computo agli effetti degli istituti retributivi legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato, salva diversa disposizione dell'autonomia collettiva, alla quale è rimesso il potere di decidere se e in quale misura il servizio debba considerarsi retribuzione ai detti effetti. A questa norma il successivo comma 4, cui è limitato l'incidente di costituzionalità, conferisce efficacia retroattiva.

 

Riconosciuta tale efficacia, ha scarsa importanza stabilire se i commi 3 e 4 costituiscano una norma innovativa con clausola di retroattività oppure una norma interpretativa, per sua natura retroattiva. Nell'uno e nell'altro caso la legge è soggetta al controllo di conformità al principio di ragionevolezza secondo criteri analoghi. La stessa ordinanza di rimessione, che cataloga la norma come innovativa, richiama poi, ai fini della valutazione alla stregua dell'art. 3 Cost., la giurisprudenza di questa Corte in tema di interpretazione autentica.

 

Non si può invece seguire l'ordinanza là dove ravvisa nella norma impugnata una "disposizione a sanatoria" di pattuizioni collettive ritenute nulle dalla giurisprudenza per contrarietà alle norme imperative di legge che vincolano il parametro di computo delle voci retributive di cui è causa a una nozione onnicomprensiva di retribuzione. Sulla base di una falsa analogia con la questione decisa dalla sentenza di questa Corte n. 155 del 1990, apparentemente suggerita dalla lettera della legge, che fa "salvi" i disposti della contrattazione collettiva in ipotesi colpiti da nullità, la valutazione del giudice a quo ascrive alla norma censurata un significato autonomo, mentre essa fa corpo col comma precedente e solo da questa connessione sistematica riceve senso. Il comma 4 non opera direttamente, sanandone la (pretesa) nullità, sulle clausole collettive che commisurano la computabilità del servizio di mensa all'importo convenzionale dell'indennità sostitutiva, bensì sostituisce (retroattivamente) alla precedente regola di giudizio, formulata in via interpretativa dalla giurisprudenza, una specifica regola legale alla stregua della quale le dette clausole devono considerarsi ab origine validamente stipulate.

 

La retroattività non determina la reviviscenza di clausole nulle, bensì elimina in radice la precedente valutazione di nullità.

 

Così precisata nei suoi contenuti, la volontà del legislatore è sovrana, sia o meno in contrasto con la giurisprudenza concorde o quasi con corde, e incontra soltanto il limite dei principi costituzionali. Ma per dire violato il principio di ragionevolezza non è sufficiente il rilievo che "la finalità avuta di mira dal legislatore è stata quella di intervenire per modificare d'imperio un'interpretazione giurisprudenziale sgradita". La legittimità di un intervento legislativo con forza retroattiva non è contestabile nemmeno quando esso sia determinato dall'intento di "rimediare a un'opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata (dal legislatore) più opportuna" (ord. n. 480 del 1992

). In tal caso requisito di giustificazione della retroattività è che il diverso modello di decisione imposto dalla legge sopravvenuta fosse ragionevolmente prospettabile, in relazione ai rapporti anteriormente costituiti, in alternativa a quello applicato dalla giurisprudenza.

 

4.l. Nell'indirizzo giurisprudenziale contrastato dalla norma impugnata non sono riscontrabili i caratteri di una situazione di diritto consolidata al punto da far ritenere improbabile l'ipotesi di soluzione alternativa, e quindi tale che la retroattività dell'intervento legislativo possa reputarsi lesiva della certezza dei rapporti giuridici.

 

L'indirizzo in parola è rappresentato da un gruppo di sentenze della Sezione lavoro della Corte di cassazione racchiuso nel periodo 1989-1992 e contrapposto a una precedente giurisprudenza ultratrentennale che riconosceva pacificamente piena validità all'accordo interconfederale 20 aprile 1956, recepito nel d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1026, e ai successivi accordi aziendali in materia.

 

Nonostante il mutato orientamento giurisprudenziale, la disciplina dell'accordo citato è stata confermata dall'art.11-bis del contratto collettivo 14 dicembre 1990 per il settore metalmeccanico privato e successivamente ribadita in una dichiarazione congiunta delle Segreterie nazionali della Fiom-Cgil, della Fim-Cisl, della Uilm-Uil e della Fismic contestualmente alla firma dell'accordo aziendale 7 febbraio 1991 sulle mense per gli stabilimenti Fiat. La reazione unanime delle organizzazioni sindacali - in relazione alle quali la norma denunciata si pone come legge di sostegno e di salvaguardia dell'autonomia collettiva - si spiega sul riflesso che il nuovo corso inaugurato dalla sentenza della Corte di cassazione n. 3483 del 1989, ove si fosse consolidato, avrebbe de terminato una distribuzione di incrementi di reddito, complessivamente di ingente ammontare, escludendone totalmente i dipendenti delle imprese medio- piccole, che non erogano nè servizio di mensa, nè indennità sostitutiva, e con forti sperequazioni anche tra i lavoratori che usufruiscono del servizio, a cagione delle modalità assai varie di erogazione e delle differenze di costo da azienda ad azienda e da luogo a luogo.

 

4.2. Il mutato orientamento della giurisprudenza di legittimità non solo non ha guadagnato il consenso delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, ma ha trovato opposizione, motivata con sentenze ampiamente argomentate, anche in una parte dei giudici di merito, e nemmeno è rimasto immune da divergenze in seno alla stessa Corte di cassazione.

 

Con una decisione chiaramente in controtendenza la sentenza n.7179 del 1991 ha statuito che "l'erogazione dei pasti da parte del datore di lavoro non costituisce una componente in natura della retribuzione", nè vale a imprimerle tale carattere la semplice previsione di un'indennità sostitutiva, da considerarsi, in mancanza di una diversa espressa volontà contrattuale, "mero rimborso spese".

 

L'art. 6, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992 altro non è se non la traduzione in termini normativi di questa massima e del corollario che ne discende in ordine alla natura dispositiva del la norma: esso comporta l'attribuzione all'autonomia collettiva del potere di fissare discrezionalmente, senza vincolo di alcun parametro, la misura dell'incidenza del servizio di mensa sugli istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro. Tale corollario esclude che si possa trarre argomento di irrazionalità della legge dall'esiguità (determinata dai processi inflattivi della moneta) della somma prevista dai contratti collettivi a titolo di indennità sostitutiva. Di ciò sembra consapevole lo stesso giudice remittente, visto che nel dispositivo dell'ordinanza non si fa questione di rivalutazione della somma.

 

Giova pure osservare, sempre ai fini del giudizio di ragionevolezza, che la legge sotto esame ha eliminato l'incongruenza dell'ultima giurisprudenza col trattamento fiscale del servizio di mensa. L'art. 48, comma 2, lett. d) del d.lgs. 22 dicembre 1986, n. 917, esclude in ogni caso le somministrazioni in mense aziendali dagli elementi concorrenti alla formazione del reddito imponibile, differenziandole quindi, pur quando sia prevista un'indennità sostitutiva, dai "compensi in natura" previsti nei commi 1 e 3.

 

4.3. Per decidere il presente incidente di costituzionalità non occorre entrare nel merito delle opposte interpretazioni espresse in progressione di tempo dalla Corte di cassazione, il cui contrasto è stato composto dalle Sezioni unite con la sentenza n. 3888 del 1993. Entro il limite della ragionevolezza, e sempre che siano rispettati gli altri precetti costituzionali, la scelta del legislatore è insindacabile, indipendentemente dal- l'esattezza dell'interpretazione sulla quale è caduta.

 

Perciò la pronuncia dell'organo investito della funzione nomofilattica, che ha confermato la "tesi interpretativa" dominante fino al 1989, constatando la "sostanziale convergenza" con essa del ius superveniens, viene qui in considerazione come indice rafforzativo del convincimento, già raggiunto aliunde, della non arbitrarietà dell'efficacia retroattiva attribuita alla legge sopravvenuta.

 

5. Infondata è pure la censura riferita agli artt. 101, 102 e 104 Cost. La legge impugnata non appare mossa dall'intento di influire su concrete fattispecie sub iudice; essa stabilisce, in via generale, e retroattivamente, una regola di giudizio che i giudici, nell'adempimento della loro funzione, hanno l'obbligo di applicare anche ai rapporti sorti nel passato, ferma l'intangibilità delle situazioni già definite con sentenza passata in giudicato o in via transattiva. Tale obbligo non è per se stesso lesivo della sfera del potere giudiziario (cfr. sentenza n. 118 del 1957): la retroattività non tocca la potestas iudicandi, bensì il modello di decisione cui l'esercizio della potestà deve attenersi (sentenze nn. 6 del 1988 e 39 del 1993).

 

Per la medesima ragione non sussiste l'asserita violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 4, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal Pretore di Torino con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/11/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Luigi MENGONI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 18/11/93.