Sentenza n. 250 del 1991

 

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SENTENZA N. 250

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), promosso con ordinanza emessa il 23 ottobre 1990 dal Tribunale per i minorenni di Bologna nel procedimento penale a carico di Galassi Massimo ed altro, iscritta al n. 8 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 20 marzo 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso del giudizio conseguente ad opposizione proposta dal pubblico ministero avverso sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto emessa dal giudice per l'udienza preliminare nei confronti di Galassi Massimo ed altro, il Tribunale per i minorenni di Bologna ha sollevato, con ordinanza del 23 ottobre 1990, questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni (testo approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448), in riferimento agli artt. 76, 112 e 3 della Costituzione.

Osserva il giudice remittente che il proscioglimento per irrilevanza del fatto - previsto dalla norma impugnata -, sebbene nominalmente profilato come formula di carattere processuale, ha chiaro contenuto sostanziale, in quanto implica un giudizio sull'evento ("tenuità del fatto") e sulla condotta ("occasionalità del comportamento"). Si tratta, cioè, di una fattispecie di non punibilità del fatto introdotta al fine di perseguire per via giudiziaria una decriminalizzazione dei minori ricorrendo anche a elementi desumibili da un giudizio di opportunità in concreto ("quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative"): si richiede, pertanto, un'attività di cognizione e una valutazione discretiva.

Ciò comporta, innanzitutto, ad avviso del remittente, la violazione dell'art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega, poiché i poteri conferiti al legislatore delegato di adeguare i principi fissati nel nuovo processo penale alle esigenze evolutive dei minori, al fine di dettare le nuove disposizioni sul processo penale nei loro confronti (art. 3 della legge-delega), ineriscono alla materia processuale e non a quella sostanziale, implicante scelte di politica criminale.

In secondo luogo, la formula di proscioglimento di cui all'art. 27 conferisce al pubblico ministero un potere dispositivo sull'azione penale, con violazione dell'art. 112 della Costituzione; e il fatto che il legislatore abbia optato, dopo un ripensamento, per una "sentenza", anziché per una "archiviazione", non elimina questo aspetto della questione. Nel sistema del nuovo processo penale, l'esercizio dell'azione penale non è più una richiesta di decisione fatta dal pubblico ministero al giudice, ma una richiesta di punizione, la cui alternativa è la richiesta di archiviazione: nella specie, sia l'iter processuale, sia i poteri riservati al giudice nella norma impugnata presentano significativa analogia con quelli previsti nell'istituto dell'archiviazione.In definitiva, anche in questo caso il pubblico ministero decide di non richiedere la punizione, ma lo fa non già in forza di considerazioni attinenti alla prova della responsabilità penale, bensì all'opportunità della persecuzione penale.

Inoltre, prosegue il giudice a quo, l'aver introdotto la categoria della "irrilevanza del fatto", ancorata a valutazioni oggettive assolutamente generiche, oltre che a stime prognostiche di ordine psicopedagogico, e averla finalizzata al proscioglimento (e non alla sola determinazione del trattamento conseguente al reato), sembra sacrificare il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, della Costituzione) ad un favor minoris privo di garanzie di paritaria applicazione, in quanto realizzato rinviando a criteri tanto suscettibili di disomogenea adozione da approssimarsi al "diritto libero".

In ordine, infine, alla rilevanza della questione, il giudice remittente rileva che dalla sua definizione può dipendere direttamente il tenore della pronuncia.

2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

In ordine al denunciato eccesso di delega, l'Avvocatura dello Stato osserva che i criteri direttivi di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 81 del 1987 involgono molteplici aspetti di natura sostanziale, connessi con le esigenze del nuovo processo, anche a scopo meramente deflattivo. Tale finalità deflattiva assume nel processo minorile specifiche connotazioni, fondendosi con quella di limitare i possibili effetti dannosi del processo sulla personalità in fieri del minorenne. In conclusione, la norma denunciata non può ritenersi estranea alla materia delegata sol perché presenta un profilo di diritto sostanziale, specie se si tiene conto dell'ampia delega contenuta nel preambolo dell'art. 3 della citata legge n. 81/87.

Quanto alla presunta violazione dell'art. 112 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che la richiesta del pubblico ministero non elude il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, essendo comunque rivolta a provocare una pronuncia giurisdizionale sul fatto-reato.

In merito, infine, alla denunciata violazione del principio di eguaglianza, l'interveniente rileva che essa non sussiste, né con riferimento al diverso trattamento riservato in casi analoghi agli adulti - per le evidenti esigenze di tutela dei minori che fanno del processo a loro carico un sistema del tutto peculiare -, né con riferimento agli stessi minori, in relazione all'ampia discrezionalità attribuita al giudice nella valutazione dei presupposti applicativi della norma de qua, in quanto eventuali diseguaglianze non discendono dalla norma, bensì conseguono fisiologicamente all'esercizio del potere discrezionale del giudice.

 

Considerato in diritto

 

1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale per i minorenni di Bologna investe l'art. 27 del testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni approvato con d.P.R 22 settembre 1988, n. 448. Tale norma prevede che il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, possa pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne, se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento. Il giudice remittente ha fatto riferimento all'art. 76 della Costituzione, ritenendo che possa esser stata "ecceduta la sfera di delegazione legislativa", all'art. 112 perché sarebbe stato conferito al pubblico ministero un potere dispositivo sull'azione penale legato a considerazioni di "opportunità della persecuzione penale" e all'art. 3 in quanto verrebbe sacrificato "il principio di uguaglianza a un favor minoris privo di garanzie di paritaria applicazione".

2. - Con la norma censurata, - come è stato messo in luce dalla dottrina e dalla giurisprudenza dei giudici di merito -, è stato introdotto nel sistema penale minorile un nuovo istituto: non si procederà contro l'imputato minorenne "per irrilevanza del fatto" quando si verifichino due condizioni, una oggettiva, vale a dire che il fatto sia tenue ed il comportamento occasionale, l'altra soggettiva e cioè che l'ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne.

Il testo dell'art. 27 delle disposizioni approvate col citato d.P.R. n. 448 del 1988 presenta notevoli differenze rispetto alla redazione del progetto preliminare. Quest'ultimo aveva previsto, all'art. 23, la pronuncia di un decreto di archiviazione del giudice su richiesta del pubblico ministero, quando "per la tenuità del fatto e per l'occasionalità del comportamento, l'ulteriore corso del procedimento non risponde alle esigenze educative del minorenne e a quelle di tutela della collettività".

La relazione al progetto preliminare sottolineava in proposito: "Il meccanismo processuale prescelto non incide sulla fattispecie sostanziale del reato, (cioè sui suoi elementi costitutivi o sulle condizioni di punibilità), e quindi non esclude il promovimento dell'azione penale, ma si limita a consentire l'anticipata conclusione del processo con una pronuncia fondata sulla valutazione comparativa degli effetti positivi e negativi dello svolgimento del normale iter processuale, in considerazione delle concrete caratteristiche del fatto e della personalità del minore imputato".

Nel testo definitivo, divenuto art. 27, la pronuncia ha luogo con sentenza, e la condizione "quando l'ulteriore corso del procedimento non risponde alle esigenze educative del minorenne e a quelle di tutela della collettività" è divenuta "(quando) pregiudica le esigenze educative del minorenne", essendo stato eliminato il riferimento alla "tutela della collettività". La relazione chiarisce che è stato accolto il suggerimento della Commissione parlamentare, prevedendosi la sentenza anziché il decreto di archiviazione, "tenuto conto delle perplessità da alcune parti manifestate circa la compatibilità dell'archiviazione con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale sancito dall'art. 112 della Costituzione".

È appena il caso di aggiungere che, in forza dell'art. 32 del testo delle disposizioni approvate col d.P.R. n. 448 del 1988 - ora modificato dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 - e dell'art. 26 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272, la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto può essere pronunciata o dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del pubbblico ministero se "fin dalle prime indagini risulta che sussistono le condizioni previste dall'art. 27", o dal giudice dell'udienza preliminare (nella composizione collegiale prevista dall'art. 50-bis, secondo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, introdotto dall'art. 14 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449).

3. - Così sommariamente richiamato l'iter legislativo della norma, risultano del tutto evidenti le caratteristiche del nuovo istituto: si tratta in sostanza di una sorta di depenalizzazione che, sul presupposto della tenuità del fatto e dell'occasionalità del comportamento, è condizionata alla verifica, da valutarsi necessariamente in rapporto al singolo soggetto, del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento rechi alle esigenze educative del minore. Quest'ultimo aspetto è stato posto in particolare evidenza dalla dottrina, che ha identificato la ratio della norma nella estromissione immediata, o quanto meno la più possibile sollecita, dal circuito penale di condotte devianti, le quali siano prive di allarme sociale per la loro tenuità ed occasionalità ed appaiano destinate a rimanere nella vita del minore un fatto episodico e ad essere autonomamente riassorbite. In simili casi le dottrine criminologiche e psicologiche ritengono il contatto del minore con la giustizia non soltanto privo di ogni utilità sociale, ma anzi foriero di possibili danni, di guisa che sarebbe preferibile, evitando ogni forma di intervento, che il sistema della giustizia penale rimanga assolutamente inerte.

La medesima dottrina ha rilevato come questi principi e finalità, che troverebbero fondamento in dichiarazioni e raccomandazioni internazionali (Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile, o "regole di Pechino", approvate nel 1985 dall'Assemblea delle Nazioni Unite, e Raccomandazione sulle "reazioni sociali alla delinquenza minorile" approvata nel 1987 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa), siano stati solo in parte applicati nella norma in esame. Infatti l'intento di estromettere rapidamente il minore dal circuito processuale è sostanzialmente vanificato, una volta che la improcedibilità per irrilevanza del fatto deve essere pronunciata, anziché con decreto di archiviazione, con sentenza - soggetta ovviamente ad impugnazione - previa audizione del minore, dell'esercente la potestà dei genitori e della parte offesa.

Sulla base degli elementi sopra richiamati sui quali la dottrina è concorde, - del resto essi si ricavano senza alcuna incertezza dalla lettura testuale della norma, a partire dal progetto preliminare fino alla formulazione definitiva, - emergono chiaramente due essenziali connotazioni. La prima è che l'istituto della "irrilevanza del fatto" è assolutamente nuovo nel nostro sistema penale; la seconda è che esso, pur presentando, - e non potrebbe essere altrimenti -, implicazioni di carattere processuale, attiene al diritto sostanziale, in quanto viene a dar vita ad una causa di non punibilità, mai fino ad ora prevista né in linea generale, né limitatamente agli imputati minorenni.

4. - In ordine logico la questione va in primo luogo esaminata sotto il profilo della prospettata violazione dell'art. 76 della Costituzione. In riferimento a tale parametro la questione è fondata.

Il giudice a quo dubita in sostanza che il Governo abbia ecceduto la sfera di delegazione conferitagli emanando una norma che non attiene alla materia processuale bensì a quella sostanziale. Inoltre - sempre secondo il Tribunale remittente - la legge di delegazione non conteneva "determinazione di principi e criteri direttivi esprimenti scelte di politica criminale".

Prendendo in esame l'oggetto della delega, la cui definizione, secondo il dettato dell'art. 76 della Costituzione, è indicata come un limite necessario per la delegazione al Governo della funzione legislativa, si rileva dalla lettura della legge 16 febbraio 1987 n. 81 che il Governo è stato delegato con l'art. 1 "ad emanare il nuovo codice di procedura penale", e con l'art. 3, che qui più direttamente interessa, "a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato". È chiaro quindi che dalla definizione dell'oggetto la delega contenuta nella citata legge n. 81 è limitata alla riforma del processo penale, sia nella sua disciplina generale, sia nelle norme particolari che regolano specificamente il processo minorile. A tale constatazione l'Avvocatura dello Stato ha opposto che nel sistema penale la distinzione fra norme e istituti di natura sostanziale e norme e istituti di natura processuale non è così rigida, e che nei principi direttivi enunciati nell'art. 2 e nell'art. 3 della citata legge di delegazione sussistono previsioni di natura sostanziale: di conseguenza, il fatto che la norma emanata dal legislatore delegato abbia una prevalente valenza di diritto sostanziale non autorizzerebbe a ritenere che siano stati travalicati i limiti della delega così da integrare una violazione dell'art. 76 della Costituzione.

Siffatte argomentazioni sono da ritenersi valide quando, a prescindere dalla definizione dell'oggetto della delega, la norma adottata dal legislatore delegato sia sorretta da una esplicita previsione enunciata nei principi direttivi, o trovi quanto meno in essi una indicazione cui la norma stessa possa riferirsi, così da esserne considerata il coerente sviluppo e la concreta applicazione. E ciò è tanto più vero, in quanto il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose, e può bene con la espressa enunciazione di un determinato principio direttivo estendere la delega ad una normativa che altrimenti non sarebbe di per sé compresa nella definizione dell'oggetto.

5. - Orbene la norma in esame, che, come si è visto, ha posto in essere una nuova causa di non punibilità dell'imputato minorenne, non trova di per sé collocazione all'interno dell'oggetto della legge-delega in ragione della sua preminente natura di diritto sostanziale.

Tuttavia, come si è detto sopra, il vizio di eccesso di delega per esorbitanza dall'oggetto non sussisterebbe ove la norma delegata trovasse il suo supporto nei principi direttivi. Che vi sia questo supporto è stato affermato in dottrina ed è pure quanto sostiene nel suo atto di intervento l'Avvocatura generale dello Stato. Occorre dunque procedere ad una attenta disamina dei principi stessi, a partire da quelli contenuti nell'art. 3 che si riferisce alla disciplina del processo a carico di imputati minorenni. In tale articolo è enunciata, dalla lettera a) alla lettera p), una serie di criteri formulati in modo dettagliato: fra questi non si trova alcuna previsione di una nuova causa di non punibilità, né alcun elemento indicativo da cui tale istituto possa trovare derivazione. Vi è poi un ulteriore rilievo: alla lettera l) la delega prevede espressamente che "il giudice nell'udienza preliminare possa prosciogliere anche per la non imputabilità, ai sensi dell'articolo 98 del codice penale, e per la concessione del perdono giudiziale". Ove perciò il legislatore avesse voluto, sconfinando per così dire dall'oggetto, prevedere una ipotesi quale quella della non punibilità per irrilevanza del fatto, avrebbe dovuto in questa sede inserire una specifica indicazione; poiché non ve n'è traccia, si deve dedurne che la norma emanata dal legislatore delegato fuoriesce dai limiti della delega, a meno che non si trovi in altra parte della legge un principio cui ancorarla.

6. - In tal senso si sostiene che il legislatore delegato avrebbe correttamente usato dei suoi poteri fondando la previsione del nuovo istituto sulla prima parte dell'art. 3 della legge di delegazione, la quale enuncia, prima dei criteri contenuti sotto le lettere dall' a) alla p), il principio direttivo, per così dire generale, in base al quale il processo minorile deve essere disciplinato "secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione". Ora, è agevole osservare che il principio anzidetto si riduce alla enunciazione sintetica delle ragioni stesse che giustificano la peculiarità del processo penale a carico di imputati minorenni, e la conseguente esigenza di una normativa speciale.

Tale processo deve comunque essere ancorato al nuovo processo penale cui possono essere apportate le opportune modificazioni ed integrazioni; vale a dire che la normativa regolatrice del processo minorile, per rimanere nell'ambito della delega, va sempre collegata alle norme del nuovo processo penale. Del nuovo istituto della non punibilità dell'imputato per irrilevanza del fatto non è dato rinvenire alcuna traccia nei principi e criteri del nuovo processo penale, enunciati del resto quasi sempre in forma dettagliata dal numero 1 al 105 dell'art. 2. Quanto alla prima parte del citato art. 2, essa menziona soltanto "i principi della Costituzione" e le "norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale", nonché "i caratteri del sistema accusatorio" da attuarsi secondo i principi ed i criteri successivamente specificati.

Le regole minime delle Nazioni Unite per l'amministrazione della giustizia minorile (le cosiddette regole di Pechino) e la raccomandazione n. 20/87 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa - cui la dottrina si richiama - non rientrano certamente nel novero delle convenzioni internazionali ratificate; né peraltro di esse o di atti internazionali in genere concernenti i minori vi è cenno nell'art. 3 della legge-delega. Sarebbe quindi inutile verificare se poi in effetti la norma in esame possa trovare in tali documenti un adeguato supporto.

7. - Si deve perciò necessariamente concludere per la sussistenza del vizio di eccesso di delega prospettato dal Tribunale remittente.

Siffatta conclusione è in armonia con la giurisprudenza di questa Corte, ed in particolare con le recenti sentenze che hanno avuto per oggetto questioni di eccesso di delega relative a norme del nuovo codice di procedura penale e del nuovo processo minorile. In tale materia - che incide su diritti fondamentali della persona - le scelte del legislatore delegato sono state ritenute costituzionalmente illegittime ogni qual volta si sono poste in contrasto con i principi direttivi della legge delega - enunciati come si è detto in forma di criteri che il più delle volte sono vere e proprie norme di dettaglio -, o comunque al di fuori da ogni previsione in essi contenuta (v. sentt. nn. 435, 496 e 529 del 1990, 68 e 176 del 1991). Per quanto attiene invece al processo minorile, la sent. n. 182 del 1991 ha escluso l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega dell'art. 37, secondo comma, del testo approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in materia di applicazione di misure di sicurezza, in quanto il legislatore aveva adottato la norma impugnata applicando i criteri enunciati in via generale per il processo minorile dall'art. 3 prima parte, e in particolare dalla lett. e) dello stesso articolo, ancorandola alla direttiva n. 96 dell'art. 2 della legge di delegazione. Ma, come si è visto sopra, non è dato rinvenire un supporto analogo per l'istituto della non punibilità per irrilevanza del fatto, istituto che costituisce oltre tutto - vale la pena di ricordarlo - un'assoluta novità nel nostro sistema penale, sia dal punto di vista sostanziale che da quello processuale.

8. - Va quindi dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 27 del testo delle disposizioni sul processo minorile approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, restando assorbiti gli altri parametri costituzionali invocati dal Tribunale remittente. Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 devono di conseguenza subire la medesima sorte l'art. 32, primo comma, del testo citato, come modificato dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, limitatamente alle parole "o per irrilevanza del fatto a norma dell'art. 27", nonché gli artt. 26 e 30, primo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del detto d.P.R. n. 448 del 1988, approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 27 del testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448;

Visto l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87;

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32, primo comma, del medesimo testo approvato col d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, come modificato dall'art. 46 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, limitatamente alle parole "o per irrilevanza del fatto a norma dell'art. 27";

Dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 30, primo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 6 giugno 1991.