Sentenza n. 43

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 43

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 8, secondo e terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1996 dalla Corte costituzionale nel corso del giudizio di legittimità costituzionale, sollevato dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico di Rombi Gennaro, iscritta al n. 614 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di costituzione di Rombi Gennaro;

udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1996 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;

uditi gli avvocati Mauro Mellini e Roberto Lorenzini per Rombi Gennaro.

Ritenuto in fatto

1.-- Nel corso dell'udienza preliminare relativa a un procedimento penale per il reato di rifiuto del servizio militare di cui all'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 a carico di un cittadino, già in precedenza condannato con sentenza definitiva per il medesimo titolo di reato con applicazione del beneficio della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena, e nuovamente indagato, nel giudizio a quo, in relazione all'inosservanza di ulteriore atto di chiamata alle armi emesso dopo il passaggio in giudicato della prima sentenza, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma ha sollevato, con ordinanza del 19 giugno 1995 (R.O. 529 del 1995), questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 8, secondo e terzo comma, della legge n. 772 del 1972, e 163 e seguenti del codice penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione nonché al principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione).

2.-- Respinte come manifestamente infondate diverse e più ampie questioni di costituzionalità prospettate dalla difesa dell'indagato, il giudice a quo osserva che il sistema normativo, qualora vi sia stata la concessione della sospensione condizionale della pena nel giudizio per il primo reato, delinea una sequenza (nuova chiamata alle armi, nuovo reato in caso di reiterazione del rifiuto, revoca del beneficio sospensivo, espiazione della pena e, infine, esonero ex art. 8, terzo comma) che il rimettente reputa complessivamente coerente e sostanzialmente conforme a Costituzione.

Ma un elemento di possibile incostituzionalità è ravvisabile nella sola ipotesi in cui, nel primo giudizio, il beneficio sospensivo sia stato concesso d'ufficio.

In questo caso, infatti, data la mancata richiesta della sospensione condizionale da parte dell'interessato, la reiterazione del reato di rifiuto sarebbe ascrivibile, più che alla volontà dell'obiettore rimasto fermo nei propri convincimenti, alla determinazione del giudice.

Al riguardo, il rimettente muove dal particolare ed esclusivo rilievo che, nella disciplina in argomento, assume la manifestazione di volontà del soggetto, della cui mera dichiarazione di rifiuto l'ordinamento prende atto e alla cui eventuale domanda di segno contrario (art. 8, commi quarto e quinto) viene addirittura attribuita rilevanza quale presupposto di una causa di estinzione del reato. In simile quadro, qualora la sospensione condizionale venga concessa su richiesta dell'interessato, è ragionevole - afferma il giudice a quo - che l'ordinamento sanzioni l'ulteriore rifiuto secondo il descritto regime.

Verso diversa conclusione orienta però il caso in cui il beneficio sospensivo sia applicato d'ufficio. In simile ipotesi, appare al rimettente di dubbia ragionevolezza un meccanismo che, per condurre all'esonero, comporta un prolungamento della pena da espiare senza che questo trovi fondamento in qualche "comportamento intermedio ... tra i momenti di rifiuto su cui si fondano i reati ascritti". Neppure è idonea a dissolvere il dubbio la possibilità di impugnare la sentenza di condanna per vedersi tolto il "beneficio" della sospensione, che si rivela in realtà svantaggioso sul piano della reiterazione dei reati; una possibilità, questa, che implica una pretesa "eccessiva", ad avviso del giudice a quo.

La reiterazione del rifiuto, dunque, deriverebbe da un beneficio non richiesto e il conseguente incremento del periodo di espiazione della pena necessario ai fini dell'esonero risulterebbe, in questo senso, non giustificato in riferimento al parametro di ragionevolezza e al principio della finalità rieducativa della pena. Pur ribadendo la mancanza di collegamento funzionale tra la sospensione condizionale e l'esonero dal servizio militare, il rimettente ritiene che la specifica situazione descritta richieda un'integrazione dei principi ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale: di qui, la proposizione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, secondo e terzo comma, della legge n. 772 del 1972, in combinato disposto con gli artt. 163 e seguenti del codice penale, "nella parte in cui prevede che, a fronte della concessione di ufficio della sospensione condizionale della pena, l'esonero consegua soltanto all'espiazione della pena inflitta per il secondo reato". Quanto alla rilevanza di detta questione, il rimettente osserva che dal suo eventuale accoglimento deriverebbero effetti sul secondo atto di chiamata alle armi adottato nei confronti dell'imputato, atto che è il presupposto dell'ulteriore reato di rifiuto per il quale è in corso il procedimento penale.

3.-- Nel giudizio così promosso si è costituito Gennaro Rombi, indagato nel giudizio a quo. Nell'atto di costituzione, il patrocinio della parte privata ha sviluppato articolate deduzioni, di portata esplicitamente più ampia rispetto al quesito circoscritto - dal giudice rimettente - alla sola ipotesi della precedente condanna con pena condizionalmente sospesa d'ufficio. In particolare, viene censurata l'interpretazione del rimettente secondo cui il reato di rifiuto del servizio previsto dall'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 sarebbe un reato ripetibile; si tratterebbe invece, nonostante la formulazione normativa e in mancanza di una convincente presa di posizione della giurisprudenza di legittimità, di un reato istantaneo, che si proietta su un unico oggetto, il servizio militare, e che assumerebbe effetti permanenti, data l'unicità del servizio di leva. La prima condanna, quindi, non potrebbe far cessare la consumazione di un reato già in sé esaurito né far "rivivere" l'obbligo di prestazione del servizio; d'altra parte sarebbe un'improprietà l'espressione, utilizzata dal legislatore, dell'"esonero" dal servizio a pena espiata. Qualora si aderisse a questa configurazione, la questione sollevata dovrebbe essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza: se il reato è irripetibile, infatti, l'intera censura perde consistenza.

Valorizzando la ratio della legge n. 772 del 1972, rispetto alla situazione normativa preesistente, in cui si configurava la serie delle condanne a catena, il reato di rifiuto totale del servizio, e la collegata previsione dell'esonero da esso, implicano necessariamente, secondo la parte privata, la scelta interpretativa nel senso dell'unicità del fatto e quindi della impossibilità - o illegittimità - di nuove ulteriori chiamate dopo il primo rifiuto.

Sarebbe poi inesatta la tesi secondo la quale solo l'effettiva espiazione della pena esonera dalla prestazione del servizio militare; nella nozione di "espiazione", ai fini che interessano, dovrebbe farsi rientrare ogni modalità con cui si perseguono finalità rieducative, e tra esse quindi anche la sospensione condizionale; si dovrebbe quindi affermare che l'esonero è collegabile, oltre che all'espiazione in senso stretto, all'estinzione del reato o della pena conseguiti per altra via. Ne sarebbe riprova l'esonero conseguente - per incontestata prassi - all'applicazione dello speciale affidamento in prova regolato dalla legge 29 aprile 1983, n. 167, ai condannati per reati di obiezione. In via di principio, dunque, unico presupposto per darsi luogo all'esonero è quello della "constatazione a posteriori che, malgrado la reazione dell'ordinamento, abbia operato un ... tentativo di rieducazione", cosicché, persistendo l'obiezione di coscienza, la sanzione penale non può più raggiungere effetti rieducativi.

Sarebbe, infine, impropria la notazione dell'ordinanza di rinvio secondo la quale le finalità rieducative risulterebbero estranee all'istituto dell'esonero, perché quest'ultimo, per essere ragionevole e legittimo, deve presupporre la constatazione del fallimento di un tentativo di rieducazione, che segna il limite entro cui contenere la tutela dell'interesse pubblico.

Tutte le esposte argomentazioni, osserva il patrocinio della parte, non sono state valorizzate dal giudice a quo, neppure sul piano dei presupposti amministrativi del fatto-reato, avendo il rimettente dedotto il solo specifico elemento della concessione d'ufficio della sospensione condizionale della pena, tale da determinare un irragionevole svantaggio derivante non da scelta dell'interessato ma dalla determinazione del giudice. Un profilo, si osserva ancora, che comunque non potrebbe essere così circoscritto, perché anche nell'ipotesi di richiesta di parte la concessione del beneficio risiede pur sempre nella determinazione discrezionale del giudice; "sempre e comunque", quindi, sussiste l'incostituzionalità delle norme impugnate, nella parte in cui prevedono che l'esonero dal servizio militare consegua solo all'espiazione della pena inflitta per il secondo reato, a fronte della concessione della sospensione condizionale della pena nel primo giudizio.

4.-- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. L'interveniente, individuata la sostanza della questione nella asserita presumibile volontà dell'obiettore di espiare la pena onde ottenere l'esonero dal servizio militare, rileva che, anche a tralasciare i dubbi sulla esattezza di una tale ricostruzione induttiva della volontà dell'imputato, questi dispone comunque del mezzo processuale dell'impugnazione della sentenza per rimuovere, ove lo volesse, gli effetti "deteriori" - per questo profilo - del beneficio, essendo correntemente riconosciuto che la sospensione condizionale non può tradursi in un pregiudizio per l'imputato. L'interveniente ha quindi concluso per una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

5.-- La parte privata ha successivamente depositato una memoria di replica all'atto di intervento dell'Avvocatura erariale, nella quale si afferma l'assurdità del rimedio proposto (l'impugnazione della prima sentenza) al fine di ovviare all'inconveniente dedotto con la questione. L'improprietà del rimedio suggerito riconfermerebbe l'irragionevolezza insita nella normativa impugnata.

6.-- Nel corso del giudizio in via incidentale instaurato dall'ordinanza di rimessione del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, la Corte costituzionale - con ordinanza n. 183 del 27 maggio 1996 (R.O. 614 del 1996) - ha sollevato dinanzi a se stessa, in riferimento agli artt. 2, 3, 19 e 21 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 8, secondo e terzo comma, della legge n. 772 del 1972, nella parte in cui consente la ripetuta sottoponibilità a procedimento penale del medesimo soggetto già condannato per i fatti ivi previsti.

Nell'ordinanza, si osserva che, rispetto alla specifica questione dedotta dal giudice di merito, incentrata sul trattamento di chi ripeta il reato dopo una prima condanna a pena condizionalmente sospesa, assume valore pregiudiziale la valutazione di conformità a Costituzione della più generale possibilità di moltiplicazione delle condanne e della conseguente sommatoria di pene nei confronti di chi rifiuti e persista nel rifiuto della prestazione militare, in tutti i casi in cui, per un motivo previsto dall'ordinamento (nel caso dedotto: per la concessione del beneficio della sospensione condizionale con la prima sentenza), alla condanna irrogata per prima non faccia seguito l'espiazione della pena con essa inflitta.

L'anzidetta possibilità rivela profili di contrasto: a) sia con l'art. 3 della Costituzione, quanto al principio di razionalità, perché essa contraddice la ratio del terzo comma dell'art. 8 della legge n. 772 del 1972, rivolto ad evitare il fenomeno della "spirale delle condanne" che ha ripetutamente originato pronunce di incostituzionalità della disciplina in parola, a iniziare dalla sentenza n. 409 del 1989; b) sia con gli artt. 2, 3, 19 e 21 della Costituzione, che apprestano una protezione costituzionale ai diritti della coscienza (sentenza n. 467 del 1991), perché la comminatoria di plurime condanne e pene può comportare una coercizione morale permanente, in vista di un mutamento coatto della coscienza individuale.

7. -- Anche nel giudizio così instaurato si è costituita la parte privata Gennaro Rombi, il cui patrocinio, nell'atto di costituzione, ha ripetuto le osservazioni già svolte nel precedente atto di costituzione relativo al giudizio di costituzionalità promosso dal giudice penale militare.

8. -- La questione è stata esaminata nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1996; la parte privata ha insistito nelle proprie conclusioni.

Considerato in diritto

1. -- Chiamata a pronunciarsi, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, sulla legittimità costituzionale dell'articolo 8, secondo e terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), in combinato disposto con gli artt. 163 e seguenti del codice penale, nella parte in cui prevede che, in caso di precedente condanna a pena condizionalmente sospesa, in assenza di richiesta dell'imputato, per il reato di rifiuto totale del servizio militare dovuto a motivi di coscienza, l'esonero dal servizio militare consegua soltanto all'espiazione della pena inflitta per un ulteriore medesimo reato di rifiuto, questa Corte ha ritenuto di sollevare d'ufficio innanzi a se medesima la più ampia questione, logicamente pregiudiziale a quella specifica ora indicata, della legittimità costituzionale dello stesso articolo 8, secondo e terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, nella parte in cui non esclude la possibilità della ripetizione di condanne a carico del medesimo soggetto che persiste nel rifiuto totale del servizio militare.

Tale mancata esclusione, che può verificarsi nelle particolari ipotesi di cui si dirà, è apparsa a questa Corte di dubbia legittimità costituzionale per due ordini di ragioni: innanzitutto, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della razionalità della disciplina, in quanto contrastante con la ratio dell'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, all'evidenza rivolto a evitare quella "spirale delle condanne" che in diverse circostanze, a iniziare dalla sentenza di questa Corte n. 409 del 1989, è stata ritenuta illegittima; inoltre, per violazione degli articoli 2, 3, 19 e 21 della Costituzione i quali, secondo una giurisprudenza costituzionale che si è affermata a partire dalla sentenza n. 467 del 1991, apprestano una protezione costituzionale ai cosiddetti "diritti della coscienza", in quanto la comminazione di plurime condanne e pene, nel caso di persistenza nell'atteggiamento di rifiuto, può condurre a una permanente pressione morale in vista di un mutamento coatto dei contenuti della coscienza individuale.

2.-- La questione è fondata.

3.-- Occorre innanzitutto chiarire che il legislatore, con l'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, avendo previsto come reato il fatto del cosiddetto obiettore totale - cioè di colui che, fuori dei casi di ammissione ai benefici previsti dalla legge medesima, adducendo i motivi di coscienza da questa indicati nell'art. 1, rifiuta, in tempo di pace, prima di assumerlo, il servizio militare di leva - ha poi preso in considerazione, per escluderla, l'eventualità di incriminazioni, processi e condanne plurimi di quanti tengano fermo il proprio atteggiamento di rifiuto totale, di fronte al servizio militare e alle obbligazioni alternative a esso. A tal fine, con il terzo comma del medesimo articolo ha previsto che l'espiazione della pena inflitta con la prima sentenza di condanna esonera dalla prestazione del servizio militare di leva.

In tal modo, attraverso il sistema dell'esonero amministrativo conseguente all'espiazione della pena, si raggiunge normalmente il risultato voluto, poiché l'Amministrazione militare non può disporre una nuova chiamata al servizio e, in assenza di questa - indipendentemente da ogni questione circa la configurazione del reato previsto dal secondo comma come reato suscettibile di ripetute commissioni -, viene a mancare il presupposto della ripetizione.

Senonché l'anzidetta sequenza, che dalla condanna, attraverso l'espiazione della pena, conduce all'esonero, può interrompersi le volte in cui, per un motivo previsto dall'ordinamento, l'espiazione totale o parziale della pena non ha luogo. Un'evenienza, quella descritta, che in concreto si realizza per lo più a seguito della concessione della sospensione condizionale della esecuzione di pena, dato il particolare modo di operare di tale beneficio (estintivo del reato al termine del periodo prescritto, ma, anteriormente, solo impeditivo dell'espiazione), ma che può ugualmente derivare, da un punto di vista concettuale e indipendentemente da specifiche prese di posizione della giurisprudenza, da particolari prassi amministrative, o da puntuali statuizioni legislative (ad esempio l'art. 1, comma 2, del d.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, o l'art. 6, comma 5, del d.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865) come conseguenza dell'applicazione di diversi istituti, di portata generale (come, per ipotesi, l'amnistia impropria o l'indulto) o individuale (come la grazia e la liberazione condizionale); istituti diversi tra loro per funzione e meccanismo operativo, ma unificabili, ai fini che qui interessano, per il loro effetto di mancata espiazione dell'intera pena. In codesti casi, non realizzandosi la condizione dell'esonero prevista dall'art. 8, terzo comma, si è ritenuto (come in effetti l'Amministrazione militare ha ritenuto, in relazione a un caso di sospensione condizionale della pena, da cui ha preso origine il processo penale che ha dato luogo al giudizio incidentale sul quale si è infine venuta a innestare la questione ora in esame) che sia necessario procedere a una nuova chiamata, secondo i ritmi ordinari ai quali obbedisce il reclutamento (si veda la circolare del Ministero della difesa LEV/A.49/UDG del 16 luglio 1992, punto 3). Di fronte alla nuova chiamata, il rinnovato atteggiamento di rifiuto innescherà un nuovo processo che si concluderà presumibilmente con una nuova condanna e con la revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa. Cosicché, sia pure eccezionalmente, eventi quali quelli ora indicati, impedendo l'esecuzione della pena e, con ciò, l'operatività dell'esonero, porranno l'obiettore nella condizione di subire quella moltiplicazione di conseguenze penali che l'art. 8, terzo comma, ha in generale inteso escludere.

4. -- La disciplina che si è descritta, in riferimento alle ipotesi particolari anzidette, appare insuperabilmente contraddittoria.

4.1. -- In primo luogo, essa determina un pervertimento della natura di quelli che, nei confronti della generalità dei destinatari, valgono normalmente come benefici. Istituti come la sospensione condizionale della pena, l'amnistia, l'indulto, la grazia e la liberazione condizionale rappresentano, per l'obiettore che coerentemente persiste nel proprio atteggiamento di coscienza, la premessa per la moltiplicazione delle condanne e la sommatoria di pene, laddove, in mancanza di essi, si avrebbe una sola condanna e una sola pena, espiata la quale si darebbe luogo all'esonero.

Né varrebbe osservare che tale mutazione del beneficio nel suo contrario non si verificherebbe se il soggetto che la prima volta ha rifiutato il servizio militare non lo rifiutasse la seconda, cosicché sarebbe conseguenza di mero fatto, derivante dalla circostanza, irrilevante per il diritto, che egli persista nel suo atteggiamento di obiezione. La persistenza è tanto poco irrilevante che lo stesso art. 8, terzo comma, l'ha presa a base di una disciplina che - sia pure imperfettamente - mira per l'appunto a sterilizzarne le conseguenze ulteriori rispetto alla prima condanna e a evitare quella <<spirale delle condanne>> che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte censurato.

4.2. -- Quest'ultima considerazione introduce un secondo aspetto di irrazionalità, rilevabile sotto il profilo dell'incongruità della disciplina impugnata rispetto alla sua ratio. Il terzo comma dell'art. 8, che prevede il sistema dell'esonero amministrativo, è inequivocabilmente dettato nell'intento di evitare che l'integrazione della fattispecie di reato prevista dal secondo comma possa avvenire più d'una volta, nell'ambito della vicenda personale di ciascun obiettore. Ciò, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 343 del 1993), costituisce garanzia di proporzionalità della pena, nel bilanciamento tra la protezione del dovere di difesa della Patria e la garanzia della libertà personale. Ma, nei casi particolari che sono qui in questione, la legge manca il suo obiettivo e tradisce la sua ratio. E, anche in questo, può vedersi un aspetto della sua irrazionalità.

E' ben vero, tuttavia, che l'intento legislativo di evitare la moltiplicazione dei processi, delle condanne e delle pene non è incondizionato. Ciò che preme al legislatore è che un'espiazione di pena vi sia ed è a tale condizione che si prevede l'esonero, dal quale deriverà l'impossibilità di una nuova commissione del reato di rifiuto, previsto dal secondo comma dell'art. 8. Ed è altrettanto vero che nei casi di sospensione o estinzione della pena l'espiazione manca, in tutto o in parte. Perciò - si potrebbe concludere - quella ratio non avrebbe ragione di essere invocata per argomentare l'irrazionalità della legge: anzi, taluno potrebbe al contrario concludere ch'essa, mancando l'espiazione della pena, non solo giustifica ma addirittura esige l'iterazione della condanna.

Senonché, si deve considerare che gli eventi da cui deriva la mancata espiazione della pena dipendono da logiche e obbediscono a interessi istituzionali obiettivi, tanto da poter essere posti in essere, tutti, per iniziativa unilaterale delle autorità competenti. La ratio che esprime la disciplina dell'art. 8, secondo e terzo comma, deve pertanto essere ricostruita in modo tale da tener conto dell'esistenza dei casi di estinzione e sospensione della pena. E in tale ricostruzione complessiva l'elemento della previa espiazione della pena appare recessivo, di fronte alla duplice esigenza di non impedire la normale applicazione degli istituti che comportano la sospensione o l'estinzione della pena e ugualmente di escludere la moltiplicazione delle condanne.

In altri termini, per tener ferma come fondamentale l'esigenza di non consentire la catena delle condanne, la Corte, non potendo negare in generale l'applicabilità degli istituti della sospensione e dell'estinzione della pena al reato previsto dall'art. 8, secondo comma, deve invece negare l'assolutezza della previa espiazione della pena, come elemento condizionante la ragione d'essere delle norme in esame.

E' rispetto alla ratio così ricostruita, alla luce dell'operatività degli istituti generali della sospensione e dell'estinzione della pena, che gli effetti prodotti dalle norme impugnate appaiono, nelle ipotesi in esame, contraddittori.

5. -- L'incostituzionalità della normativa impugnata, al di là dei profili di irrazionalità interna al sistema legislativo ora esaminati, risulta altresì dalla violazione degli articoli 2, 3, 19 e 21, primo comma, della Costituzione i quali, come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 196 del 1987 e 467 del 1991), contengono un insieme di elementi normativi convergenti nella configurazione unitaria di un principio di protezione dei cosiddetti diritti della coscienza.

Tale protezione, tuttavia, non può ritenersi illimitata e incondizionata. Spetta innanzitutto al legislatore stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà ch'essa reclama, da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la Costituzione (art. 2) impone, dall'altro, affinché l'ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi.

Si può pensare, nell'ambito di tali valutazioni d'insieme, che un atto compiuto per ragioni di coscienza riconosciute dal legislatore, possa essere considerato illecito e incorrere in sanzione, tanto più che, nella specie, in mancanza di essa, si finirebbe per rendere facoltativi sia il servizio militare che i servizi alternativi a esso, previsti dalla legge. Ma, una volta che all'elemento delle determinazioni di coscienza si dia un rilievo, sia pure in un contesto sanzionatorio, non si può non seguire la logica che ne deriva.

Si potrà esigere l'espiazione di una pena - in mancanza di altre più valide alternative - come corrispettivo della sottrazione a doveri costituzionalmente imposti (nella specie, secondo l'art. 52 della Costituzione, la difesa della Patria nelle sue diverse possibili modalità: sentenze nn. 53 del 1967, 164 del 1985 e 470 del 1989). Ma, una volta che all'elemento della coscienza si sia dato un valore caratterizzante la disciplina positiva, non si può poi disconoscerlo e predisporre misure di pressione rivolte a provocare il mutamento delle convinzioni e dei comportamenti secondo coscienza. Quando, secondo valutazioni rientranti nell'ambito della sua discrezionalità, il legislatore ritenga che l'ordinato vivere sociale non consenta di riconoscere ai singoli il diritto di sottrarsi unilateralmente e incondizionatamente all'adempimento dei doveri di solidarietà, il rilievo ch'esso comunque dia alle determinazioni di coscienza, se è compatibile con la previsione di una sanzione nella quale l'obiettore decida di incorrere, per fedeltà e coerenza ai propri convincimenti, non è invece ragionevolmente compatibile con la pressione morale che si dispiega nel tempo, attraverso la comminazione reiterata di sanzioni per il caso di perseveranza nel medesimo atteggiamento di coscienza.

Tra la previsione di una prima e unica sanzione e la ripetuta comminazione di sanzioni corre infatti un'incolmabile distanza qualitativa. Solo la prima è compatibile con il riconoscimento della signorìa individuale sulla propria coscienza, la quale può non essere disgiunta da un onere, previsto dall'ordinamento; la seconda, invece, introducendo una pressione morale continuativa orientata a ottenere o il mutamento dei contenuti della coscienza ovvero un comportamento esteriore contrastante con essa, finisce per disconoscere tale signorìa. Tale è la ragione che ha indotto questa Corte, già nella sentenza n. 409 del 1989, a eliminare non la previsione di una condanna ma la possibilità di quella che è stata denominata la "spirale delle condanne", in materia di servizio militare, quando siano coinvolte questioni di coscienza cui il legislatore abbia dato rilievo. Ed è la stessa ragione che l'ha indotta, nella sentenza n. 467 del 1991, a parlare con enfasi, ancora per censurare le norme che lo rendevano possibile, di <<effetto devastante>> sulla coscienza derivante dalla ripetuta e perdurante minaccia di sanzione.

6. -- L'eliminazione dell'incostituzionalità della normativa impugnata comporta che se ne dichiari l'illegittimità nella parte in cui non esclude la possibilità di comminazione, irrogazione ed esecuzione di più di una condanna per il medesimo fatto di reato previsto dall'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772. Appartiene all'ambito delle determinazioni interpretative e, eventualmente, delle scelte legislative stabilire come tale esclusione, fin da ora imposta dal rispetto della Costituzione, possa articolarsi a partire dalla disciplina positiva: se attraverso una riconsiderazione della disciplina amministrativa della chiamata di leva, oppure della disciplina penale sostanziale o processuale della materia esaminata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, secondo e terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), nella parte in cui non esclude la possibilità di più di una condanna per il reato di chi, al di fuori dei casi di ammissione ai benefici previsti dalla legge suddetta, rifiuta, in tempo di pace, prima di assumerlo, il servizio militare di leva, adducendo i motivi di cui all'art. 1 della medesima legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 1997.

Il Presidente: Renato GRANATA

Il Redattore: Gustavo ZAGREBELSKY

Depositata in cancelleria il 20 febbraio 1997.