Sentenza n. 68 del 1991

 

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SENTENZA N. 68

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO                                              Presidente

Prof. Ettore GALLO                                                   Giudice

Dott. Aldo CORASANITI                                              “

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), promossi con n. 5 ordinanze emesse da varie autorità giurisdizionali, iscritte ai nn. 253, 418, 419, 463 e 558 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 20, 27, 33 e 38, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice relatore Giovanni Conso;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Zanoni Marco per il reato di "detenzione illecita di arma comune da sparo", il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento promuoveva giudizio direttissimo, ma, a séguito di richiesta di giudizio abbreviato da parte dell'imputato, richiedeva al Giudice per le indagini preliminari l'udienza preliminare, prestando il proprio consenso all'abbreviazione del rito. Durante tale udienza "veniva sollevato il problema della competenza a conoscere del procedimento", in quanto, essendo imposta dall'art. 233 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) l'adozione del giudizio direttissimo "per i reati concernenti le armi e gli esplosivi", la cognizione del processo a quo sarebbe spettata non al Giudice per le indagini preliminari, bensì al Tribunale, in base agli artt. 451 e 452 del codice di procedura penale.

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trento, ritenendosi erroneamente investito del rito, ma, al tempo stesso, rivendicando la propria competenza a decidere, ha, con ordinanza del 21 febbraio 1990 (n. 253 del 1990), sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), "e cioè della norma che impone nella fattispecie di reato per cui si procede il rito direttissimo".

Il principio di eguaglianza risulterebbe vulnerato dalla norma censurata perché verrebbe del tutto ingiustificatamente omessa la fase dell'udienza preliminare.

Si avrebbe, poi, violazione del diritto di difesa, non soltanto "per l'assenza del filtro dell'udienza preliminare", ma anche per la soppressione di alcuni epiloghi propri di tale udienza, quali la conclusione del processo in camera di consiglio, "con conseguente riservatezza del procedimento stesso".

Sarebbe, inoltre, violato l'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, ove il legislatore delegante "ha chiarito entro quali limiti fosse ammissibile il sacrificio al principio di eguaglianza e del diritto di difesa, che si realizza con la instaurazione del rito direttissimo". Una violazione rilevante anche in sede di coordinamento normativo, non censurandosi una mera violazione formale della difesa, "ma la lesione del diritto di eguaglianza e di difesa per il tramite della violazione della delega".

Risulterebbe, infine, vulnerato l'art. 97 della Costituzione, in quanto il rito direttissimo "anomalo", instaurandosi rispetto a procedimenti non caratterizzati dall'evidenza probatoria che è alla base del giudizio direttissimo previsto dagli artt. 449 e seguenti del codice di procedura penale, determina "rilevanti problemi nella organizzazione dei dibattimenti penali, secondo una linea contrastante con la legge-delega e, quindi, ancora, con l'art. 76 della Costituzione".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 20, prima serie speciale, del 1990.

È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura richiama la sentenza n. 172 del 1972, che ha riconosciuto legittimo il giudizio direttissimo per i reati di stampa, rispetto ai quali, inoltre, "la specialità del rito viene... a coniugarsi a fin troppo intuibili opzioni di politica criminale".

La sentenza n. 172 del 1972 escluderebbe pure la violazione del diritto di difesa. D'altro canto, l'udienza preliminare non rappresenterebbe una fase imposta costituzionalmente, come è dimostrato dall'assoluta mancanza di essa nel procedimento davanti al pretore.

Parimenti insussistente sarebbe la violazione dell'art. 76 con riferimento all'art. 2, n. 43, della delega. Infatti, la legge 16 febbraio 1987, n. 81, nel conferire al Governo il potere di emanare norme di coordinamento del nuovo codice (art. 6), non avrebbe "imposto al delegato vincoli specifici, quali l'osservanza dei principi e dei criteri direttivi stabiliti dall'art. 2 della medesima legge per l'emanazione del nuovo codice di rito", ma avrebbe rimesso "allo stesso legislatore delegato di apprezzare se ed in quale misura istituti previsti da leggi speciali richiedessero un intervento di raccordo con il rinnovato impianto codicistico", impedendo in tal modo la formazione di lacune nel complessivo assetto del sistema. Una funzione, questa, connaturata all'esigenza avvertita dal legislatore delegante di prescrivere l'emanazione di norme di coordinamento, ad evitare, altrimenti, la caducazione di tutti gli istituti e di tutte le disposizioni incompatibili con la disciplina codicistica.

"Palesemente irrilevante, prima che infondata" sarebbe, infine, la dedotta violazione dell'art. 97 della Costituzione, non interferendo in alcun modo la norma denunciata con i principi che la Costituzione detta in tema di organizzazione dei pubblici uffici.

2. - Un'analoga questione è stata sollevata dal Tribunale di Varese, con ordinanza del 19 luglio 1990 (n. 558 del 1990), emessa nel processo penale a carico di Gatti Fabrizio, denunciando, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), che, nell'imporre il giudizio direttissimo, "anche fuori dei casi previsti dagli artt. 449 e 556" del codice di procedura penale, "per i reati concernenti le armi e gli esplosivi", contrasterebbe con la direttiva di cui all'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio 1987, n. 81.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 38, prima serie speciale, del 1990.

È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

3. - Il Tribunale di Lecce, con due ordinanze aventi identico contenuto, emesse entrambe il 10 aprile 1990, nel corso di due diversi procedimenti penali, a carico di Luciano Tarricone (n. 418 del 1990) e di Gerardo Mario Filippo (n. 419 del 1990), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 24, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), "limitatamente alla parole 'e per i reati commessi con il mezzo della stampa'".

In primo luogo, "la diversità di trattamento dei reati commessi col mezzo della stampa rispetto agli altri" risulterebbe "priva di razionale giustificazione", costituendo "un mero residuo della concezione del rito direttissimo propria del vecchio sistema processuale, nel quale il legislatore" era motivato non "da finalità garantistico-accusatorie, ma dal desiderio di stimolare una repressione 'fulminea e spettacolarmente esemplare'": da ciò la conclusione che, sotto tale profilo, la norma denunciata "appare in contrasto coi principi di uguaglianza e di libertà di stampa".

Inoltre, poiché "la fase processuale anteriore al dibattimento" adempirebbe "una funzione di tutela dei diritti dell'indagato e dell'efficienza dell'amministrazione giudiziaria", sarebbero violati, in combinato disposto, gli artt. 24 e 97 della Costituzione, consentendosi, proprio attraverso l'udienza preliminare, "di accertare i casi più evidenti di innocenza dell'indagato, evitando allo stesso la sofferenza del giudizio, alla società il suo costo, economico e di credibilità".

Non sarebbe, infine, rispettato l'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, con conseguente violazione dell'art. 76 della Costituzione, perché, in base alla detta direttiva, al pubblico ministero avrebbe dovuto, comunque, competere un potere di scelta del rito.

Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state entrambe pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 27, prima serie speciale, del 1990.

È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, riportandosi integralmente a quanto dedotto in relazione all'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trento.

4. - Il Tribunale di Trento, con ordinanza emessa il 23 marzo 1990 (n. 463 del 1990) nel processo penale a carico di Vivarelli Roberto ed altro, imputati del reato di diffamazione a mezzo della stampa, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), il quale "prevede...che in deroga ai principi generali del codice si procederà (o si continuerà a procedere, dato che questa era anche la normativa speciale previgente) con il rito direttissimo nell'ipotesi di reati commessi col mezzo della stampa ovvero concernenti le armi e gli esplosivi". Così da determinare una ingiustificata disparità di trattamento di questi rispetto ad altri reati e violazione del diritto di difesa, "non solo per l'assenza del filtro dell'udienza preliminare, ma anche per la eliminazione di tutta una serie di possibilità che la stessa udienza offre", nonché dell'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, e del principio del buon andamento dell'amministrazione della giustizia, atteso che "la introduzione dei procedimenti con rito direttissimo 'anomalo' porterà rilevanti problemi nell'organizzazione dei dibattimenti penali".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 33, prima serie speciale, del 1990.

Anche in tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per la dichiarazione di non fondatezza della questione.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le cinque ordinanze in epigrafe sottopongono al vaglio di questa Corte, con vario riferimento agli artt. 3, 21, 24, 76 e 97 della Costituzione, l'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), in forza del quale "il pubblico ministero procede" - cioè, deve procedere - "al giudizio direttissimo, anche fuori dei casi previsti dagli articoli 449 e 556 del codice, per i reati concernenti le armi e gli esplosivi e per i reati commessi con il mezzo della stampa".

Anche se, a tener conto della rilevanza delle questioni rispettivamente sollevate, due ordinanze (la n. 253 del 1990 e la n. 463 del 1990) vengono in effetti a coinvolgere il comma denunciato nella parte in cui il giudizio direttissimo obbligatorio ha per oggetto "i reati concernenti le armi e gli esplosivi", mentre le altre tre (la n. 418 del 1990, la n. 419 del 1990 e la n. 558 del 1990) vengono in effetti a coinvolgerlo nella parte in cui il giudizio direttissimo obbligatorio ha per oggetto "i reati commessi con il mezzo della stampa", la sostanziale coincidenza delle argomentazioni addotte, evidenziata pure dalla pressoché totale comunanza dei parametri invocati (solo l'art. 21 della Costituzione si ritrova esclusivamente, per ragioni di specifica materia, nelle prime due ordinanze del secondo gruppo), conduce alla riunione dei relativi giudizi di legittimità, al fine di deciderli con un'unica sentenza.

2. - Inquadrato nel tessuto complessivo dell'articolo cui appartiene e che, a sua volta, è inserito fra "le norme di coordinamento delle disposizioni previste dagli articoli 2, 3 e 5 della legge delega" per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale "con tutte le altre leggi dello Stato", il comma in esame si presenta chiaramente come un'eccezione al dettato del primo comma del medesimo art. 233 ("Tuttavia, sono abrogate le disposizioni di leggi o decreti che prevedono il giudizio direttissimo in casi, con forme o termini diversi da quelli indicati nel codice") e, al tempo stesso - attraverso la proclamata persistente applicabilità della regolamentazione speciale da tempo vigente in ordine sia al giudizio direttissimo per i reati concernenti le armi e gli esplosivi sia al giudizio direttissimo per i reati commessi con il mezzo della stampa - come una deroga alla disciplina dettata, quanto a casi, forme e termini del giudizio direttissimo, dagli artt. 449 e 556 del nuovo codice di procedura penale. Infatti, a differenza di questi due ultimi articoli, che subordinano l'adozione del rito direttissimo ad una scelta del pubblico ministero ("può": v. art. 449, primo, quarto e quinto comma; art. 566, quarto comma), le disposizioni tenute in vita dall'art. 233, secondo comma, delle norme di coordinamento impongono al pubblico ministero l'instaurazione diretta del dibattimento - connotato essenziale del giudizio direttissimo "anche fuori dei casi previsti dagli articoli 449 e 556 del codice": cioè, sempre e comunque, allorquando l'imputazione riguardi reati concernenti armi od esplosivi oppure reati commessi con il mezzo della stampa. La deviazione dal nuovo modello codicistico viene così ad assumere una doppia valenza: l'adozione del rito speciale è doverosa, anziché discrezionale, in quanto imposta pure a prescindere dall'esistenza dei presupposti fissati dall'art. 449 per il giudizio direttissimo davanti al tribunale e dall'art. 566 per il giudizio direttissimo davanti al pretore.

Ad avviso dei giudici a quibus, tutto ciò comporterebbe, nei rapporti di costituzionalità, la violazione degli artt. 3 (in quanto verrebbe ingiustificatamente omessa la fase dell'udienza preliminare), 24 (in quanto si priverebbe l'imputato di alcuni epiloghi propri di tale udienza), 76 (in quanto non sarebbe rispettato un criterio direttivo di cui al punto n. 43 dell'art. 2 della legge-delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, ove sono tracciate le linee dalle quali il giudizio direttissimo, tipico giudizio speciale, non può allontanarsi nella previsione del legislatore delegato), 97 (in quanto l'organizzazione dei dibattimenti penali risulterebbe negativamente condizionata dalla non preventivabile instaurazione dei giudizi direttissimi obbligatori) e - per i reati commessi con il mezzo della stampa anche 21 (in quanto ci si troverebbe di fronte ad un residuato del vecchio sistema processuale, nato dal proposito di stimolare una repressione esemplare, a freno della libertà di stampa).

3. - Le questioni sono fondate.

Secondo quanto adombrato dalle due ordinanze del Tribunale di Lecce (n. 418 del 1990 e n. 419 del 1990) sul finire della loro motivazione, si appalesa "decisivo" il rilievo che, muovendo dal n. 43 dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, imperniato sul "potere del pubblico ministero di citare l'imputato per il giudizio direttissimo, nei casi poi trasfusi nell'art. 449 del codice", porta a constatare come tale potere "nel caso previsto dall'art. 233 cpv. d. lgsl. 271/89" sia, invece, "diventato un dovere, in chiara violazione della legge-delega (e quindi dell'art. 76 Cost.), che del resto ancorava lo stesso potere a ben precisi presupposti (quelli di cui all'odierno art. 449 c.p.p.), completamente trascurati dalla norma censurata.

4. - Innegabilmente, il n. 43 dell'art. 2 della legge-delega, nel configurare, tra le alternative al giudizio ordinario, la possibilità ("potere") per il pubblico ministero di presentare l'imputato direttamente in giudizio entro termini e per casi ben predeterminati, rivela il preciso intento di mantenere l'adozione del giudizio direttissimo entro confini nettamente circoscritti, tali da non consentire al legislatore delegato di superarli con l'aggiunta di ipotesi esulanti dai paradigmi ivi descritti, salvo incorrere in un eccesso di delega contrastante con l'art. 76 della Costituzione.

I lavori parlamentari che hanno progressivamente portato all'approvazione della legge-delega nel corso della IX legislatura risultano particolarmente eloquenti al riguardo. Dopo che il giudizio direttissimo era rimasto addirittura escluso dalle previsioni della precedente legge-delega del 1974 e, quindi, dall'impianto del correlativo progetto preliminare del 1978, un emendamento, presentato dal Governo nel corso dell'VIII legislatura in vista del rinnovo della delega, aveva profilato la "possibilità per il pubblico ministero di disporre il giudizio direttissimo" in casi predeterminati, subito accendendo vivaci discussioni all'interno della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in un continuo oscillare tra la formula "possibilità per il pubblico ministero", divenuta in seguito "potere del pubblico ministero", e la formula "potere-dovere del pubblico ministero". In sede di approvazione da parte di quella Commissione fu la formula "potere del pubblico ministero di presentare l'imputato direttamente al tribunale" a prevalere, per venire poi sostanzialmente mantenuta durante le varie fasi della successiva, e decisiva, IX legislatura, pur nel variare degli altri contenuti del relativo punto, diventando alla fine "potere del pubblico ministero di presentare l'imputato direttamente in giudizio". Il tutto nella prospettiva di riservare all'organo dell'accusa il potere di adottare, di volta in volta, il rito valutato come il più adatto, non senza giungere, nel contempo, quanto ai casi specifici di giudizio direttissimo, al risultato di renderne più ampio l'ambito rispetto alle previsioni del codice precedente, così da assorbire sin dove ritenuto possibile le aggiunte dovute a leggi speciali.

5. - Tale e tanta è la chiarezza del punto n. 43 dell'art. 2 della legge-delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale che, per sottrarre l'art. 233, secondo comma, delle norme di coordinamento alla lamentata violazione dell'art. 76 della Costituzione, non resterebbe che la via di ritenere inapplicabili i principi ed i criteri direttivi elencati nell'art. 2 alla delega di cui all'art. 6, avente per oggetto, fra l'altro, l'emanazione delle norme di coordinamento.

Proprio sulla base di questa prospettazione, l'Avvocatura Generale dello Stato - pur riconoscendo, nell'atto di intervento relativo al primo dei cinque giudizi riuniti (n. 253 del 1990), che la norma denunciata "si muove secondo prospettive di eccezionale deroga alla disciplina del codice" - perviene a considerare infondato il sospetto di un eccesso di delega. Infatti, secondo l'Avvocatura Generale dello Stato, la legge di delegazione, "nel conferire al Governo il potere di emanare norme di coordinamento del nuovo codice 'con tutte le altre leggi dello Stato' (art. 6), non ha imposto al delegato vincoli specifici".

Ma, se le cose stessero effettivamente così, si sarebbe in presenza di una delega - quella, appunto, conferita con l'art. 6 che, in quanto priva di ogni "determinazione di principi e criteri direttivi", si troverebbe in palese, diretto e radicale contrasto con l'art. 76 della Costituzione.

Anche la pretesa che, trattandosi di norme di coordinamento, sarebbe "rimesso allo stesso legislatore delegato di apprezzare se ed in quale misura istituti previsti da leggi speciali richiedessero un intervento di raccordo con il rinnovato impianto codicistico, così da impedire il determinarsi di un altrimenti incolmabile vuoto normativo" - a parte la facile obiezione che nessun incolmabile vuoto normativo si sarebbe determinato nella specie (l'abrogazione di tutte le precedenti previsioni di giudizio direttissimo avrebbe lasciato intero posto alle previsioni del nuovo codice) - va incontro allo stesso decisivo rilievo: il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega.

Il completo silenzio dell'art. 6 della legge-delega quanto a principi e criteri direttivi non può, dunque, intendersi, come vorrebbe l'Avvocatura Generale dello Stato, alla stregua di un'indiscriminata rimessione al legislatore delegato dell'apprezzamento del se e del come raccordare gli istituti previsti da leggi speciali all'impianto del nuovo codice. Tale silenzio va, invece, inteso come tacito rinvio ai principi ed ai criteri di cui all'art. 2 (e, per il processo penale a carico di imputati minorenni, all'art. 3) della medesima legge, nel senso che le norme di coordinamento non debbono mai porsi in contrasto con tali principi e criteri, proprio perché l'esercizio di una delega volta a coordinare il codice con le altre leggi dello Stato non può spingersi fino al punto di aggirare uno dei principi e criteri su cui il codice è stato costruito. La finalità dell'art. 6, nella parte concernente le norme di coordinamento ivi contemplate, sta proprio nel non escludere possibili sopravvivenze normative, purché coerenti con gli artt. 2 e 3 della stessa legge.

Né giova asserire in contrario, come nella parte conclusiva dell'atto di intervento fa l'Avvocatura Generale dello Stato, che la funzione di un coordinamento così limitata risulterebbe sostanzialmente inutile. A prescindere dalla considerazione che, se così fosse, nemmeno il primo comma dell'art. 233, che sia nel testo del progetto preliminare sia nel testo del progetto definitivo delle norme di coordinamento si presentava come unico, troverebbe una vera ragione d'essere, non sempre le caducazioni ritenute automatiche significano certezza normativa. Il fenomeno dell'abrogazione implicita non di rado suscita dubbi, che, specie nel passaggio da una vecchia ad una nuova codificazione, è bene evitare il più possibile, tanto più quando si sia in presenza di una legislazione delegata, per sua natura carica di condizionamenti.

6. - Si deve, perciò, pervenire alla declaratoria di illegittimità della norma impugnata, con conseguente riduzione dell'art. 233 delle norme di coordinamento al solo primo comma, che viene in tal modo a conglobare, nell'abrogazione ivi esplicitata, tutte "le disposizioni di leggi o decreti che prevedono il giudizio direttissimo in casi, con forme e termini diversi da quelli indicati nel codice". Con l'ulteriore effetto che, in ordine ai reati concernenti le armi o gli esplosivi ed ai reati commessi con il mezzo della stampa, il rito direttissimo potrà pur sempre essere adottato in presenza dei presupposti indicati negli artt. 449 e 566 del codice (arresto in flagranza, confessione).

Resta, a questo punto, assorbita ogni analisi relativa agli altri parametri di costituzionalità indicati dai giudici a quibus.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989. n. 271).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria l'8 febbraio 1991.