Sentenza n. 379 del 1996

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SENTENZA N. 379

 

ANNO 1996

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

 

-     Prof. Luigi MENGONI

 

-     Prof. Enzo CHELI

 

-     Dott. Renato GRANATA

 

-     Prof. Giuliano VASSALLI

 

-     Prof. Francesco GUIZZI

 

-     Prof. Cesare MIRABELLI

 

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-     Avv. Massimo VARI

 

-     Dott. Cesare RUPERTO

 

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

 

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

 

-     Prof. Valerio ONIDA

 

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 24 luglio 1996 e depositato in cancelleria il 1° agosto 1996, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del provvedimento in data 23 maggio 1996 del Tribunale di Roma, sezione Giudice per le indagini preliminari, ufficio 15°, con cui e' stata dichiarata la non applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e la trasmissione alla Presidenza della Camera dei deputati degli atti del procedimento a carico degli ex deputati Bonafini Flavio e Tagini Paolo, indagati in ordine ai reati di cui agli artt.479 e 494 del codice penale, perchè in concorso con deputati assenti si attribuivano falsamente la qualifica e l'identità di altri parlamentari nella partecipazione alla seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995 e, successivamente, partecipavano alle operazioni di voto attestando falsamente la presenza e l'espressione del voto da parte di due deputati non presenti in aula, ed iscritto al n. 21 del registro conflitti 1996.

 

Visti gli atti di costituzione della Procura della Re- pubblica presso il Tribunale di Roma e del Senato della Repubblica;

 

udito nell'udienza pubblica del 1° ottobre 1996 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;

 

uditi l'avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati e gli avvocati Federico Sorrentino e Salvatore Mileto per la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e l'avvocato Paolo Barile per il Senato della Repubblica.

 

Ritenuto in fatto

 

1.-- Con informativa dell'11 aprile 1995 i Carabinieri di Milano trasmettevano al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma un esposto-denuncia relativo alla votazione effettuata nella seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995, nel corso della quale l'on. Paolo Emilio Taddei aveva pubblicamente denunciato di aver assistito personalmente all'espressione di quattro voti da parte di due soli deputati.

 

Il Procuratore della Repubblica, con nota del 31 ottobre 1995, chiedeva alla presidenza della Camera elementi informativi circa l'erogazione dell'indennità giornaliera di presenza spettante ai deputati, l'oggetto e il risultato della votazione ed altri profili utili allo svolgimento delle indagini in ordine ai reati in quel momento a suo avviso ipotizzabili (truffa e falso per induzione).

 

Con nota del 29 novembre 1995, diretta al Procuratore della Repubblica, il Segretario generale della Camera invitava il pubblico ministero inquirente a riconsiderare la questione nell'ambito del principio di insindacabilità degli atti normativi delle Camere e sottolineava l'esclusiva competenza del Presidente della Camera dei deputati a decidere sulla regolarità delle votazioni. Concludeva affermando che la investigazione in merito alla stessa regolarità delle votazioni e ai presupposti per l'erogazione delle indennità parlamentari avrebbe comportato una violazione della sfera di attribuzioni del Parlamento.

 

Il pubblico ministero proseguiva nella sua azione e, ipotizzando i reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e sostituzione di persona), in data 3 maggio 1996 chiedeva al Giudice per le indagini preliminari di dichiarare, nei confronti degli onorevoli Bonafini Flavio e Tagini Paolo, la non applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, secondo il quale i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.

 

Il Giudice per le indagini preliminari, con ordinanza del 23 maggio 1996, accedeva alla richiesta del pubblico ministero e disponeva la trasmissione degli atti del procedimento alla presidenza della Camera dei deputati, secondo quanto stabilito dal decreto-legge n. 253 del 10 maggio 1996 (Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione).

 

A seguito di tale provvedimento, la Camera dei deputa ti elevava conflitto di attribuzione con ricorso depositato in data 11 luglio 1996, chiedendo a questa Corte di dichiarare: che spetta esclusivamente alla Camera dei deputati, ai sensi degli artt. 64 e 68 Cost., esercitare insindacabilmente l'attività legislativa anche per quanto concerne la valutazione del comportamento dei parlamentari nel corso delle votazioni; che, in particolare, sono sottratte ad ogni sindacato dell'autorità giudiziaria le attività disciplinate dai regolamenti parlamentari e le vicende in cui si concretano lo svolgimento delle votazioni e l'accertamento e la proclamazione dei relativi risultati; e, conseguentemente, di annullare, perchè viziata per incompetenza assoluta, l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, ufficio 15°, del 23 maggio 1996, nonchè, per quanto possa occorrere, le richieste del pubblico ministero in ordine alla pretesa inapplicabilità dell'art. 68, riaffermando la competenza esclusiva della Camera a pronunciarsi in proposito.

 

Ad avviso della Camera dei deputati, gli atti impugnati sarebbero lesivi dell'autonomia delle Assemblee parlamentari nell'esercizio delle proprie funzioni normative ed operative, garantita dall'art. 64, e non solo dall'art. 68 della Costituzione, in quanto la regolarità della votazione nella quale si sarebbero verificati gli asseriti illeciti sarebbe stata attestata, nell'esercizio di una competenza esclusiva, dal Presidente della Camera.

 

L'accertamento della responsabilità per falso comporterebbe un inammissibile controllo esterno sulla applicazione dei regolamenti parlamentari e si risolverebbe in una dichiarazione di falsità del verbale della seduta del 16 febbraio 1995, ai sensi dell'art. 537 del codice di procedura penale secondo il quale la falsità di un atto o di un documento, accertata con sentenza di condanna, e' dichiarata nel dispositivo.

 

La competenza in materia della autorità giudiziaria ordinaria andrebbe perciò esclusa anche in considerazione dei distruttivi inconvenienti che altrimenti si verificherebbero col ricorso in Parlamento alla pratica del doppio voto, che potrebbe addirittura divenire strumento di invalidazione di leggi da parte di parlamentari che artatamente volessero inquinarne il procedimento di approvazione. Ciò tanto più in quanto nella competenza riservata in maniera esclusiva ai regolamenti parlamentari rientrerebbe, quale mezzo al fine della tutela dell'autonomia del Parlamento, la disciplina del modus operandi del parlamentare e la relativa previsione di sanzioni disciplinari.

 

In sostanza, a giudizio della Camera, l'art. 68 della Costituzione non potrebbe essere invocato, come invece sembra fare il Giudice per le indagini preliminari, ignorando l'art. 64, che tutela l'organo nel suo complesso e la funzione legislativa ad esso affidata dagli art. 70 e 72;

 

solo una visione coordinata delle norme costituzionali permetterebbe di cogliere il pieno significato dell'autonomia del Parlamento: il richiamo isolato ad una norma (l'art. 68 Cost.), per desumerne il limite alla insindacabilità dei comportamenti di parlamentari incidenti sul procedimento legislativo, risulterebbe asistematico e antistorico.

 

2.-- Questa Corte, con ordinanza n. 269 del 1996, ha dichiarato ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla Camera dei deputati nei confronti del Tribunale di Roma, sezione Giudici per le indagini preliminari, ufficio 15°, estendendo la notifica del ricorso, oltre che alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, di un cui atto era stato chiesto l'annullamento, anche al Senato della Repubblica, apparendo opportuno acquisirne il punto di vista, stante l'identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

 

3.-- Degli organi ai quali, secondo quanto disposto nell'anzidetta ordinanza, il ricorso per conflitto e' stato notificato a cura della Camera, si sono costituiti innanzi a questa Corte la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e il Senato della Repubblica.

 

La Procura della Repubblica eccepisce in primo luogo la inammissibilità del ricorso della Camera dei deputati sotto diversi profili. Innanzi tutto, esso sarebbe motivato anche sulla base dell'asserita violazione dell'art. 68 Cost., mentre nella delibera assembleare con la quale si e' deciso di proporre conflitto sarebbe ipotizzata la sola violazione dell'art. 64 Cost. In secondo luogo, la stessa Camera avrebbe omesso di pronunciarsi circa l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., dei comportamenti oggetto di indagine, dopo la trasmissione degli atti del procedimento da parte del Giudice per le indagini preliminari.

 

Infine, la Procura eccepisce l'inammissibilità del conflitto per difetto di attualità della lesione, sotto il profilo delle conseguenze che una sentenza di condanna in sede penale, già meramente eventuale, avrebbe sugli atti della Camera. Una simile pronuncia, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso introduttivo, non comporterebbe nella specie l'applicabilità all'atto votato dell'art. 537 cod. proc. pen., e non avrebbe alcuna incidenza sull'attestazione dell'esito della votazione e sul regime giuridico degli atti risultanti, anche in considerazione dell'amplissima maggioranza che si era espressa, nel caso di specie, a favore dell'approvazione dell'atto stesso. D'altra parte, in via generale, la proclamazione del risultato effettuata dal Presidente dell'Assemblea attesterebbe, ad avviso della Procura, solo l'esito favorevole o sfavorevole della votazione e non la sua regolarità, e, ancora, l'accertamento di un falso perpetrato nel corso dell'iter parlamentare di una legge verrebbe a costituire solo un presupposto della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di essa; e ciò anche nel caso in cui il reato fosse compiuto proprio al fine dell'invalidazione successiva.

 

Quanto al merito del conflitto, la Procura della Repubblica rileva che i fatti oggetto di indagine comporterebbero una violazione del principio costituzionale della personalità e indelegabilità del voto parlamentare;

 

principio, questo, desumibile -- in correlazione a quanto stabilito espressamente nell'art. 48, secondo comma, per il voto politico -- dall'art. 64, terzo comma, della Costituzione che richiede, per l'approvazione delle deliberazioni, la maggioranza dei "presenti".

 

Apparirebbero, di conseguenza, indubitabili sia l'invalidità del voto espresso in Parlamento da parte di un soggetto diverso dal parlamentare al quale il voto stesso e' destinato ad imputarsi, sia l'assoluta estraneità dell'attività di sostituzione, ove svolta da altro parlamentare, all'esercizio delle funzioni, tutelato dall'art. 68, primo comma, Cost.

 

Per ciò che riguarda la violazione dell'art. 64, primo comma, Cost., la Procura osserva che il regolamento parlamentare non disciplinerebbe atti e comportamenti penalmente rilevanti, che possono verificarsi in sede parlamentare e che sarebbe errato ritenere insindacabili, essendo commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni. In ordine a tali fatti, la responsabilità dei parlamentari dovrebbe essere piena e non solo politica o disciplinare, dal momento che comunque il regolamento non basterebbe a sanzionare efficacemente condotte che potrebbero giungere fino alla coartazione fisica o morale di altri parlamentari impegnati nel voto. Del resto, secondo la Procura, il vigente regolamento della Camera non conterrebbe norme disciplinari, se non a tutela dell'"ordine delle sedute" ed in relazione a comportamenti che rientrerebbero tutti nella sfera dell'insindacabilità, garantita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.

 

4.-- Il Senato della Repubblica nel suo atto di costituzione chiede l'accoglimento del ricorso della Camera, ritenendo infondati gli argomenti addotti dal Giudice per le indagini preliminari e dal pubblico ministero per affermare la non applicabilità del principio di insindacabilità degli atti parlamentari.

 

A giudizio del Senato, l'esercizio dell'azione penale nel caso in esame finirebbe con l'investire necessariamente gli atti della Camera relativi alle operazioni di voto. Il giudice penale dovrebbe infatti valutare la correttezza e la legittimità non solo dei voti registrati nel processo verbale della Camera, ma anche della proclamazione dell'esito della votazione e della determinazione circa la definitività di tale proclamazione che nella specie e' stata effettuata dal Presidente a seguito di contestazione di altro deputato;

 

lo stesso giudice, infine, dovrebbe valutare la legittimità della intervenuta decisione del Presidente di non annullare e non disporre, a termini di regolamento, l'immediata rinnovazione della votazione effettuata.

 

Tutto ciò, ad avviso del Senato, andrebbe ritenuto insindacabile ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, che sancirebbe una deroga alla punibilità dei comportamenti dei parlamentari al fine di tutelare l'autonomia e l'indipendenza del processo di formazione della volontà delle Camere.

 

Errata sarebbe anche l'affermazione, contenuta nella richiesta del pubblico ministero al Giudice per le indagini preliminari, di estraneità dei comportamenti dei deputati sottoposti a indagine all'esercizio delle funzioni parlamentari. Il pubblico ministero perseguirebbe infatti un reato di falso configurabile solo nell'esercizio di funzioni pubbliche e, d'altra parte, il comportamento dei deputati non potrebbe dirsi semplicemente occasionato dall'esercizio delle funzioni di voto, bensì sarebbe stato strettamente connesso e correlato con tale esercizio. Ne' sarebbe possibile distinguere tra attività di voto regolare ed attività irregolare senza sindacare le modalità di espressione del voto.

 

5.-- In prossimità dell'udienza tutte le parti costituite hanno depositato memorie.

 

La Camera dei deputati confuta le deduzioni della Procura di Roma, sostenendo innanzitutto l'infondatezza delle eccezioni di inammissibilità. Quanto alla prima, relativa al contenuto della deliberazione di sollevare il conflitto, la Camera rileva che, in generale, là dove e' ammessa la difesa tecnica, non sarebbe logico considerare preclusa la deduzione in giudizio di ogni motivo ritenuto giuridicamente idoneo a provare il fondamento dell'iniziativa e, nella specie, gli artt.64 e 68 della Costituzione si troverebbero in un rilevante rapporto di coerenza sistematica.

 

Quanto alla seconda eccezione, riguardante l'omessa pronuncia della Camera circa l'insindacabilità dei comportamenti dei deputati indagati, la memoria sottolinea che la Camera stessa avrebbe in tutti i suoi atti contestato in radice il potere dell'autorità giudiziaria ordinaria di interferire nel procedimento legislativo, censurando anche l'erronea individuazione da questa effettuata dell'art. 68 Cost., quale unica norma costituzionale rilevante nella fattispecie.

 

Per ciò che concerne infine la terza eccezione di inammissibilità, la difesa della Camera sostiene che la mera eventualità della condanna penale e delle sue conseguenze sugli atti della Camera non renderebbe privo il conflitto del requisito dell'attualità, poichè, a questo fine, sarebbe sufficiente la sola turbativa dell'esercizio delle attribuzioni, potendo anche mancare del tutto un atto che dia occasione al conflitto: e' proprio in questo senso che si dovrebbe interpretare, secondo la ricorrente, l'art. 38 della legge n. 87 del 1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Il problema all'esame della Corte riguarderebbe immediatamente il funzionamento dell'Assemblea per la parte disciplinata dal regolamento della Camera, trattandosi di una contestazione che investirebbe le modalità di espressione di due voti, e cioé una materia procedimentale riservata al regolamento stesso dall'art.72 della Costituzione.

 

In replica alle deduzioni della Procura sul merito del conflitto, la Camera afferma la non pertinenza del richiamo all'art. 64, terzo comma, Cost., che riguarderebbe materia, quale la determinazione dei quorum di validità delle deliberazioni della Camera, diversa dal voto dei cittadini elettori previsto dall'art. 48.

 

La Costituzione poi non prevederebbe alcuna deroga alle norme che garantiscono piena autonomia al Parlamento e competenza esclusiva sulle leggi alla Corte costituzionale, non potendosi certo interpretare in tal senso l'obbligo imposto al pubblico ministero di esercitare l'azione penale (art. 112 Cost.). L'invasione della sfera di autonomia del Parlamento e dei suoi componenti nell'esercizio delle funzioni, si consumerebbe, d'altra parte, con qualsiasi tipo di atto o di comportamento che determini dall'esterno impedimenti, controlli o turbative perchè il Parlamento sarebbe, anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, una istituzione che si autodisciplina, risultando incondizionata l'attribuzione ad esso delle sue competenze, della loro regolamentazione, degli strumenti di vigilanza e di sanzione, dell'interpretazione e dell'applicazione del regolamento, almeno per quanto non previsto direttamente dalla Costituzione.

 

La difesa della Camera ricorda infine che le sezioni unite penali della Corte di cassazione, con sentenza del 12 marzo 1983, avrebbero negato la giurisdizione di qualsiasi autorità giudiziaria sugli atti delle Commissioni parlamentari di inchiesta, affermando, tra l'altro, che non sarebbe ipotizzabile alcun illecito dei membri del Parlamento nell'esercizio delle funzioni proprie del loro mandato.

 

6.-- Il Senato della Repubblica espone nella memoria difensiva il proprio convincimento -- in merito alla prima eccezione di inammissibilità sollevata dalla Procura di Roma -- circa la correttezza del richiamo effettuato dal ricorso della Camera non solo all'art. 64 Cost., ma anche all'art. 68, primo comma, Cost.: le due norme sarebbero, infatti, in un rapporto di inscindibile connessione funzionale e l'ambito oggettivo del conflitto verrebbe definito solo dall'atto introduttivo. Quanto alla seconda eccezione di inammissibilità, la decisione di sollevare conflitto implicherebbe, secondo il Senato, di per se', l'affermazione nel caso concreto della insindacabilità stabilita dall'art. 68, primo comma, Cost., ne' sarebbe possibile escludere nella specie l'esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto lo stesso art.68 garantirebbe ogni attività compiuta dal parlamentare all'interno e all'esterno delle Camere, comunque connessa con le funzioni derivanti dalla carica.

 

Anche l'eccezione relativa al difetto di attualità della lesione e alla conseguente inammissibilità del ricorso, sarebbe, ad avviso del Senato, infondata, essendo sufficiente a provocare indebite interferenze il semplice svolgimento di attività di indagine da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria sull'attività legislativa della Camera dei deputati.

 

Nel merito, secondo la difesa del Senato, sussisterebbe la lamentata violazione dell'art. 64 Cost. da parte dell'autorità giudiziaria: la peculiare collocazione dei regolamenti parlamentari nel sistema delle fonti comporterebbe la potestà di disciplinare i procedimenti di formazione della volontà parlamentare, con il solo limite delle norme costituzionali, ma con la sottrazione di tale competenza alla stessa legge ordinaria e con la conseguente possibilità per le sole Camere di individuare sia le corrette modalità di svolgimento delle funzioni parlamentari, sia le conseguenze giuridiche dei comportamenti difformi da quanto stabilito nei regolamenti. La materia del presente conflitto riguarderebbe la sfera più tipica dell'autonomia parlamentare: il procedimento di deliberazione e di votazione, la cui regolamentazione non può che essere riservata a ciascun ramo del Parlamento. Ne' mancherebbero nel regolamento della Camera le sanzioni per il caso concreto, riconducibile ad una grave irregolarità nell'espressione di un voto.

 

7.-- Nella memoria della Procura della Repubblica si deduce un nuovo motivo di parziale inammissibilità del ricorso della Camera: poichè in esso si lamenterebbe la violazione di competenze (quali la proclamazione dei risultati della votazione e la verifica della regolarità di questa) attribuite in via esclusiva al Presidente dell'Assemblea in materia di procedimento legislativo, il conflitto avrebbe dovuto essere sollevato, sotto tale profilo, dallo stesso Presidente della Camera.

 

La Procura della Repubblica ribadisce poi che, avendo la Camera dei deputati lamentato la lesione ad opera della autorità giudiziaria della propria potestà normativa ed "operativa", garantita dall'art. 64 della Costituzione, non vi sarebbe necessità di soffermarsi sui profili attinenti all'immunità parlamentare di cui all'art. 68, primo comma, Cost., se non per confutare la tesi della difesa del Senato, secondo cui il voto espresso da un deputato in luogo di un altro costituirebbe non già un mero ed illecito comportamento materiale, bensì un vero e proprio "voto", espresso nell'esercizio delle funzioni e pertanto insindacabile, ancorchè "irregolare". Sul punto la difesa della Procura sottolinea che l'esercizio di "funzioni pubbliche", che sarebbe stato affermato dall'autorità giudiziaria con riferimento all'attività posta in essere dai due indagati, si ricollegherebbe esclusivamente al loro status di parlamentari e alla attività di voto da questi esercitata, nell'occasione, in nome proprio; tale qualificazione non potrebbe estendersi però alla concomitante attività di "sostituzione" dei colleghi assenti.

 

La Procura sostiene ancora che l'iniziativa giudiziaria, riguardante illeciti ascritti a parlamentari fuori dall'esercizio delle loro funzioni, non lederebbe in alcun modo l'autonomia legislativa del Parlamento: infatti, la funzione legislativa nella specie sarebbe già stata esercitata e avrebbe avuto modo di svolgersi senza interferenze, esaurendosi con l'approvazione dell'atto in discussione. Ne' l'autonomia delle Camere potrebbe ritenersi lesa per il fatto che l'eventuale sentenza di condanna di parlamentari potrebbe incidere sull'attestazione di approvazione della votazione effettuata dal Presidente: oggetto dell'indagine sarebbe infatti soltanto il comportamento illecito ascritto ai due deputati, mentre le eventuali conseguenze in ordine alla attività svolta dal Presidente non rileverebbero.

 

Le Assemblee parlamentari, d'altra parte, non potrebbero dettare norme interne o esercitare una giurisdizione domestica in sostituzione rispettivamente delle norme e della giurisdizione dell'ordinamento penale generale; ne' potrebbero essere considerate surrogatorie di quelle penali le norme disciplinari contenute nei regolamenti parlamentari, finalizzate al buon funzionamento e alla organizzazione delle Camere. Ad avviso della difesa della Procura, le immunità parlamentari e l'autonomia regolamentare ed organizzativa delle Camere costituirebbero eccezioni, costituzionalmente previste, al principio della rilevanza per l'ordinamento generale degli atti e dei comporta menti dei parlamentari: in particolare, l'art. 68, primo comma, Cost., costituendo deroga al principio di eguaglianza e ad altri fondamentali principi costituzionali, sarebbe di stretta interpretazione e comporterebbe di conseguenza la piena responsabilità del parlamentare secondo le norme generali, per tutto quanto egli compia fuori dall'esercizio delle sue funzioni, ancorchè nelle aule del Parlamento. Nella specie, la Camera, sollevando il conflitto, avrebbe implicitamente escluso che le indagini intraprese dall'autorità giudiziaria incidessero sull'art. 68, primo comma, della Costituzione: conseguentemente, non potrebbe, attraverso il richiamo dell'art. 64, far valere un'irresponsabilità che sarebbe del tutto estranea alla previsione costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

1.-- Il conflitto di attribuzione promosso dalla Camera dei deputati, sul quale questa Corte e' chiamata a decidere, trae origine dalle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma nei confronti di due deputati inquisiti in relazione alle ipotesi di reato previste dagli artt. 479 e 494 del codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), nonchè dal provvedimento del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma con il quale e' stata esclusa l'applicabilità alla specie dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e disposta la trasmissione degli atti del procedimento in corso alla Camera dei deputati. Nell'ipotesi accusatoria che ha dato luogo all'anzidetto procedimento penale tali deputati si sarebbero falsamente attribuiti, nella seduta della Camera del 16 febbraio 1995, la qualifica e l'identità di altri parlamentari assenti, votando in luogo di questi. Nella prospettazione della ricorrente l'attività della autorità giudiziaria avrebbe leso le attribuzioni garantite alla Camera dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione, dai quali si desumerebbe il principio di assoluta insindacabilità delle attività poste in essere dai singoli deputati nell'esercizio di funzioni parlamentari.

 

2.-- Con l'ordinanza n. 269 del 1996, questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n.87, "restando impregiudicata, atteso il carattere meramente delibatorio della presente pronuncia, ogni ulteriore decisione anche in punto di ammissibilità". L'esito di quella delibazione deve essere confermato in questa fase di cognizione piena, sia sotto il profilo soggettivo del conflitto, sia sotto il profilo oggettivo.

 

Quanto al primo profilo, deve ribadirsi, in conformità alla giurisprudenza ormai consolidata, la legittimazione di ciascuna Camera a promuovere, attraverso il suo Presidente e sulla base di una conforme delibera dell'Assemblea, conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato.

 

Entrambe le Camere sono infatti da ritenere competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, allorchè vengano in considerazione "attribuzioni rivendicate in nome dell'indipendenza e dell'autonomia di ciascun ramo del Parlamento" (sentenza n. 129 del 1981). Del pari indubitabile e' la legittimazione -- in questo caso passiva -- del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, essendo insegnamento costante di questa Corte che i singoli organi giurisdizionali svolgono le loro funzioni in posizione di piena indipendenza, costituzionalmente garantita (sentenze n. 1150 del 1988 e n. 231 del 1975 e ordinanze n. 6 del 1996 e n. 68 del 1993). La legittimazione a resistere al conflitto deve essere inoltre riconosciuta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, poichè il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione, e' titolare dell'attività di indagine finalizzata all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (sentenze n. 420 del 1995, n. 462, n. 463 e n. 464 del 1993).

 

Sotto il profilo oggettivo, la Camera, negando che il comportamento di due suoi membri, ai quali viene rivolto l'addebito di aver fatto figurare la presenza di deputati assenti e di aver espresso il voto in luogo di questi, possa essere sottoposto ad indagine ed accertamento da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria, lamenta la violazione della posizione di autonomia e di indipendenza che la Costituzione le garantisce. Sussiste pertanto, indubbiamente, la materia di un conflitto per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, che questa Corte e' chiamata a risolvere.

 

Legittimato ad intervenire nel presente conflitto deve essere, infine, ritenuto il Senato della Repubblica al quale la notifica del ricorso e' stata estesa in forza dell'ordinanza n. 269 del 1996; l'identica posizione costituzionale delle due Camere in merito alle questioni delle quali si controverte rende opportuno accordare anche all'altra Camera la facoltà di interloquire.

 

3.-- Prima di passare allo scrutinio di merito, devono essere esaminate alcune eccezioni di carattere processuale avanzate dalla difesa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

 

Secondo una prima eccezione farebbe difetto, nella specie, il requisito della attualità della lesione delle attribuzioni della Camera, che potrebbero essere, in ipotesi, compromesse solo da una sentenza di condanna dei parlamentari.

 

Questa prima eccezione, con la quale in sostanza si nega, seppure implicitamente, anche la qualità di potere dello Stato del Procuratore della Repubblica, non può essere accolta. Solo se questa Corte fosse stata adìta a scopo meramente consultivo, per pronunciarsi, cioé, su ipotesi astratte, l'eccezione avrebbe avuto fondamento, ma e' pacifico che, ai fini dell'ammissibilità dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, e' richiesto solo l'interesse ad agire, "la cui sussistenza e' necessaria e sufficiente a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri della concretezza e dell'attualità" (sentenza n. 420 del 1995). E non può negarsi, nel caso di specie, che il requisito dell'interesse sia già pienamente presente a seguito dell'attività di indagine promossa dalla Procura della Repubblica nei confronti di due ex deputati e della ordinanza adottata il 23 maggio 1996 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, su conforme richiesta della Procura della Repubblica, con la quale si dichiara di voler procedere. Il conflitto in cui si versa, pertanto, non e' meramente ipotetico, ma reale e concreto e scaturisce dall'attività posta in essere, in relazione ad un caso specifico, da organi della autorità giudiziaria requirente e, rispettivamente, giudicante.

 

Infondata, inoltre, e' l'eccezione secondo la quale la legittimazione a proporre il conflitto spetterebbe non alla Camera dei deputati, bensì al suo Presidente. Vi é in primo luogo la difficoltà di ricostruire, sulla base delle norme costituzionali, una sfera di attribuzioni propria del Presidente di Assemblea parlamentare così ampia da comprendere la tutela dell'indipendenza della Camera di appartenenza. La Costituzione, infatti, gli attribuisce esplicitamente, oltre alla presidenza dell'Assemblea (art. 63, primo comma), il potere di convocazione straordinaria (art. 62, secondo comma), quello di essere ascoltato dal Presidente della Repubblica nell'ipotesi di scioglimento (art. 88, primo comma), e, quanto al Presidente della Camera, la convocazione e la presidenza del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo comma), quanto al Presidente del Senato, la supplenza del Capo dello Stato (art. 86, primo comma).

 

Ogni altro compito del Presidente di Assemblea e' rimesso alla disciplina dei regolamenti parlamentari. Poichè in questo caso il ricorso introduttivo del presente giudizio mira a tutelare la complessiva posizione di autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Camera dei deputati e non già una specifica attribuzione del suo Presidente, legittimata a proporre il conflitto e' la medesima Camera.

 

Deve essere del pari disattesa l'eccezione di inammissibilità che muove da una presunta divergenza tra la delibera con la quale la Camera ha deciso di proporre il conflitto, in cui risulta indicata solo la violazione dell'art. 64 della Costituzione, e il ricorso proposto dinanzi a questa Corte, nel quale si lamenta anche l'asserita violazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, concernente l'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai membri delle Camere. Va rilevato che la corrispondenza tra il contenuto del ricorso e quello della deliberazione propositiva deve essere valutata in relazione ai profili essenziali del conflitto, dovendosi riconoscere alla difesa tecnica piena autonomia nello svolgimento della tesi affermata dalla parte (sentenza n. 302 del 1995). Nella specie, la difesa della Camera si e' limitata, appunto, ad un apporto tecnico poichè ha argomentato la lesione della attribuzione e, in definitiva, della prerogativa dell'insindacabilità degli atti delle Camere, non solo dall'art. 64, ma anche dall'art. 68 della Costituzione, considerando entrambe le disposizioni concorrenti, insieme all'art. 72, a definire un ambito di attività parlamentare sottratto alla interferenza dell'autorità giudiziaria ordinaria.

 

Infondata e' infine l'ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso, svolta dalla difesa della Procura sul presupposto che, spettando alla Camera pretendere dall'autorità giudiziaria l'applicazione dell'immunità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione, la contraria affermazione contenuta nell'ordinanza 23 maggio 1996 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma avrebbe richiesto alla Camera stessa una pronuncia sul merito, anzichè una deliberazione di sollevare conflitto di attribuzione, essendo semmai rimessa all'autorità giudiziaria la facoltà di proporre ricorso avverso la deliberazione parlamentare. Va però osservato che il conflitto promosso dalla Camera dei deputati non fa leva esclusivamente sull'art. 68, primo comma, della Costituzione, che' anzi questa disposizione e' invocata per argomentare l'esistenza e la latitudine dell'autonomia garantita alle Camere. L'invasione della sfera di autonomia della Camera dei deputati e' dedotta dalla ricorrente sull'espresso rilievo che l'autorità giudiziaria, avendo affermato la sindacabilità del comportamento dei due ex deputati alla luce del solo art. 68, primo comma, abbia sottaciuto dell'art. 64 della Costituzione, che detta sfera di autonomia direttamente tutela. In questo caso, lo schema procedimentale delineato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 1150 del 1988, che postula il previo apprezzamento della Camera di appartenenza in ordine alla sindacabilità delle espressioni o dichiarazioni del parlamentare che si assumano eccedenti la sua funzione -- apprezzamento sul quale soltanto si esercita il controllo di questa Corte in sede di conflitto -- non può operare automaticamente, per le ragioni di cui tra breve si dirà.

 

4.-- Con il progressivo dissolversi della loro originaria giustificazione storica, che era di preservazione del ruolo della rappresentanza politica in un contesto nel quale anche l'amministrazione della giustizia era condizionata dal potere esecutivo, l'inquadramento delle immunità parlamentari nell'attuale sistema costituzionale ha assunto una oggettiva e sempre più evidente problematicità. Con lo statuto di indipendenza dal quale e' assistito l'ordine giudiziario, la questione della funzione di quelle immunità -- che la nostra Costituzione, come altre costituzioni dell'Occidente, perpetuando una delle più salde tradizioni del parlamentarismo, ha riconosciuto -- si e' venuta delineando in maniera in parte diversa. Il disegno costituzionale e' suscettibile di alimentare aspettative virtualmente antagonistiche, che si richiamano sia ai valori dell'indipendenza e terzietà del giudice, sia al valore della libertà politica del Parlamento. E' quindi comprensibile che il rapporto tra giudice e membri del Parlamento possa manifestarsi in termini di conflitto proprio con riguardo alla consistenza e ai limiti delle immunità parlamentari ovvero, simmetricamente, con riguardo ai limiti dell'attività giudiziaria nei confronti delle Camere.

 

In effetti, sul tema delle immunità parlamentari si registrano due opposte tendenze, che si rispecchiano in parte nel presente conflitto. Da un lato, una rilevante accentuazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge conduce a ritenere, in linea di principio, inammissibile la sottrazione dei membri del Parlamento alle regole del diritto comune e a postulare la sottoposizione alla giurisdizione di ogni loro comportamento.

 

In questa chiave, le disposizioni costituzionali dalle quali si e' storicamente argomentata l'esistenza di una sfera più o meno estesa di autonomia parlamentare -- intesa come area protetta dall'interferenza del potere giurisdizionale -- sono lette in senso fortemente restrittivo, così da renderle più rispondenti alle istanze di una moderna democrazia parlamentare che rifiuta posizioni di privilegio.

 

Sull'opposto versante, una configurazione della autonomia delle Assemblee rappresentative in termini di assolutezza vorrebbe sottratti a qualsiasi forma di sindacato esterno, in primo luogo al sindacato del giudice penale, tutti i comportamenti dei membri delle Camere dovunque tenuti e in qualunque modo collegati all'esercizio delle loro funzioni, ritenendosi tale prerogativa coessenziale alla sovranità del Parlamento.

 

Ne' l'una ne' l'altra visione trova rispondenza nei principii costituzionali che definiscono la posizione delle Camere nei confronti del potere giurisdizionale. Da tali principii risulta un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione (universalità della legge, legalità, rimozione di ogni privilegio, obbligatorietà dell'azione penale, diritto di difesa in giudizio, ecc.) e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà. Sono infatti coperti da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell'autonomia costituzionale delle Camere, nel senso di cui ora si dirà.

 

5.-- Il principio di eguaglianza non si spinge fino al punto di postulare l'attitudine della legge penale a penetrare in ogni ambito della vita parlamentare. Ad una visione onnipervasiva del diritto penale si oppone il principio della autonomia delle Camere e la correlativa garanzia della non interferenza della giurisdizione nell'attività delle istituzioni rappresentative. Lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari risulta infatti definito, e al tempo stesso delimitato quanto alla sua operatività, da un unitario e sistematico insieme di disposizioni costituzionali, fra le quali campeggiano gli artt.64 e 72. Essi riservano ai regolamenti parlamentari, votati a maggioranza assoluta da ciascuna Camera, l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione. In particolare, la formula di cui al primo comma dell'art. 64 della Costituzione -- come questa Corte ha già osservato -- non riguarda soltanto l'autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle norme regolamentari, include la scelta delle misure atte ad assicurarne l'osservanza e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare (sentenza n. 129 del 1981).

 

E', in ultima analisi, l'autonomia delle funzioni delle Camere il bene protetto, come dimostra del resto il regime dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari (art.68, primo comma, della Costituzione). Nella giurisprudenza della Corte questa sfera di libertà non si atteggia come privilegio di un ceto politico, ne' solo come garanzia individuale dei membri delle Camere, ma anche come tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari, orientata a sua volta alla protezione di un'area di libertà della rappresentanza politica. Non a caso la difesa di questa prerogativa parlamentare non e' rimessa al solo interessato, ma appartiene alle Camere come attribuzione propria (sentenza n. 1150 del 1988).

 

6.-- In base agli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione si può dunque affermare l'esistenza di una sfera di autonomia garantita alle Camere; si tratta ora di definirne i contorni e di tracciare la linea di confine tra i comportamenti dei membri delle Camere posti sotto il presidio di tale garanzia e quelli che non possono sfuggire al diritto comune.

 

E' in primo luogo dalla considerazione del regime costituzionale dei beni coinvolti nelle singole fattispecie che deve essere desunta e identificata la linea di confine. Quando tali comportamenti ledano beni di cui siano portatori singoli parlamentari, soccorre la distinzione tra diritti che agli stessi parlamentari spettano come persone e diritti che appartengono loro quali membri delle Camere e sono perciò immediatamente connessi al loro specifico status; di questo costituendo anzi la puntualizzazione in termini di posizioni soggettive. I primi possiedono lo statuto costituzionale proprio dei diritti, dal quale traggono una naturale vocazione giurisdizionale (art. 24 della Costituzione), che non può essere sacrificata alla autonomia delle Camere, poichè e' certo che questa non comporta l'alienazione totale di ciascuna persona, con tutti i propri diritti, alla comunità parlamentare della quale fa parte. Sono pertanto da ritenere del tutto estranei al peculiare regime di insindacabilità degli atti o dei comportamenti "interni" le attività poste in essere in violazione dei diritti della persona, le quali conservano integro il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici.

 

I diritti la cui titolarità ed il cui esercizio abbiano come presupposto lo status di parlamentare e ne connotino la funzione possiedono, invece, uno statuto fondato sulla Costituzione e plasmato dal principio di autonomia delle Camere. E' in relazione a tali diritti che la non interferenza dell'autorità giudiziaria civile o penale si afferma con la massima cogenza, in quanto essa e' finalizzata al soddisfacimento del bene protetto dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione: la garanzia del libero agire del Parlamento nell'ambito suo proprio e l'esclusiva competenza di ciascuna Camera a prevedere ed attuare i rimedi contro gli atti ed i comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori. Tra questi comportamenti, aventi una natura squisitamente funzionale, e' certamente da includersi l'esercizio del voto in Parlamento, alla pari -- del resto -- con l'esercizio di ogni altra funzione derivante dalla disciplina dei procedimenti parlamentari o dalle norme di organizzazione che ciascuna Camera si sia data autonomamente.

 

Quando i comportamenti dei membri delle Camere trovino nel diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che si sottragga alla capacità qualificatoria del regolamento, non possono venire in considerazione qualificazioni legislative diverse, interferenti o concorrenti, anche se da queste possa risultare il rafforzamento di un giudizio di disvalore già desumibile dalla stessa disciplina regolamentare; non può pertanto essere ammesso, in simili casi, un sindacato esterno da parte dell'autorità giudiziaria. Proprio in ciò consiste, infatti, la riserva normativa -- che include il momento applicativo -- posta dagli artt. 64 e 72 della Costituzione a favore di ciascuna Camera. Si può anzi dire che l'essenza della garanzia contro l'interferenza di altri poteri che la Costituzione riconosce alle Camere e' data proprio dalla esclusività della capacità qualificatoria che il regolamento parlamentare possiede allorchè la disciplina da esso posta sia circoscritta all'organizzazione interna di ciascuna Camera, ai procedimenti parlamentari e allo svolgimento dei lavori.

 

7.-- Nel sistema costituzionale, in conclusione, si delinea in maniera immediata e certa -- salve le ipotesi di cui si dirà -- il confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalità. Allorchè il comportamento di un componente di una Camera sia sussumibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi, quali che siano le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento generale quello stesso comportamento riceva (illegittimità, illiceità, ecc.), sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori.

 

Se viceversa un qualche aspetto di tale comportamento esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perchè coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione).

 

Il confine tra i due distinti valori (autonomia della Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall'altro) e' posto sotto la tutela di questa Corte, che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro.

 

I soli casi in cui l'identificazione della linea di confine e' più problematica sono quelli nei quali alcuni beni morali della persona, che e' la Costituzione stessa a qualificare inviolabili (onore, reputazione, pari dignità), vengono a collidere con l'insindacabilità dell'opinione espressa dal parlamentare, che e' momento insopprimibile (e, ben può dirsi, anch'esso inviolabile), della libertà della funzione.

 

La fisiologica interferenza tra due situazioni di libertà genera in tal caso un conflitto tra valori dotati entrambi di cogenza costituzionale, in relazione al quale questa Corte ha già delineato il modello procedimentale di composizione che si e' poc'anzi ricordato (sentenze n. 129 del 1996 e n. 1150 del 1988).

 

8.-- Nel caso sottoposto all'esame di questa Corte i comportamenti dei membri della Camera che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale ritengono penalmente rilevanti e sottoponibili all'attività di indagine e di accertamento della autorità giudiziaria ordinaria sono tutti esaustivamente qualificabili alla luce del diritto parlamentare, e si sottraggono pertanto ad ogni rimedio diverso dai mezzi di tutela del corretto svolgimento dei lavori previsti dal regolamento parlamentare.

 

I reati di falso ideologico e di sostituzione di persona (artt. 479 e 494 del codice penale), per i quali l'autorità giudiziaria sta procedendo, riguardano beni la cui esigenza di tutela non trascende l'esclusiva competenza della Camera a deliberare ed applicare il regolamento parlamentare, a pretenderne la puntuale osservanza da parte di tutti i suoi membri e ad irrogare le sanzioni interne per l'ipotesi di inosservanza. I fatti sottostanti al reato di falso ideologico, dai quali muove l'ipotesi accusatoria, consisterebbero nell'aver fatto risultare presenti e votanti parlamentari assenti. I beni lesi in questa ipotesi riguardano le modalità del procedimento di votazione, la regolarità della seduta, la correttezza del computo dei parlamentari presenti, la regolarità dei verbali, i poteri presidenziali di accertamento del voto e di proclamazione dei risultati (artt. da 46 a 62 del regolamento della Camera; artt. da 66 a 72 e da 107 a 120 del regolamento del Senato).

 

Quanto poi alla tutela del bene della fede pubblica sottostante alla norma incriminatrice, la lesione del quale l'autorità giudiziaria intenderebbe accertare al fine della applicazione di una sanzione penale, essa e', in questo caso, interamente assorbita dalla valutazione circa il corretto svolgimento dei lavori parlamentari, che solo la Camera e' competente a compiere.

 

Considerazioni analoghe valgono per l'ipotesi del reato di sostituzione di persona, che, nella prospettazione della difesa della Procura della Repubblica resistente, proteggerebbe, nella specie, il deputato sostituito contro l'usurpazione, da parte di altri componenti della Camera, del suo diritto di voto. Si tratta invero di un diritto del quale i parlamentari non sono titolari come singole persone, ma come componenti del Parlamento. E' da escludersi che la tutela di tale diritto spetti all'autorità giudiziaria: la garanzia che il voto sia esercitato personalmente deve essere apprestata dai regolamenti parlamentari, l'applicazione dei quali e' insindacabilmente riservata alle Camere.

 

E' vero che, in simili casi, possono venire in considerazione beni costituzionali fondamentali per la democrazia, in relazione ai quali una troppo rigida accezione dell'autonomia parlamentare potrebbe essere ritenuta inappagante. Vi sono del resto ordinamenti, che appartengono ad esperienze costituzionali non discoste dalla nostra, nei quali lo statuto costituzionale dei parlamentari e' tutelabile innanzi agli organi di giustizia costituzionale. Una simile prospettiva non si e' ancora concretizzata nella esperienza del nostro ordinamento, anche se la giurisprudenza di questa Corte si e' mostrata da sempre sensibile alle vicende che comportino la compressione di diritti politici.

 

L'insuscettibilità del diritto di voto in Parlamento e, più in generale, dei diritti connessi allo status di parlamentare di esser sottoposti alla tutela della autorità giudiziaria ordinaria, civile o penale, e' in ogni caso momento essenziale dell'equilibrio tra i poteri dello Stato voluto dalla Costituzione.

 

Non e', in conclusione, rinvenibile, nei fatti per i quali l'autorità giudiziaria sta procedendo, alcun elemento o frammento della concreta fattispecie che coinvolga beni o diritti che si sottraggano all'esaustiva capacità classificatoria del regolamento parlamentare (come invece accadrebbe, ad esempio, in presenza di episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, corruzione, ecc.), sicchè l'attività posta in essere dai membri delle Camere in questione non può formare oggetto di attività inquisitiva del pubblico ministero, ne' di accertamento da parte del giudice.

 

9.-- La soluzione del presente conflitto e' dunque favorevole alla Camera dei deputati alla luce del principio di legalità costituzionale al quale devono conformarsi i rapporti tra poteri e, nella specie, tra autorità giudiziaria e Parlamento. Tuttavia questa Corte non può esimersi dall'osservare che, nello Stato costituzionale nel quale viviamo, la congruità delle procedure di controllo, l'adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli istituti della autonomia che presidiano la sua libertà.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara che non spetta al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ne' al Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale procedere nei confronti degli ex deputati Bonafini Flavio e Tagini Paolo per i reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), in relazione alla attività posta in essere dalle suddette persone, in qualità di deputati, nel corso della votazione svoltasi nella seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995;

 

annulla, conseguentemente, l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma del 23 maggio 1996, nonchè la richiesta della Procura della Repubblica presso lo stesso Tribunale del 3 maggio 1996, accolta con la suddetta ordinanza.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/10/96.

 

Mauro FERRI, Presidente

 

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 02/11/96.