Sentenza n.108 del 1981

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SENTENZA N. 108

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 9 giugno 1978 dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di Floridi Fiorella, iscritta al n. 491 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10 del 10 gennaio 1979;

2) ordinanza emessa il 17 giugno 1978 dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di Giordano Riccardo ed altri, iscritta al n. 537 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 24 gennaio 1979;

3) ordinanza emessa il 16 agosto 1978 dal Tribunale di Trento nel procedimento penale a carico di Zorzi Renzo ed altri, iscritta al n. 543 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31 del 31 gennaio 1979;

4) ordinanza emessa il 10 luglio 1978 dal Tribunale di Voghera nel procedimento penale a carico di Vercesi Angela ed altra, iscritta al n. 561 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 del 17 gennaio 1979;

5) ordinanza emessa il 5 ottobre 1978 dalla Corte d'appello di Firenze nel procedimento penale a carico di Branca Bicci Nereide ed altri, iscritta al n. 613 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45 del 14 febbraio 1979;

6) ordinanza emessa il 6 dicembre 1978 dal Tribunale di Larino nel procedimento penale a carico di Camato Antonio ed altri, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 80 del 21 marzo 1979;

7) ordinanza emessa il 1 dicembre 1978 dal Pretore di Città di Castello nel procedimento penale a carico di ignoti, iscritta al n. 216 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 133 del 16 maggio 1979;

8) ordinanza emessa il 23 gennaio 1979 dal Pretore di Genova nel procedimento penale a carico di Sessarego Domenico ed altri, iscritta al n. 361 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 182 del 4 luglio 1979;

9) ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di Lipizer Mario ed altri, iscritta al n. 392 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 196 del 18 luglio 1979;

10) ordinanza emessa il 13 febbraio 1979 dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di Anastasio Vittoria ed altri, iscritta al n. 400 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 196 del 18 luglio 1979;

11) ordinanza emessa il 9 maggio 1979 dal Pretore di Prato nel procedimento penale a carico di Ligori Donato, iscritta al n. 522 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 237 del 29 agosto 1979.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 gennaio 1981 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - Con ordinanza emessa il 9 giugno 1978, nel procedimento penale a carico di Floridi Fiorella, il Tribunale di Pesaro ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 5 e 22, legge 194/78 ("Norme per la tutela della gravidanza") in riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 29, secondo comma, 30, primo comma, 31, primo e secondo comma, Cost. Il 2 luglio 1973 il medico provinciale di Pesaro trasmetteva al Procuratore della Repubblica copia conforme di una denuncia di aborto, presentatagli dal primario ginecologico dell'Ospedale Civile.

Dal rapporto peritale, disposto dal Magistrato, risultava che l'aborto era stato procurato al secondo mese di gravidanza con l'introduzione nella cavità uterina di una sonda di gomma; che l'intervento demolitore, dato il mezzo adoperato, era stato eseguito da una terza persona; che ne erano risultate gravi lesioni negli organi genitali della donna, con pericolo di peritonite; che l'interessata, al momento di decidersi all'aborto, doveva ritenersi nel pieno possesso delle facoltà mentali.

La stessa Floridi, del resto, confermava le risultanze del rapporto, meno che per la partecipazione alla manovra abortiva di altre persone, e affermava di aver voluto interrompere la gravidanza per via delle precarie condizioni economiche e familiari, e del conseguente scadimento del suo stato di salute psichica. Essa veniva quindi imputata del delitto previsto nell'art. 546, codice penale, "per essersi fatta procurare l'aborto con il suo consenso da persona non identificata".

Al momento del fatto - sosteneva il suo difensore - la Floridi si trovava in tali condizioni di esaurimento nervoso, comprovate da certificato medico, che l'aborto avrebbe dovuto ritenersi lecito ai sensi della sentenza n. 27 del 1975 della Corte. Entrata in vigore, il 6 giugno 1978, la nuova legge sull'interruzione della gravidanza, la difesa dell'imputata chiedeva l'accertamento delle condizioni di non punibilità ivi previste nella norma appositamente dettata con riguardo ai fatti pregressi (art. 22, terzo comma).

Il Tribunale di Pesaro ritiene che il caso sottoposto al suo giudizio ricada sotto la previsione dell'articolo testè citato, che così testualmente dispone:

"Salvo che sia stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli artt. 4 e 6".

Nella specie, si osserva, l'interruzione della gravidanza ha avuto luogo entro il primo trimestre. Vengono allora in rilievo le condizioni di non punibilità previste nell'art. 4. Se il giudice accertasse che esse non sussistevano al momento del fatto, l'imputato sarebbe punibile: e tuttavia, non con la sanzione prevista dall'art. 546 codice penale, dal momento che questa norma è stata espressamente abrogata, insieme con le rimanenti altre del titolo X del libro II del codice penale, in forza del primo comma dell'art. 22. La pena da applicare sarebbe dunque quella comminata dall'art. 19, sebbene con riguardo ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della legge.

Posto ciò, è delibata la questione che si prospetta alla Corte. Nessun dubbio, si assume, può sussistere sotto il profilo della rilevanza: la quale è ritenuta ugualmente certa, si assuma che un'eventuale pronunzia d'incostituzionalità farebbe rivivere la norma incriminatrice del codice, già abrogata dalla disposizione in esame, ovvero si assuma che essa produrrebbe un vuoto legislativo.

La fondatezza della censura è argomentata in base ai principi che questa Corte avrebbe enunciato nel dichiarare l'incostituzionalità, prima dell'art. 553, poi parzialmente dell'articolo 546 del codice penale (sentenze 49/71 e 27/75).

Il diritto alla vita, costituzionalmente garantito come fondamentale fin dal concepimento, costituirebbe, pur nella sua peculiarità, una figura dei diritti inviolabili dell'uomo, proclamati dall'art. 2 della Carta fondamentale. Non si contesta che la situazione del concepito debba essere protetta compatibilmente con gli interessi, egualmente meritevoli di tutela, della madre. Si afferma però l'obbligo costituzionale di sancire la illiceità penale dell'aborto, tolto il caso, come è precisato nella sentenza 27/75, che la prosecuzione della gravidanza costituisca un pericolo grave, non altrimenti evitabile e accertato dal medico, per la salute della gestante.

La norma che si denunzia, e del resto il sistema della legge n. 194, avrebbero tuttavia trascurato le prescrizioni della Corte, vulnerando gli invocati parametri costituzionali.

Da un canto, si dice, l'art. 1 afferma solennemente la tutela del concepito; dall'altro, questa proclamazione sarebbe, nelle norme successive, sotto vario riguardo spogliata del suo rilievo. Si lamenta, infatti, che ai sensi dell'art. 4 l'aborto divenga lecito in presenza di una larga ed elastica serie di indicazioni: un pericolo serio, ancorché non grave, che potrebbe pregiudicare - in relazione alla prosecuzione della gravidanza, al parto, o addirittura alla futura condotta della maternità - non soltanto la salute fisica ma lo stesso equilibrio psichico della gestante; le condizioni economico - sociali della donna, previste in questa sede perchè si sarebbe trasgredito l'obbligo, gravante sullo Stato ex art. 3, secondo comma, Cost., di rimuovere gli ostacoli all'eguaglianza tra i cittadini; le possibili anomalie e malformazioni del nascituro, le quali, sempre difficili da accertare, giustificherebbero comunque lo aborto eugenetico, distante solo un breve passo dalla selezione della razza.

Egualmente chiara sarebbe l'incostituzionalità dell'art. 5. Tale disposizione regola le modalità che valgono per l'interruzione della gravidanza entro i primi tre mesi della gestazione. I soggetti ivi previsti - il consultorio, la struttura socio-sanitaria, il medico di fiducia - garantiscono o compiono, secondo i casi, i necessari accertamenti medici, valutano insieme con la donna e, dove questa lo consente, con il padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi preposti; se riscontrano gli estremi di un intervento urgente, essi rilasciano immediatamente alla donna un certificato comprovante l'urgenza, che abilita l'interessata ad ottenere l'interruzione della gravidanza presso una delle sedi autorizzate. Quando non ricorre l'urgenza, e la gestante tiene tuttavia ferma la richiesta di abortire sulla base delle circostanze sopra menzionate, essi non possono che rilasciarle copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, ed invitarla a soprassedere per sette giorni. Trascorso questo periodo di riflessione, la donna è libera - anche qui, in virtù del documento rilasciatole - di sottoporsi all'intervento abortivo presso una sede autorizzata. La disciplina testè descritta è così congegnata, si deduce, che spetta alla donna, espletatasi la procedura, decidere insindacabilmente se la gravidanza vada interrotta. Non essendo previsti controlli o verifiche delle ipotesi giustificative di una simile decisione, l'art. 19 si limiterebbe a incriminare la semplice inosservanza delle modalità da esso prescritte. Sarebbe dunque salvo quel principio di auto - determinazione della gestante, che si denunzia come lesivo del diritto alla vita del concepito, e di altri valori costituzionalmente protetti. Tali, precisamente, sarebbero: l'interesse del genitore maschio, tutelato ex art. 31 Cost., alla formazione della famiglia; il principio di eguaglianza dei coniugi, sancito, dove i genitori siano legati da vincolo matrimoniale, dall'art. 29 Cost., che si assume vulnerato in difetto dell'obbligo di consultare il padre nel corso della procedura abortiva; il diritto - dovere dei genitori di mantenere la prole ex art. 30, primo comma, Cost.: e perciò non solo i figli nati, ma anche quelli concepiti, come dovrebbe d'altronde ritenersi secondo le nozioni del codice civile.

Le questioni prospettate investirebbero, oltre alle norme espressamente indicate nel dispositivo (artt. 4, 5, 22 della legge), tutte le altre che caratterizzano il sistema della disciplina in esame (gli articoli dall'8 al 15 e dal 19 al 21). Competerebbe d'altra parte alla Corte stabilire se offenda la Costituzione anche il regime dell'aborto dopo i primi novanta giorni della gravidanza e, in questo caso, se la Corte stessa debba giovarsi del potere di annullamento conseguenziale, ex art. 27 della legge 87/53.

Il Presidente del Consiglio, costituitosi in giudizio per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, eccepisce l'irrilevanza della questione proposta con riferimento all'art. 5 e deduce l'infondatezza della censura che concerne gli artt. 4 e 22, terzo comma.

Il Tribunale di Pesaro avrebbe correttamente interpretato il sistema della legge: il precetto da applicare sarebbe posto nell'art. 22, terzo comma; la sanzione, che deve operare se il giudice non accerta la sussistenza delle situazioni di non punibilità previste in detta norma mediante il richiamo dell'art. 4, andrebbe invece ricavata dall'art. 19. Quest'ultima disposizione stabilisce la pena sia per la donna (primo comma), sia per chiunque altro abbia concorso all'aborto su donna consenziente (secondo comma). Testualmente, conviene l'Avvocatura, essa si riferisce agli illeciti compiuti sotto l'impero della nuova legge e dunque all'interruzione della gravidanza che abbia luogo senza l'osservanza delle modalità previste negli artt. 5 e 8.

Ma ciò non toglie che la pena, com'é oggi configurata, serva a sanzionare anche l'aborto commesso prima dell'entrata in vigore dell'attuale normativa, essendo irrazionale, seppure non scorretto secondo lo stretto criterio della sistematica giuridica, che i fatti pregressi rimangano assoggettati alla più grave sanzione comminata nell'art. 546 del codice penale. Erroneo sarebbe, invece, il risultato, al quale il giudice a quo perviene muovendo da questa premessa, di censurare anche il precetto dell'art. 5, che riguarda esclusivamente le procedure introdotte dalla legge del 1978, e non è infatti richiamato nell'art. 22, terzo comma. L'art. 5, e le altre norme che disciplinano le vigenti modalità dell'aborto, non verrebbero quindi in considerazione nella specie. Di qui la dedotta irrilevanza della questione. Al giudice toccherebbe, invece e soltanto, di accertare il verificarsi delle condizioni di cui all'art. 4, sempre in rapporto al precetto stabilito nel terzo comma dell'art. 22.

Nessuno dei profili di illegittimità prospettati nel provvedimento di remissione riguarderebbero tuttavia l'ipotesi che la sussistenza di una o più delle condizioni contemplate nell'art. 4 risulti essere stata accertata dal Tribunale di Pesaro, ai sensi dell'art. 22, terzo comma.

  1. - Con ordinanza emessa il 17 giugno 1978 il Giudice istruttore del Tribunale di Salerno ha sollevato d'ufficio, nel procedimento penale a carico di Giordano Riccardo, Buonocore Maria e Apicella Ottavio questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 194 del 1978 in riferimento agli artt. 2, 3 e 31, secondo comma, della Costituzione.

É denunziata la violazione delle norme costituzionali che proteggono la maternità e tutelano il feto. Si assume che il disposto dell'art. 2 Cost. copra il diritto alla vita prenatale. Le previsioni dell'art. 4 confliggerebbero con esso e, sotto un duplice riguardo, anche con l'art. 3 Cost. La differenza della disciplina dettata rispettivamente per i primi tre mesi e per il successivo corso della gravidanza sarebbe infatti irrazionale: il feto possederebbe fin dal concepimento il suo proprio e compiuto patrimonio genetico e la vita in fieri meriterebbe un'identica e ininterrotta tutela, quale che sia la fase della gestazione; inoltre, con l'annoverare le circostanze di ordine sociale e familiare fra le possibili cause di giustificazione dell'aborto, il legislatore avrebbe trascurato il dovere costituzionale di rimuovere gli ostacoli all'attuazione proprio di quel principio di eguaglianza, al quale esso pretenderebbe qui, per altro verso, di conferire rilievo.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale deduce che altro è la causa, altra cosa sono gli effetti delle situazioni che legittimano l'interruzione della gravidanza ai sensi della norma censurata. Le cause possono variare; l'effetto è, sicuramente, sempre quello di incidere sullo stato di salute fisica e psichica della gestante: ed il giudice può e deve accertarne la sussistenza, prima che possa essere sacrificata la tutela del concepito.

  1. - Altra questione è prospettata alla Corte dal Tribunale di Trento, con ordinanza in data 16 agosto 1978, nel corso del procedimento penale a carico di Zorzi Renzo ed altri imputati, rinviati a giudizio a conclusione della formale istruttoria. Nelle more del procedimento sopravveniva la legge n. 194 del 1978. Il difensore dello Zorzi chiedeva la revoca del mandato di cattura e in subordine la concessione della libertà provvisoria, assumendo che il reato di atti abortivi su donna ritenuta incinta era ormai stato abrogato, e che l'altro reato imputato al suo assistito - aborto pluriaggravato di donna consenziente - non era più punibile, in forza dell'art. 22, terzo comma, della nuova legge sull'interruzione della gravidanza. Con istanza aggiuntiva, lo stesso difensore chiedeva, in applicazione dell'art. 152, primo comma, e dell'art. 421 c.p.p il proscioglimento del giudicabile e la conseguente revoca del mandato di cattura. Il Pubblico Ministero eccepiva l'incostituzionalità dell'intero testo ed in particolare degli artt. 4, 6 e 22 della legge citata, per contrasto con gli artt. 30, primo comma, 31, secondo comma, 3 e 32 Cost. Un successivo provvedimento di clemenza veniva ad estinguere il reato di lesioni colpose, che era residuato dalla precedente imputazione del reato di atti abortivi su donna ritenuta incinta, espressamente abrogato ex art. 22, primo comma, della legge 194 del 1978; il relativo mandato di cattura, spiccato nei confronti dello Zorzi, era conseguentemente revocato.

La questione è dunque sollevata con riguardo al solo reato di aborto di donna consenziente. Il Tribunale di Trento ne deliba, prima di tutto, la rilevanza. Nella specie, si tratta dell'aborto di un'infradiciottenne, compiuto, al secondo mese di gravidanza, prima dell'entrata in vigore della legge 194.

Dovrebbe dunque soccorrere la disposizione del terzo comma art. 22, secondo la quale i fatti pregressi non sono punibili, dove risulti accertata dal giudice la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 4 della stessa legge. Sennonché, prosegue il giudice a quo, nulla è detto per il caso in cui risulti invece che, al momento del fatto, dette condizioni difettavano. Si assume che, anche qui, l'illecito pregresso non sia punibile. Non potrebbe infatti farsi ricorso all'art. 546 codice penale, in quanto detta norma non viene espressamente eccettuata dall'ambito di operatività dell'abrogazione disposta, ex art. 22, primo comma, con riferimento all'intero titolo in cui essa era inclusa. Le nuove norme che incriminano l'inosservanza delle modalità da esse introdotte sarebbero, d'altra parte, evidentemente inapplicabili a chi abbia praticato l'aborto prima dell'entrata in vigore della presente legge. La rilevanza della questione viene allora asserita sul presupposto dell'avvenuta soppressione dell'intero titolo IX del libro II del codice penale.

Sarebbe, appunto, il primo comma dell'art. 22, da cui scaturisce l'estinzione di tutto il corpo delle norme investite dall'abrogazione espressa, a costituire la chiave di volta del sistema costruito con la nuova legge; mentre al terzo comma non si riconosce alcun utile significato. Si verrebbe allora a delineare l'incostituzionalità della legge 194 nella sua organicità ed interezza; la censura così formulata sarebbe, del resto, sorretta anche dalla considerazione che, una volta dichiarata l'illegittimità della legge riguardo alla prima fase della gravidanza, ne risulterebbe la reviviscenza della previgente disciplina: tale disciplina, si aggiunge, è certamente meno mite, - e in questo senso, logicamente incompatibile - rispetto a quella dettata nel contesto dell'attuale normativa per sanzionare penalmente l'aborto oltre il primo trimestre della gestazione, quando, cioè, si configurano ipotesi di illecito obiettivamente più gravi e pericolose. La fondatezza della questione è poi dedotta, in buona sostanza, in base ai rilievi sopra esposti con riferimento all'ordinanza del Tribunale di Pesaro. Qui si denunzia, come solo ed assorbente motivo di incostituzionalità, la violazione dell'art. 2 della Costituzione, in virtù del quale il diritto alla vita, fondamento e premessa di ogni altro diritto individuale dell'uomo, sarebbe garantito al nascituro fin dal concepimento. Questa stessa disposizione della Carta fondamentale sancirebbe - per altro verso, e come il più importante dei doveri inderogabili di solidarietà, che esige il presidio di una sanzione penale - l'obbligo di proteggere sia la vita prenatale, sia la maternità, in quanto l'assistenza prestata alla madre è pur sempre strumentalmente connessa con la tutela riconosciuta agli interessi del nascituro. Le norme riservate alle gestanti minorenni e incapaci introdurrebbero poi l'aborto coatto; mentre l'esperienza di analoghe soluzioni negli ordinamenti stranieri, suffragata da larga copia di dati statistici, dimostrerebbe che la nuova normativa liberalizzatrice è comunque inidonea a sanare la piaga dell'aborto clandestino.

Interviene nel giudizio il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato. La norma risultante dal richiamo dell'art. 4 nel terzo comma dell'art. 22 sarebbe integrata dal disposto dell'art. 19 e non - come, erroneamente si assume nel provvedimento di remissione - priva di sanzione. Si deduce altresì che la denunzia della intera legge è inammissibile. La questione potrebbe rilevare solo con riguardo agli artt. 22, terzo comma, 4 e 19 e sarebbe, comunque, infondata nel merito.

  1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Vercesi Angela ed altra, il Tribunale di Voghera, con ordinanza emessa il 10 luglio 1978, solleva la questione di costituzionalità dell'art. 4, richiamato dal terzo comma dell'art. 22 della legge 194/78, in riferimento agli artt. 2 e 31, secondo comma, Cost. Le situazioni giustificative dell'aborto nei primi novanta giorni di gravidanza sarebbero così configurate nell'art. 4 da riuscire assai difficilmente suscettibili di verifica. Si assume quindi che la norma sia incompatibile con la tutela della maternità prevista dalla Costituzione.

L'Avvocatura dello Stato, in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio, deduce che il Tribunale confonderebbe le cause elencate nell'art. 4 con riferimento alle ipotesi giustificative dell'aborto, e l'effetto che il legislatore presume debba comunque discenderne, e che consiste nel serio pericolo per la salute della donna. Quel che interessa nel caso in questione è accertare l'esistenza del suddetto pericolo, e non della causa che lo avrebbe determinato. Così intesa la norma, la questione sarebbe priva di fondamento.

  1. - Con ordinanza emessa il 5 ottobre 1978, la Corte d'appello di Firenze ha, nel procedimento penale a carico di Branca Bicci Nereide ed altri, sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 22, terzo comma, 4, 5, terzo e quarto comma, 8, ultimo comma, legge 194/78, in riferimento agli artt. 2, 30, primo comma, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost.

Sopraggiunta la legge n. 194 del 1978, il Giudice istruttore del Tribunale di Firenze proscioglieva dalle rispettive accuse la donna che aveva subito l'aborto, il marito della donna e l'ostetrica, ritenendo la sussistenza delle condizioni di non punibilità previste dall'art. 4 della legge 194.

La gestante sarebbe versata in precarie condizioni economico - familiari, avrebbe sofferto di disturbi all'apparato uro-genitale e tutto ciò avrebbe determinato un serio pericolo per la sua salute psichica. Il Procuratore della Repubblica appellava tale decisione. La donna sottoposta ad aborto avrebbe invece goduto di buona salute e potuto condurre un dignitoso tenore di vita. La gravidanza sarebbe stata interrotta soltanto perchè la famiglia della gestante aveva pensato di trasferirsi in altra abitazione, provvista di migliori attrezzature igieniche. D'altra parte, si deduceva dall'appellante, la mera richiesta di interruzione della gravidanza è considerata dalla legge come indice di un turbamento psichico, subito equiparato ad un serio pericolo per la salute. Si chiedeva, quindi, alla Sezione Istruttoria di denunziare avanti questa Corte le disposizioni liberalizzatrici dell'aborto contenute nell'art. 4, come lesive dei diritti alla vita, alla crescita e alla salute, costituzionalmente garantiti al nascituro e, nel merito, di annullare l'impugnata sentenza, ordinando il rinvio degli imputati a giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze. Il Procuratore generale concludeva in senso favorevole al proposto appello. Il giudice a quo deliba la rilevanza della questione, da un canto accertando la sussistenza dei fatti contestati e la correlativa responsabilità degli imputati, dall'altro sistemando il caso di specie nell'ambito della vigente normativa. A quest'ultimo riguardo, si prescinde dalla questione se la sanzione da applicare debba ricavarsi dall'art. 19 della legge, o se essa stia ancora nell'art. 546 del c.p., sul presupposto che quest'ultimo articolo, sia stato abrogato, si, ma non retroattivamente. Si assume comunque che il precetto del codice, ancorché perduri in vigore, abbia formato oggetto di parziale abrogazione implicita, nel senso che la norma sopravvenuta configura come cause di non punibilità del fatto pregresso le condizioni ora previste dall'art. 4. Tale ultima disposizione, appositamente richiamata dal terzo comma dell'art. 22, introduce dal canto suo - si deduce poi - il principio di autodeterminazione della gestante nella procedura abortiva, innovando la precedente disciplina. Di questo principio il giudice non potrebbe non tenere conto anche in sede di applicazione del terzo comma, art. 22. L'accertamento che al riguardo gli incombe andrebbe allora compiuto secondo il criterio di non determinare un'ingiustificabile disparità di trattamento tra condizioni anteriori e condizioni posteriori all'entrata in vigore della presente legge. Non si tratterebbe, invero, di stabilire, in relazione all'art. 4, se ricorra o no un serio pericolo per la salute della gestante, ma semplicemente di accertare la sussistenza dei presupposti, ai quali la legge attualmente subordina l'erogazione dell'intervento abortivo. Tali sarebbero, precisamente, la durata infratrimestrale della gravidanza; la capacità della gestante, che deve essere maggiorenne e non interdetta; la personale manifestazione della volontà di abortire, non estorta nè carpita. Anche, poi, a voler ammettere, in contrasto con il principio di autodeterminazione, che la disposizione in esame esiga il sindacato dell'effettivo verificarsi delle situazioni elencate nell'art. 4, queste, assai latamente configurate, sarebbero difficilmente riducibili al controllo del giudice. Il congegno dell'art. 4 si incentra, viene dedotto, nella volontà della donna, abilitata a promuovere la procedura abortiva sulla base della presunta interferenza nel suo stato di salute di una qualsiasi delle eterogenee e mal definite circostanze, che il legislatore ha contemplato. Il punto sarebbe comprovato dal confronto testuale fra l'art. 4 e l'art. 6, il quale ultimo condiziona l'interruzione della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, all'accertamento dei presupposti obiettivi in esso indicati alle lettere a) e b). La rilevanza della questione è altresì motivata anche con il prospettare gli effetti di un'eventuale dichiarazione sul procedimento di cui è investita la Corte d'appello. Il venir meno di norme penali dichiarate incostituzionali è infatti assunto come un fenomeno diverso dalla successione delle leggi penali nel tempo.

La pronunzia di incostituzionalità di una norma abrogatrice di altra precedente norma penale non solleverebbe alcun problema di stretta legalità, in relazione all'art. 1 del codice penale e all'art. 25 Cost. Nemmeno si avrebbe, in senso stretto, la reviviscenza delle norme abrogate: questo perchè la norma dichiarata incostituzionale sarebbe valida solo in apparenza, e invece viziata di invalidità fin dall'origine. Di qui si trae la conseguenza che, nell'ambito del rapporto processuale in cui la questione è proposta, l'abrogazione debba aversi come mai avvenuta. Così, una volta dichiarata l'incostituzionalità della norma abrogativa, tornerebbe nella specie ad applicarsi la previgente norma del codice con le modifiche risultanti dalla sentenza n. 27/75 della Corte costituzionale "ma senza più alcuna influenza delle condizioni e situazioni previste dalla nuova disciplina di cui alla legge n. 194". La fondatezza delle censure è poi dedotta sull'assunto che le disposizioni impugnate abbiano travalicato i limiti tracciati nella citata sentenza di questa Corte, entro i quali lo Stato può astenersi dal sanzionare penalmente l'interruzione della gravidanza.

Sempre nella sentenza n. 27 del 1975 sarebbe del resto stabilito fin dove la tutela della madre, che è persona, prevale su quella del concepito, che persona ancora non è. La normativa in esame, si soggiunge, configura tuttavia, là dove avrebbe dovuto esservi una sfera di mera non punibilità dell'aborto, un diritto soggettivo della gestante all'interruzione della gravidanza: e per altro verso, in capo alle strutture pubbliche, il dovere di erogare la corrispettiva prestazione come servizio medico e sociale. Una simile disciplina difetterebbe, tuttavia, di un idoneo supporto costituzionale: il diritto all'aborto della gestante non potrebbe infatti giustificarsi nemmeno come diritto sul proprio corpo, costituendo il concepito un autonomo organismo umano, che si auto - organizza e si sviluppa grazie al proprio individuale codice genetico; e d'altra parte, data la lamentata ampiezza delle previsioni giustificative dell'aborto, risulterebbero offesi i precetti costituzionali che si assume tutelino la sfera del concepito in varia guisa: con il sancire il diritto alla salute e alla vita dell'individuo, anche in formazione nel grembo materno, (artt. 2 e 32, primo comma); con il proteggere la maternità (art. 31, secondo comma); con l'imporre ai genitori il dovere, indissolubilmente connesso con il loro status, di mantenere i figli, e a maggior ragione di tenerli in vita (art. 30, primo comma). La tutela del concepito, così fondata nella Costituzione, sarebbe, del resto, indipendente dalla capacità giuridica nel senso del diritto privato.

Interviene nel giudizio il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato. É anzitutto dedotta l'inammissibilità delle questioni relative ai commi terzo e quarto dell'art. 5 e all'ultimo comma dell'art. 8, che disciplinano le modalità per pervenire all'aborto, e che quindi devono ritenersi inapplicabili ai fatti anteriori all'entrata in vigore della legge. Circa, poi, l'applicabilità delle sanzioni di cui all'art. 19, a chi, prima dell'entrata in vigore della legge, abbia abortito o procurato l'aborto fuori dalle ipotesi di cui all'art. 4, si ripetono le medesime considerazioni svolte in ordine al giudizio promosso dal Tribunale di Pesaro.

Per quel che riguarda, infine, la presunta divergenza dell'art. 4 legge 194 dalle indicazioni contenute nella sentenza 27/75 si deduce la sostanziale indistinzione tra "pericolo grave" (termine adoperato nella sentenza 27/75) e "pericolo serio" (termine adoperato nell'art. 4), e si esclude comunque che nell'art. 4 si venga indebitamente a dilatare il concetto di salute.

  1. - Con ordinanza emessa nel procedimento penale a carico di Camato Antonio ed altri il 6 dicembre 1978, il Tribunale di Larino solleva, ritenendone la rilevanza e la non manifesta infondatezza, le questioni di costituzionalità del combinato disposto degli artt. 22, terzo comma, e 4 legge 194/78 in relazione agli artt. 2, 31, secondo comma, e 3, secondo comma, Cost., sostanzialmente per gli stessi motivi prospettati nei provvedimenti di remissione sopra considerati.

Interviene in giudizio il Presidente del Consiglio. L'Avvocatura dello Stato deduce, come nei giudizi promossi con le ordinanze sopra riferite, l'infondatezza della questione.

  1. - Il Pretore di Città di Castello, nel corso di un procedimento penale a carico di ignoti, con ordinanza in data 1 dicembre 1978, prospettava alla Corte, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 2, 29, secondo comma, 30, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost. la questione di legittimità costituzionale degli artt. 17 e 19, e incidentalmente degli artt. 4, 5, 6 lettera a), 8 e 12 legge 194/78.

Il suddetto Pretore procede contro ignoti, imputati dei delitti previsti negli artt. 19 (procurato aborto senza rispetto delle modalità di cui agli artt. 5, 8) e 17 (procurato aborto colposo).

Il legislatore del 1978, egli osserva, innovando rispetto alla precedente disciplina, ha introdotto il delitto di aborto colposo, anche al di fuori di casi di lesione personale gravissima (artt. 583, secondo comma, n. 5 e 590, secondo comma, parte seconda).

Tale innovazione non sarebbe coerente con lo spirito ed il sistema della legge, che tende alla liberalizzazione dell'aborto volontario. Di qui l'asserito contrasto con l'art. 3 Cost. In relazione, poi, all'art. 19, si censura la differenza nella misura delle pene fra chi cagiona l'aborto e la donna che lo subisce, la quale sarebbe in contraddizione per un verso col principio di autodeterminazione della gestante, e per l'altro con il principio costituzionale di eguaglianza. Si osserva inoltre che le norme alle quali l'art. 19, primo comma, fa rinvio - cioè quelle contenute nel n. 1 e nel secondo comma dell'art. 5 - devono ritenersi pressoché inapplicabili, essendo assai difficile, nella fattispecie prevista dal primo comma, individuare i responsabili, e nell'altra, prevista dal secondo comma, verificare l'effettivo rispetto delle modalità prescritte. Si prospetta quindi la violazione del principio di legalità sancito dal secondo comma dell'art. 25 Cost., oltre che dall'art. 1 codice penale: le norme lascerebbero soverchia discrezionalità all'interprete nell'individuazione delle circostanze in cui l'aborto va punito.

É poi denunziato l'art. 4 della legge, che si assume connesso con tutte le altre norme censurate. Esso contrasterebbe con gli artt. 2, 3, primo comma, 29, secondo comma, 30, secondo comma, e 32, primo comma, Cost.

Le censure sono analoghe a quelle formulate, sempre con riguardo all'anzidetta disposizione di legge, nelle altre ordinanze di remissione.

Osserva peraltro il giudice a quo che al punto IV della dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 "si afferma che nel periodo precedente la nascita devono essere assicurati al non ancora nato e alla madre le cure mediche necessarie e una adeguata protezione sociale".

Quanto all'asserita lesione dell'art. 30, si soggiunge che dal combinato disposto di tale articolo e dell'art. 2 Cost. discende l'obbligo per lo Stato di intervenire in favore del minore, in caso di incapacità del genitore: il disposto dell'art. 4 confliggerebbe dunque anche con tale precetto, là dove è consentito l'aborto per ragioni economiche.

Si costituiva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.

L'Avvocatura dello Stato rileva che dal testo dell'ordinanza non risulta di quali fatti il Pretore sia chiamato a giudicare. Non sussistendo giudizio da definire, le preposte questioni di costituzionalità sarebbero evidentemente irrilevanti.

  1. - Altra questione è sollevata, d'ufficio, dal Pretore di Genova con ordinanza 23 gennaio 1979 nel procedimento penale a carico di Sessarego Domenico ed altri, imputati dei reati previsti nell'art. 19, primo e secondo comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194. Il giudice a quo denunzia, in riferimento agli artt. 32 e 3, primo comma, della Costituzione, gli artt. 4, 5 e 19, primo e secondo comma, della suddetta legge. L'art. 5 sancirebbe il diritto all'aborto e ne garantirebbe l'esercizio, mediante la gratuita prestazione di un servizio sanitario da parte degli enti pubblici, sanzionando penalmente il fatto solo se clandestino. La relativa procedura è promossa dalla donna che accusa, ex art. 4, una delle situazioni previste come giustificative dell'interruzione della gravidanza, in ragione della loro presunta incidenza sul suo stato di salute, fisica e psichica. Sennonché, si deduce, difetta qualsiasi efficace controllo del verificarsi di detta situazione, e l'interessata è così lasciata pienamente libera di determinarsi ad abortire. Ma con ciò si sacrificherebbe la tutela del concepito, pur imposta costituzionalmente, in forza dell'art. 32 che sancisce il diritto alla salute dell'individuo: questa locuzione - l'"individuo" connotando il genus rispetto al quale la "persona" è specie - riconoscerebbe la garanzia scaturente dal disposto costituzionale ugualmente alla madre e al feto: l'una, certo, persona, l'altro, non ancora tale, e tuttavia già individuo essere umano, fin dal concepimento. Il regime dell'aborto andrebbe dunque configurato in guisa da contemperare la tutela della salute così della madre, come del figlio, che essa reca in grembo. Il quale criterio esigerebbe, poi, che l'autorizzazione dell'atto abortivo fosse subordinata all'accertata incompatibilità del perdurare della salute della madre con la prosecuzione della gravidanza: ma si assume che esso sia stato disatteso sia per la previsione di cause giustificative dell'aborto che, formulate come esse sono, finirebbero necessariamente per eccedere la sfera dell'indicazione terapeutica; sia per la mancata adozione di idonei accertamenti medici quanto all'effettiva sussistenza di quel serio pregiudizio per la salute, che il compimento della gravidanza dovrebbe cagionare alla gestante. Peraltro la norma sanzionatrice del reato disporrebbe una irrazionale disparità di trattamento comminando una pena per la donna che abortisce, ed altra pena più grave per chiunque concorra alla commissione dell'aborto. La differenza delle due sanzioni, potrebbe essere legittima per il diverso riflesso psicologico del fatto nei confronti della gestante, purché contenuta entro limiti modesti; laddove essa non sarebbe giustificata nella specie, con il risultato di negare il dovuto rilievo al fondamentale interesse - interesse della collettività, non meno che diritto dell'individuo - alla salute: e ciò in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto si assume che la primarietà del bene oggetto di tutela esiga sempre la medesima tutela penale, e dunque la medesima severità nella punizione dei fatti che lo offendono.

Si costituisce in giudizio il Presidente del Consiglio, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato. Si deduce l'inammissibilità della questione e in via subordinata l'infondatezza della censura che riguarda la violazione del principio di eguaglianza. La questione sarebbe inammissibile per un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo, si osserva, nel caso sottoposto all'esame del Pretore di Genova, il giudizio verte sull'interruzione della gravidanza compiuta in violazione della presente legge, senza l'osservanza delle modalità prescritte. Si tratterebbe, dunque, di condotta punibile ai sensi delle norme vigenti. Il vizio prospettato nell'ordinanza di rinvio investirebbe, invece, le condizioni di non punibilità previste negli artt. 4 e 5 della legge. Esso discenderebbe, dunque, dalla mancata configurazione dell'aborto come illecito penale dove sussistano tali condizioni; ma la censura è irrilevante, eccepisce l'Avvocatura, ricorrendo nella specie l'ipotesi in cui l'aborto è reato. In secondo luogo, e da altro angolo visuale, l'inammissibilità è asserita sul presupposto che un'eventuale pronunzia di incostituzionalità non determinerebbe la reviviscenza dell'abrogato titolo IX del codice penale; e seppure tale reviviscenza dovesse verificarsi, non potrebbe in alcun caso conseguirne la punibilità dei soggetti imputati. Ciò in forza del principio desumibile dall'articolo 25 Cost., che si assume precluda alle sentenze della Corte di produrre effetti sfavorevoli per il reo. Analogamente è dedotta l'irrilevanza della lamentata violazione dell'art. 3. Accolta la censura, dovrebbe infatti risultarne l'estensione alla gestante della più grave pena prevista per gli altri autori: il che resterebbe escluso, anche qui, dal principio di irretroattività della legge penale, del resto in conformità della giurisprudenza di questa Corte. La questione sarebbe comunque nel merito infondata. É perfettamente razionale, si dice, che il legislatore abbia considerato, nel graduare l'entità delle pene, l'evidente diversità delle situazioni nelle quali - di fronte all'aborto - versano rispettivamente la gestante e chiunque altro commetta il reato.

  1. - Con ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 nel procedimento penale a carico di Lipizer Mario ed altri, imputati del delitto pluriaggravato di concorso in aborto di donna consenziente, il Giudice istruttore presso il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, terzo comma, della legge 194 del 1978, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost. La legge n. 194 è sopraggiunta nel corso dell'istruttoria formale. Le disposizioni in esame sono, rispettivamente, il comma primo e il comma terzo dell'art. 22; l'uno abroga espressamente l'intero titolo X del libro II del codice penale; l'altro detta un'apposita disciplina degli aborti di donna consenziente commessi prima dell'entrata in vigore della detta legge, e ne stabilisce la non punibilità, dove ricorrano le ipotesi, rispettivamente configurate, secondo il momento in cui è interrotta la gravidanza, dagli artt. 4 e 6 della stessa legge.

La questione è sollevata d'ufficio, con riguardo, appunto, a quest'ultimo comma dell'art. 22, e se ne assume l'evidente rilevanza. Il giudice a quo prospetta due possibili interpretazioni della norma censurata. Il sospetto di incostituzionalità, sussisterebbe comunque, ma per motivi diversi, secondo la lettura che voglia darsi della norma in questione.

  1. A) La prima tesi sarebbe, precisamente, quella di assumere che il legislatore, ponendo il terzo comma dell'art. 22, abbia inteso di abrogare l'art. 546 del codice penale, ma solo per l'avvenire, mentre l'abrogazione disposta in via generale per tutte le altre norme del titolo X sarebbe retroattiva. Chiunque avesse commesso il reato prima dell'entrata in vigore della presente legge sarebbe dunque giudicato secondo la norma dell'art. 546 del codice penale, sia pure modificata dalle condizioni di non punibilità introdotte nello stesso articolo 22. Il conferire "ultrattività" temporale all'abrogata norma incriminatrice non confliggerebbe necessariamente con l'art. 25 o altro disposto della Costituzione. Sennonché, essa implicherebbe pur sempre una deroga eccezionale al criterio della retroattività delle norme discriminatrici, consacrato nell'art. 2, secondo comma, del codice penale; deroga che si assume debba essere attentamente vagliata alla stregua dei principi costituzionali, e prima di tutto del principio di eguaglianza.

Ora, l'art. 3 Cost. risulterebbe vulnerato, nella specie, sotto un duplice riguardo. Gli autori del reato di aborto sarebbero senza alcuna apprezzabile giustificazione discriminati rispetto ai trasgressori di tutti gli altri precetti penali, con riguardo ai quali viene fatta operare la regola della retroattività della abolitio criminis. In secondo luogo, sussisterebbe un'irrazionale disparità di trattamento fra chi ha commesso il reato di aborto prima dell'entrata in vigore della presente legge, e chi invece lo commette dopo. La discriminazione, si deduce, concerne sia le cause di non punibilità, la cui sussistenza va accertata dal giudice solo se si tratta di fatti pregressi, laddove nessun controllo del genere è previsto con riferimento ai fatti compiuti sotto l'impero della nuova normativa; sia la definizione dell'illecito, che prima copriva qualsiasi modalità dell'aborto, ed ora si riduce all'inosservanza delle procedure intese a scongiurare il pericolo del fatto clandestino; sia, infine, il trattamento sanzionatorio, essendo la pena comminata dal codice sensibilmente più severa rispetto a quella che attualmente sanziona l'interruzione della gravidanza.

  1. B) L'altra possibilità dell'interprete, consiste nel ritenere, anche riguardo ai fatti pregressi - si dice -, che norma incriminatrice e sanzione siano collocate nell'art. 19. Così intesa, quest'ultima disposizione, che punisce l'infrazione della legge vigente, si connetterebbe funzionalmente con il terzo comma dell'art. 22: e per questa via verrebbe meno, quoad poenam, la discriminazione sopra denunciata. Sennonché, la pena sarebbe fatta scaturire da una norma successiva alla commissione del fatto. Si prospetterebbe, allora, quell'altro vizio di costituzionalità, che deriva dalla violazione del fondamentale ed inderogabile principio della irretroattività della legge penale, sancito nell'art. 25 Cost. Non varrebbe, poi, opporre ad una simile conclusione che la nuova norma è più favorevole al reo, rispetto al trattamento sanzionatorio prima disposto dal codice. Si assume infatti che il principio di irretroattività in materia penale sia assoluto e non ammetta deroghe. Comunque, il favor rei, che ispira il regime della successione delle leggi penali nel tempo, potrebbe tecnicamente operare solo in presenza di due norme, le quali puniscano - distintamente e successivamente, ma l'una e l'altra sempre e solo per il futuro - l'illecito oggetto delle rispettive previsioni: laddove nella specie si avrebbe una norma dettata al fine esclusivo di regolare gli aborti pregressi. In quanto, appunto, retroattivo, tale criterio di qualificazione del fatto come penalmente illecito offenderebbe il secondo comma dell'art. 25 Cost.

Il Presidente del Consiglio si è costituito in giudizio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato. La questione non sarebbe fondata e, anzitutto, non sarebbe nemmeno correttamente posta. Il giudice avrebbe infatti, dovuto individuare il contenuto della norma, che assumeva viziata, e prospettare conseguentemente l'incidente di costituzionalità; mentre egli chiama la Corte ad optare tra l'una e l'altra di due possibili questioni, risultanti rispettivamente dalle due interpretazioni alternative proposte con riferimento alla disposizione in esame. L'Avvocatura ritiene, dal canto suo, che la sanzione penale dei fatti pregressi stia nell'art. 19, primo e secondo comma della legge e, posto ciò, non ravvisa alcuna lesione dagli invocati parametri costituzionali: si nega, invero, che l'abrogazione non retroattiva del vecchio reato d'aborto, così com'è congegnata nella legge, discrimini ingiustificatamente chi ha commesso il fatto anteriormente. L'aborto continua ad essere considerato come penalmente illecito - si osserva - ma il fatto costitutivo del reato non è più lo stesso fatto contemplato dalla norma previgente. L'illecito configurato dal codice consiste nell'interruzione della gravidanza e nell'assenza delle situazioni necessitate, che ne escludono la punibilità; la legge vigente incrimina, invece, l'interruzione della gravidanza e l'inosservanza delle prescritte modalità procedurali. Vi sarebbe soltanto una coincidenza nell'entità delle pene che sanzionano il fatto pregresso e quello attuale. Ma questo sarebbe il risultato di una discrezionale scelta del legislatore, la quale, precisa l'Avvocatura, non può ritenersi irrazionale, giacché è infondata la pretesa che gli autori degli uni e degli altri fatti debbano sotto ogni residuo profilo soggiacere al medesimo trattamento penale. Né verrebbe in alcun senso investito l'art. 25, secondo comma, della Costituzione: le norme penali che si sono succedute nel tempo regolano illeciti diversamente atteggiati - si deduce anche qui - e non si potrebbe nemmeno dire che la norma pregressa sia meno favorevole di quella dettata per i fatti futuri.

  1. - Il Giudice istruttore del Tribunale di Salerno, con ordinanza emessa il 13 febbraio 1979, nel procedimento penale a carico di Anastasio Vittoria ed altri, ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 5, 8 e 19, primo, secondo e sesto comma, legge 194/78, in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 31, secondo comma, Cost. Contro la Anastasio si procedeva con istruzione formale, contestandole il reato previsto dal primo e sesto comma dell'art. 19 legge 194; contro la donna che aveva subito l'aborto si procedeva per il reato previsto dal secondo comma dell'art. 19.

La donna è gobba e sposata ad un ottantenne. Il Giudice istruttore osserva che dette circostanze le avrebbero fatto presumere il "serio" pericolo di un figlio deforme, e consigliato l'interruzione della gravidanza, anche per le illazioni e le chiacchiere che il caso poteva suscitare. Ricorrerebbero, dunque, le ipotesi previste dalla legge. Sennonché la mancata osservanza delle condizioni di cui agli artt. 5 e 8 non consentirebbe al giudice di dichiarare non punibile l'imputata per il reato ascrittole. Basta infatti che l'interessato non osservi una sola delle modalità previste - si deduce - perchè operi il disposto della legge. Di qui la sospettata incostituzionalità della norma in questione, la quale pur in presenza dei presupposti sostanziali dell'art. 4, punisce la inosservanza di modalità "burocratiche" (che non rispondono ad una effettiva esigenza di tutela dell'interesse da salvaguardare) mentre lascia impunita l'interruzione della gravidanza in difetto delle condizioni di cui all'art. 4, purché si siano osservate le dette modalità. Con ciò si vulnererebbero gli artt. 2 e 31, secondo comma, della Costituzione e si determinerebbe in pari tempo una ingiustificata diversità di trattamento in contrasto con l'art. 3 Cost.

Il giudice ritiene, infine, che punire l'aborto clandestino determini un'ulteriore violazione del principio di eguaglianza, discriminando sulla base delle loro opinioni le donne su cui l'aborto è avvenuto: a suo avviso ricorre all'aborto clandestino la gestante che giudica il fatto come moralmente riprovevole.

Interviene in giudizio il Presidente del Consiglio a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, la quale deduce l'irrilevanza della questione.

Ricorrendo nella specie la mancata osservanza delle modalità di cui agli artt. 5 e 8,il fatto che si persegue costituirebbe reato: sarebbe allora inutile discutere sui casi di non punibilità e, correlativamente, sulla mancanza di tutela del concepito.

Riguardo, poi, alla presunta violazione dell'art. 3, si assume che il complesso normativo oggetto della questione non sia irrazionale. Il legislatore avrebbe ritenuto di dover privilegiare il rispetto di una precisa procedura nella pratica abortiva al fine di assicurare l'equilibrata tutela degli interessi in gioco.

  1. - Con ordinanza emessa il 9 maggio 1979, nel procedimento penale a carico di Ligori Donato, il Pretore di Prato ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 legge 194/78 in riferimento all'art. 3 Cost.

Rileva il giudice a quo che il primo comma dell'art. 22 legge 194/78 ha abrogato, oltre al titolo X del codice penale, l'art. 583, primo comma, n. 3 e secondo comma, n. 5, e che le norme sanzionatrici dell'interruzione della gravidanza sono da individuare, ora, negli articoli dal 17 al 19 della legge; rileva inoltre che sotto il regime abrogato, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, codice penale, chi sulla base delle norme contenute negli artt. 590, 583, primo comma, n. 1 e secondo comma, n. 5, avesse cagionato colposamente l'aborto della persona offesa ed un'incapacità di questa ad attendere alle normali occupazioni per un periodo superiore ai quaranta giorni, era punibile con pena alternativa, aumentata fino ad un terzo, anche nella più grave ipotesi, prevista dall'art. 590. Si assume d'altra parte che tale pena alternativa venga ora ad applicarsi all'ipotesi, certamente non meno grave, di procurata incapacità di procreare, di cui all'art. 583, secondo comma, n. 3; l'aborto colposo è invece ora punito, ai sensi dell'art. 17 legge 194, con pena detentiva, mentre la lesione personale, che eventualmente assieme ad esso è procurata, è titolo autonomo di incriminazione. L'applicazione del primo comma dell'art. 81 codice penale sarebbe così solo eventuale, e dipenderebbe dalla volontà del giudice sanzionare con pena detentiva la lesione personale, dovendosi in caso contrario ritenere esclusa l'operatività della continuazione.

Il Pretore ne ricava, con riguardo a tale ultima ipotesi, che il medesimo fatto, nel caso previsto dal n. 1, primo comma, dell'art. 583, è punito con pene diverse e crescenti, se provoca rispettivamente incapacità di procreare, parto prematuro e interruzione della gravidanza; rileva inoltre il Pretore che non è ammessa in caso di procurato parto prematuro o interruzione della gravidanza, pena alternativa a quella detentiva, qualora vi sia stata violazione delle norme infortunistiche; le differenze di pene sarebbero irrazionali, ritenendo in particolare il giudice a quo la procurata incapacità di procreare reato più grave rispetto al procurato parto prematuro; contrasterebbe inoltre col principio di eguaglianza la norma prevista dall'art. 17, legge 194, nella parte in cui non prevede un regime legale di continuazione per l'ipotesi di concorso dell'aborto con le lesioni personali gravi o gravissime.

Sulla base di questi rilievi il giudice a quo solleva d'ufficio la suddetta questione di costituzionalità dell'art. 17, nella parte in cui punisce con la detenzione l'aborto colposo e il procurato parto prematuro colposo (ove, invece, il fatto colposo più grave, - secondo il giudice a quo, la procurata colposa incapacità di procreare, - è sanzionabile con pena alternativa), ma non prevede la figura del reato complesso di procurato aborto colposo e lesione personale grave o gravissima (a differenza di quanto previsto dal meccanismo dell'art. 18 per l'aborto procurato dolosamente) e consente perciò la non applicabilità della continuazione, venendo a sanzionare in modo sproporzionato ed irrazionale i responsabili degli anzidetti reati e riservando in particolare un trattamento sfavorevole per coloro che assieme alla lesione personale grave o gravissima, hanno colposamente procurato un aborto.

Si costituisce in giudizio il Presidente del Consiglio. L'Avvocatura dello Stato individua un duplice profilo, sotto il quale si prospetta la questione alla Corte, sebbene avverta che il provvedimento di remissione non sia di agevole lettura:

1) il punire la lesione personale, che abbia procurato l'aborto, con pena detentiva, laddove la lesione che abbia procurato l'incapacità di procreare è punibile con pena alternativa;

2) il punire in modo sproporzionato l'aborto colposo rispetto a quello doloso, e ciò anche per il fatto di non aver previsto la figura autonoma del reato complesso di aborto colposo e lesione personale ed impedito così l'applicabilità dell'istituto della continuazione.

Sennonché, prosegue l'Avvocatura, la questione è infondata, sia sotto il primo profilo, ricorrendo nella specie fatti colposi completamente diversi, sia sotto il secondo profilo, avendo in verità previsto il legislatore una pena notevolmente maggiore per soggetti colpevoli di aborto volontario, rispetto a quella prevista per i soggetti che hanno procurato l'aborto colposamente.

  1. - Nella memoria presentata in prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ribadisce, tracciandone la sintesi, le deduzioni svolte con gli atti di intervento nei giudizi in cui è denunziata l'illegittimità costituzionale delle norme poste con la legge n. 194 del 1978. In punto di rilevanza, si prospetta, sotto vario riguardo, l'inammissibilità delle dedotte questioni. L'eccezione riguarda, prima di tutto, i casi in cui si perseguono fatti compiuti dopo l'entrata in vigore dell'attuale normativa. Qui, a parte gli eventuali altri rilievi formulati con riguardo ad ogni singola specie, la irrilevanza della questione discenderebbe dall'assunto - ormai consolidato, si aggiunge, nella giurisprudenza della Corte: cfr. sentenza n. 85 del 1976, n. 26 del 1975, n. 62 del 1969, - secondo cui il precetto dell'art. 25, secondo comma della Costituzione, preclude alla Corte di emettere alcuna pronunzia che produca, nel processo pendente avanti al giudice a quo, effetti pregiudizievoli per l'imputato. Il divieto di aggravare il trattamento del giudicabile rispetto a quello disposto dalla norma regolatrice della specie vale - si deduce infatti - non solo per l'atto del legislatore, ma anche per l'atto in cui si concreta il sindacato di costituzionalità. Si eccepiscono, poi, altre ipotesi di irrilevanza anche là, dove la questione riguardi i fatti pregressi, oggetto di apposita previsione nell'art. 22, terzo comma, e nell'art. 4, ivi richiamato al fine di stabilire le relative cause di non punibilità. L'Avvocatura obbietta che in alcune delle ordinanze di rinvio sono state invece ingiustificatamente denunziate altre norme, diverse da quelle che avrebbero rilevato per la definizione della specie, o addirittura l'intero corpo della legge n. 194. Questo intento di dilatare la prospettazione del caso oltre gli evidenti confini della rilevanza giungerebbe al punto che in un'ordinanza, quella del Pretore di Città di Castello, la questione è stata sollevata anche quando, procedendosi contro ignoti, non vi era ancora un giudizio da definire.

Altre osservazioni concernono la fondatezza delle questioni in esame. Anzitutto, è individuato il contenuto delle situazioni contemplate, mediante il rinvio all'art. 4, nell'art. 22, terzo comma. Si tratterebbe, in ognuna di quelle situazioni, di un particolare stato di necessità giustificatrice, che rende eccezionalmente lecita la lesione di un bene giuridico altrui, operando oltre la sfera della comune causa di esclusione della pena stabilita nell'art. 54 del codice. La stessa Corte avrebbe con sentenza 27/75 indicato lo schema al quale la situazione necessitata, così intesa, può ridursi. Di esso offrirebbe un esempio non solo l'art. 384 c.p. (richiamato nella citata pronuncia della Corte), ma anche l'art. 242, secondo comma, c.p. (cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano): in questa ipotesi, come in quelle previste dall'art. 4, si avrebbe, infatti, una fattispecie di non punibilità, giustificata dalla causa generale di inesigibilità di un diverso comportamento, per la particolare situazione nella quale versa l'autore del fatto.

D'altra parte, le cause di giustificazione dell'aborto, sebbene latamente configurate, troverebbero sempre un idoneo addentellato nella ragione di necessità, del resto assunta come un più ampio criterio di inesigibilità della condotta rispetto allo stato di necessità in senso stretto. L'interruzione della gravidanza sarebbe infatti ammessa in quanto unico rimedio di un serio pericolo per la salute della gestante. Se, poi, nelle ordinanze di rinvio si eccepisce l'impossibilità di verificare la sussistenza delle condizioni in parola, come esse sono disegnate nella legge, ciò, si dice, è perchè si confonde tra causa ed effetto della situazione necessitata: effetto che verrebbe a concretarsi nel pregiudizio per la salute della donna - non importa se in relazione alla gravidanza ovvero anche al parto e alla maternità - indipendentemente dalle cause da cui è determinato, e dal tempo in cui insorge.

Altro punto considerato dall'Avvocatura è quello della pretesa incostituzionalità dell'iter procedurale che deve, secondo la nuova normativa, precedere l'intervento abortivo. Le modalità prescritte si riferiscono all'interruzione della gravidanza dopo l'entrata in vigore della legge. L'art. 4 ne detta (insieme con l'art. 5) la disciplina con riguardo alla prima fase della gestazione (la sola a venire in considerazione in tutti i giudizi da cui traggono origine le presenti questioni) ed è, d'altro lato, richiamato nella disposizione concernente i fatti pregressi, l'art. 22, terzo comma.

Il sistema così adottato dalla legge sarebbe, comunque, razionale ed esente dai vizi prospettati. In primo luogo, l'Avvocatura ritiene infondate le censure mosse alla disciplina degli aborti post legem: la serietà del pericolo che discrimina la punibilità del fatto, giustificherebbe il rilievo attribuito - in deroga al principio nemo iudex in causa sua - alla volontà della donna. Si assume invero che la stessa gestante sia, meglio di qualsiasi altro soggetto, capace di valutare l'incidenza della prosecuzione o dell'interruzione della gravidanza sulla propria salute, e specialmente su quella psichica: anche perchè, si soggiunge, essa è posta in grado di compiere una scelta informata e responsabile, grazie al conforto del parere medico nel corso della procedura. L'uso patologico della legge, che può al limite verificarsi, non dovrebbe offuscarne il chiaro spirito informatore; né potrebbe sussistere altro vizio di costituzionalità, solo che le norme in questione fossero - correttamente intese ed applicate. Parimenti ineccepibile sul piano della costituzionalità sarebbe il trattamento riservato ai fatti pregressi. La valutazione del fatto - in questo caso, a posteriori - ed il connesso accertamento delle condizioni di non punibilità non potevano, si dice, non essere affidate al giudice. L'avere istituito il suddetto controllo giudiziario non comporterebbe alcuna discriminazione tra fatti ante legem e fatti post legem che possa offendere il principio di eguaglianza, e comproverebbe d'altra parte che l'aborto non è, come si lamenta, liberalizzato, ma è reso lecito solo in presenza delle condizioni atte a giustificarlo, che la legge non ha mancato di identificare.

Infine, si esclude la pretesa irrazionalità del regime degli aborti pregressi, dove non risulti accertata la presenza delle situazioni necessitate di cui all'art. 4. Non in tutte le ordinanze di rinvio si adotta, a questo riguardo, il medesimo punto di vista, e l'Avvocatura ricorda i divergenti approcci del Tribunale di Trento e del Giudice istruttore del Tribunale di Trieste. Il primo di questi giudici nega la punibilità dei fatti in esame: ma una simile tesi sarebbe evidentemente contraddetta dal disposto del terzo comma dell'art. 22; il secondo ritiene la perdurante rilevanza penale del fatto, ma propone due possibili interpretazioni dell'art. 22, terzo comma, secondo che la sanzione dell'aborto pregresso venga fatta discendere ancora dalla previgente norma del codice, o sia invece ravvisata all'art. 19 della nuova legge, fermo restando, in quest'ultimo caso, che il precetto sia sempre quello contenuto nell'art. 22, terzo comma. Ora, chi ha potere di comando non è autorizzato ad immorare nella incertezza, ed il giudice a quo avrebbe dovuto, prima di sollevare la questione avanti la Corte, individuare senza margini di dubbio la norma che egli assume viziata. Ma né l'una né l'altra delle interpretazioni da lui prospettate sarebbero irrazionali.

L'Avvocatura, per parte sua, integra l'opinione espressa al riguardo nell'atto di costituzione in giudizio. Non sarebbe conforme alla tecnica e alla prassi della legislazione penale che la norma incriminatrice rimanga quella del codice e la sanzione stia, avulsa dal precetto, nella legge n. 194. Si imporrebbe allora una diversa e più razionale ricostruzione del dato normativo. Quella proposta nella memoria è la seguente. Gli illeciti pregressi e quelli attuali sarebbero diversi: non si tratta, semplicemente, di una mutata valutazione del fatto. Ma ciò non toglie, viene subito precisato, che la rilevanza dell'illecito pregresso sia stata mantenuta solo entro quei certi limiti che la legge ha stabilito in considerazione del nuovo assetto della materia. Precisamente, occorrerebbe tener conto del criterio secondo cui è attualmente considerato il contegno della gestante, senza trascurare, tuttavia, che l'aborto è reato plurisoggettivo autonomo (tutti gli agenti - il terzo e la donna - pongono in essere una condotta tipica in relazione alla norma incriminatrice principale, che si dirige contemporaneamente a più persone). Posto ciò, l'Avvocatura ritiene di dover scindere - sempre in ordine al fatto pregresso - la posizione del terzo e quella della donna: nel senso che permane la punibilità del terzo, salvo che sia accertata la sussistenza delle condizioni di cui all'art. 4 (e il residuare di questa più grave sanzione sarebbe quindi razionalmente compensata dalla contestuale previsione di una causa di non punibilità, che ha più ampi connotati dello stato di necessità ex art. 54 c.p.); mentre, pur in assenza delle suddette condizioni, non sopravvivrebbe la punibilità della donna che abbia consentito all'interruzione della gravidanza sotto l'impero del codice: risultato razionale anche questo, si conclude, dal momento che la valutazione delle situazioni necessitate non era allora consentita alla gestante dal bagaglio delle maggiori cognizioni mediche e socio - economiche poste a sua disposizione dal vigente sistema.

  1. - Il procedimento discusso all'udienza del 5 dicembre 1979 veniva rinviato a nuovo ruolo con ordinanza n. 145 del 1980 e ridiscusso all'udienza dell'8 gennaio 1981, nella quale l'Avvocatura dello Stato ha ribadito le conclusioni già rese, richiamandosi agli atti di costituzione e alle memorie.

Considerato in diritto

  1. - Nei giudizi dai quali trae origine la presente controversia si tratta, com'é spiegato in narrativa, di interruzioni volontarie della gravidanza, sia anteriori sia successive all'entrata in vigore della legge 22 maggio 1978, n. 194 ("Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"), compiute in ogni caso entro i primi tre mesi della gestazione. Occorre dunque, anzitutto, far cenno delle disposizioni normative che al riguardo vengono in considerazione.

La legge suddetta ha abrogato - con l'art. 22, primo comma - l'intero titolo X del libro II del codice penale ("Delitti contro l'integrità della stirpe"), dettando d'altra parte una nuova e compiuta disciplina dell'aborto. Nel sistema che ne risulta, l'interruzione volontaria della gravidanza è oggetto di un regime penale differenziato, secondo se essa abbia luogo nei primi tre mesi, o invece nel corso ulteriore della gestazione. Con riferimento alla prima ipotesi, l'art. 19 così testualmente dispone: "Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli artt. 5 e 8 è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire 100.000". L'art. 5 regola, dal canto suo, la procedura da osservare prima che la gravidanza possa essere lecitamente interrotta. La gestante promuove tale procedura, ex art. 4, accusando davanti a un consultorio pubblico, a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia, alcuna delle circostanze ivi elencate, in relazione alle quali può sussistere un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, che giustifichi l'intervento abortivo. Il consultorio o la struttura sanitaria provvedono ai necessari accertamenti medici e a vari adempimenti. Così, essi valutano le possibili soluzioni del caso insieme con la donna e, dove essa lo consenta, con chi è indicato come padre del concepito, nel rispetto della riservatezza e dignità degli interessati; aiutano la gestante a rimuovere le cause che potrebbero condurla all'interruzione della gravidanza; la mettono in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, e le offrono altro ausilio durante la gravidanza e dopo il parto. Analoghi compiti sono affidati al medico di fiducia. Quando quest'ultimo, o il medico del consultorio, o quello della struttura socio-sanitaria, abbia accertato l'urgenza dell'intervento, egli ne dà immediata attestazione con un certificato, che abilita la donna al ricovero e all'aborto presso una sede autorizzata. Dove non sussista l'urgenza, e la gestante tenga tuttavia ferma la richiesta di abortire, il medico le rilascia copia di un documento, comprovante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, firmato anche dalla donna. Questa è quindi invitata a soprassedere per sette giorni. Trascorso detto periodo, essa può ottenere l'interruzione della gravidanza sulla base del documento rilasciatole. L'art. 8 stabilisce, poi, da quali medici e presso quali cliniche, ospedali ed istituti l'intervento debba essere praticato.

La normativa fin qui descritta concerne l'interruzione della gravidanza dopo l'entrata in vigore della legge n. 194. Quanto ai fatti pregressi, soccorre la seguente disposizione del terzo comma dell'art. 22: "Salvo che sia stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste" - rispettivamente, conviene aggiungere, per il primo trimestre e per il successivo periodo del processo gravidico - "dagli artt. 4 e 6". Il rinvio all'art. 4 serve così, nel nostro caso, a configurare come cause di non punibilità degli aborti anteriormente commessi quelle stesse condizioni, nelle quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità integrerebbero gli estremi del serio pericolo per la salute della gestante, com'è attualmente previsto nella disposizione richiamata: in relazione, cioè, allo stato di salute della donna, alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie e malformazioni del concepito.

Ora, i giudizi promossi con le ordinanze in epigrafe possono, data la sostanziale identità delle questioni, essere riuniti e congiuntamente decisi. Va peraltro rilevato che essi investono la disciplina dell'interruzione volontaria della gravidanza - infratrimestrale, beninteso - con riguardo sia ai fatti futuri, sia a quelli pregressi. E, allora, sotto questo duplice profilo della specie che le censure formulate nei provvedimenti di remissione vengono a prospettarsi.

2 a. - L'art. 19, primo e secondo comma, è impugnato dal Pretore di Genova, dal Pretore di Città di Castello e dal Giudice istruttore del Tribunale di Salerno (registro ordinanze 400/79). Nelle relative ordinanze di rinvio sono delineate varie ipotesi di illegittimità costituzionale.

  1. a) L'art. 19, in relazione agli artt. 5 e 8, offenderebbe il principio costituzionale di eguaglianza. I rilievi dedotti su quest'assunto sono i seguenti:

a 1) la sanzione prevista per il fatto della gestante - affermano i Pretori di Città di Castello e di Genova - è ingiustificatamente più lieve rispetto a quella comminata per chiunque altro cagioni l'interruzione della gravidanza, laddove identico, nei due casi, sarebbe il bene oggetto della tutela penale;

a 2) il Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno osserva che, se da un canto difetta la previsione di qualsiasi accertamento circa l'effettiva sussistenza delle cause che escludono la punibilità dell'aborto, dall'altro basta ad integrare l'illecito un'interruzione della gravidanza che sia praticata senza il rispetto di una qualsiasi delle prescritte modalità: posto ciò, sarebbe irrazionale punire chi, pur versando nelle situazioni richieste dalla legge, manca di ottemperare ad adempimenti procedurali (peraltro, si dice, meramente burocratici), mentre, solo che siano adempiute simili formalità, si lascia impunito, con il risultato di offendere anche gli artt. 2 e 31 Cost., chi commette il fatto fuori dalle condizioni atte ad escluderne la punibilità. Sempre ad avviso di questo giudice, le gestanti sono ulteriormente discriminate sulla base dei propri convincimenti di ordine morale, che potrebbero indurre all'aborto clandestino quante fra di esse giudicano il fatto come moralmente riprovevole e non intendono esporsi all'espletamento delle procedure stabilite dalla legge.

  1. b) L'art. 19, sempre in relazione all'art. 5, confliggerebbe altresì con il principio di stretta legalità che, secondo l'art. 25, secondo comma, Cost. e l'art. 1 codice penale, governa la definizione dell'illecito penale. La norma incriminatrice, si dice, opera attraverso il rinvio all'art. 5, ma tale disposizione contiene solo enunciazioni programmatiche o definisce altrimenti con formule generiche le modalità, la cui inosservanza costituisce reato. Difetterebbe quindi un'adeguata individuazione delle condotte perseguibili nonché degli stessi possibili autori del fatto, inclusi nella indifferenziata categoria del personale chiamato ad espletare la procedura abortiva.
  2. c) Nelle ordinanze di rinvio dei Pretori di Genova e di Città di Castello l'art. 19 è censurato anche in relazione all'art. 4, che si assume strettamente connesso con la disposizione incriminatrice dell'aborto e, del resto, con larga parte della disciplina dettata dalla legge n. 194. Sarebbero violate le norme costituzionali che si ritengono poste a salvaguardia della vita umana, fin dal concepimento: gli artt. 2 e 32, primo comma, oltre agli artt. 29, secondo comma, 30, 31, secondo comma, Cost. I parametri invocati esigerebbero che la tutela del concepito ceda solo di fronte all'accertata grave incidenza del compimento della gestazione sullo stato di salute della madre. Sennonché questo indefettibile requisito della liceità penale dell'aborto non sarebbe soddisfatto dalle norme censurate: sia perchè, si osserva, l'interruzione della gravidanza è consentita oltre la sfera dell'indicazione terapeutica, sia perchè non è previsto alcun controllo medico sull'effettiva sussistenza del serio pericolo per le condizioni della gestante, che l'art. 4 configura.

2 b. - Dal Pretore di Città di Castello e dal Pretore di Prato si denunzia, altresì, l'art. 17, che ha introdotto nella vigente normativa il delitto dell'aborto colposo anche fuori dei casi di lesione personale gravissima. Nell'una e nell'altra ordinanza si assume la violazione dell'art. 3 Cost.; l'aver creato questa nuova figura di reato, in una legge volta invece, nel suo complesso, a liberalizzare l'aborto, implicherebbe, nel medesimo contesto normativo, una irrazionale disparità di criteri di valutazione del medesimo fatto. Si lamenta inoltre che l'aborto colposo sia sanzionato in misura sproporzionata rispetto a quello doloso: anche per la considerazione, si aggiunge, che è prevista un'autonoma fattispecie del reato complesso di aborto colposo e di lesione personale, ed è quindi preclusa l'applicabilità dell'istituto della continuazione. Per altro verso, offenderebbe il principio di eguaglianza il punire la lesione personale, che abbia procurato l'aborto, con pena detentiva, quando la lesione che abbia procurato la incapacità di procreare è punita con pena alternativa.

  1. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce in varia guisa l'inammissibilità delle questioni sollevate con riguardo all'anzidetta disciplina. Alcune eccezioni sono proposte in via generale per tutti i casi ora considerati. Altre contestano l'ammissibilità della questione nel singolo procedimento penale di cui è investito il giudice a quo.

La Corte, dal canto suo, deve preliminarmente osservare che il Pretore di Prato trascura di far cenno del caso di specie, e che il Pretore di Città di Castello ha ritenuto di poter sollevare l'incidente di costituzionalità quando, procedendosi contro ignoti, non erano nemmeno identificate le donne su cui sarebbero stati praticati gli atti abortivi, né delineati gli estremi oggettivi dei comportamenti incriminati. Nell'uno caso la rilevanza non è minimamente motivata, e nell'altro essa evidentemente non sussiste: la questione è, quindi, inammissibile. Altrettanto va detto con riguardo all'ordinanza del Pretore di Genova. Con ciò restano assorbiti i rilievi formulati, in punto di ammissibilità, dall'Avvocatura dello Stato: sia sotto il profilo che, ricorrendo nella specie gli estremi del reato, sarebbe inutile censurare ipotesi di non punibilità del fatto, come si fa nelle ordinanze in esame, con il dedurre la mancata tutela del concepito; sia sotto il profilo che ad un'eventuale pronuncia di accoglimento non potrebbe nel nostro caso conseguire - in virtù dell'art. 25, secondo comma, Cost. - alcun effetto di minor favore per il giudicabile.

Resta, poi, da considerare l'ordinanza di rinvio del Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno (n. 400/79). La questione, in sostanza, è ivi così prospettata: si assumono lesi, ad un tempo, sia l'art. 3 Cost., per l'asserita discriminazione a danno di chi, come l'imputata nella specie, manca di osservare le modalità prescritte dagli artt. 5 e 8 della legge, ma ciò, quando ricorrano le condizioni dell'art. 4; e gli artt. 2 e 31 Cost., in quanto, si afferma, l'interruzione della gravidanza è configurata come penalmente lecita in presenza di un mero requisito formale - l'osservanza delle suddette modalità - a prescindere dalla sussistenza delle condizioni che dovrebbero legittimare sostanzialmente il fatto.

Sennonché, in questa prospettiva, la questione deve ritenersi irrilevante, per un duplice ordine di considerazioni. Da un canto, la situazione di chi abbia commesso il fatto fuori dalle ipotesi giustificative stabilite dall'art. 4, rimane evidentemente estranea alla fattispecie sottoposta all'esame del giudice a quo. Dall'altro, la declaratoria di incostituzionalità - che fosse resa in conseguenza dell'accertata violazione degli artt. 2 e 31 Cost., come dedotta nell'ordinanza di rinvio - implicherebbe l'assoggettamento a pena di chi, appunto, versa nella situazione sopra descritta. Ora una simile pronunzia - a parte il rilievo che l'art. 25, secondo comma, Cost. preclude ogni decisione dalla quale discendano effetti sfavorevoli per il giudicabile - non condurrebbe comunque, sotto il profilo del rispetto del principio di eguaglianza, al risultato, in vista del quale la questione è stata sollevata: quello, cioè, di pronunciare una sentenza di assoluzione nel caso di specie.

  1. - In altra serie di ordinanze di rinvio, com'è stato premesso, la questione è posta con riferimento al regime dei fatti pregressi. Si tratta, precisamente, dei provvedimenti emessi dal Tribunale di Pesaro, dal Tribunale di Trento, dal Tribunale di Voghera, dalla Corte d'appello di Firenze, dal Tribunale di Larino, dal Giudice istruttore del Tribunale di Trieste e dal Giudice istruttore del Tribunale di Salerno (registro ordinanze 537/78).

Le censure di questi giudici cadono tutte sull'art. 22, terzo comma, in relazione all'art. 4; ed in alcuni casi, com'é di seguito precisato, anche su altre disposizioni della legge. L'illegittimità costituzionale del terzo comma dell'art. 22, è argomentata in vario senso. Peraltro, si deve avvertire, non vi è alcuna consolidata interpretazione giurisprudenziale della norma in esame. Le ricostruzioni esegetiche che di essa si propongono nelle ordinanze non sono, d'altronde, concordi: ed è qui, anzi, il primo punto che spetta ora alla Corte di considerare, dal momento che esso incide sulla prospettazione dei vizi denunciati, e sull'estensione che si vorrebbe attribuire agli effetti di un'eventuale pronunzia di accoglimento.

Il Tribunale di Trento non ravvisa nel testo censurato alcun utile congegno normativo. Stando al tenore letterale della disposizione, si dice, l'aborto pregresso dovrebbe essere punibile quando non risulti accertata la sussistenza delle condizioni stabilite nell'art. 4. Tuttavia, il fatto non potrebbe nemmeno allora ricadere nell'ambito di alcuna norma punitiva: né dell'art. 19, che incrimina l'inosservanza delle modalità introdotte dalle nuove norme ed è quindi evidentemente inapplicabile agli illeciti in precedenza commessi; né della previgente norma del codice, che si assume rimossa, senza salvezza di ulteriori effetti, dalla clausola abrogativa posta nel primo comma dell'art. 22: sulla quale ultima il legislatore avrebbe fatto leva per sostituire al regime del codice una nuova ed organica disciplina della materia. Dopo di che, si deduce che l'incostituzionalità dell'anzidetta norma abrogante debba, a sua volta, implicare quella della legge n. 194, nella sua inscindibilità ed interezza. Si afferma infatti che la normativa subentrata al soppresso titolo del codice penale abbia eliminato la tutela del concepito, vulnerando l'inviolabile diritto alla vita, quale scaturirebbe dall'art. 2 Cost.

Secondo il Tribunale di Pesaro, d'altra parte, il terzo comma dell'art. 22 conferisce perdurante rilevanza penale all'aborto di donna consenziente compiuto sotto l'impero della norma incriminatrice del codice, che reca tale testuale rubrica del reato (l'art. 546). Il fatto non sarebbe punibile, solo se il giudice accerta che, al momento della sua commissione, sussistevano le condizioni ora previste nell'art. 4; mentre la sanzione, da applicare dove non risulti accertata la presenza di dette condizioni, andrebbe, in mancanza di contraria statuizione espressa, ricavata dall'art. 19 della vigente legge, dovendo l'art. 546 del codice ritenersi abrogato, insieme con le altre disposizioni del titolo X, in forza del primo comma dell'art. 22.

La Corte d'appello di Firenze, per parte sua, prescinde dall'indagare se la sanzione comminata nella specie sia quella prevista dall'art. 19 con riguardo agli illeciti commessi dopo l'entrata in vigore della legge, o se invece essa stia ancora nell'art. 546 del codice: sul presupposto, allora, che tale ultima disposizione sia stata compiutamente eccettuata, con il precetto e con la sanzione in essa contenuti, dall'abrogazione espressamente disposta, mediante il primo comma dell'art. 22, per tutto il titolo concernente i delitti contro l'integrità della stirpe. Si assume, comunque, che il terzo comma dell'art. 22 faccia perdurare in vigore il precetto del codice, ancorché ne abbia operata una parziale abrogazione implicita, configurando come cause di non punibilità del fatto pregresso le condizioni stabilite nell'art. 4. Queste andrebbero poi - a meno di non determinare un'ingiustificabile disparità fra il trattamento del reo anteriore all'attuale legge e quello sopravvenuto - necessariamente intese in conformità di quel principio dell'autodeterminazione della gestante che, si aggiunge, emerge appunto dall'art. 4, e del resto informa l'intero nuovo assetto dato alla materia dall'attuale legge. Ora, sarebbe l'asserito, penetrante riflesso di questo principio sulla larga ed elastica definizione delle ipotesi in cui l'aborto è reso non punibile, a comprimere l'area dell'illecito, oltre i limiti consentiti dalla Costituzione, e altresì definiti dalla Corte con sentenza n. 27 del 1975. In conseguenza, è denunziata dalla Corte d'appello di Firenze, e ad egual titolo dal Tribunale di Pesaro, la violazione dei precetti costituzionali che si assume tutelino la sfera del nascituro: o direttamente, con il sancire il diritto alla vita e alla salute dell'individuo, seppure non ancora persona nel senso del diritto privato (art. 2, secondo comma, Cost.) o mediamente, col proteggere la maternità (art. 31, secondo comma, Cost.), e con l'imporre ai genitori il dovere di mantenere i figli e dunque, si dice, a maggior ragione, di tenerli in vita (art. 30, primo comma, Cost.).

L'aver ammesso la liceità dell'aborto, in funzione della volontà della gestante, anche là, dove la tutela del feto sarebbe inderogabile, viene, secondo questi giudici, ad offendere altri valori e interessi costituzionalmente garantiti: così, l'interesse del genitore maschio, tutelato ex art. 31, primo comma, Cost., alla formazione della famiglia, e l'eguaglianza dei genitori legati dal vincolo matrimoniale, sancita dall'art. 29, secondo comma, Cost., che sarebbe vuluerato per la mancata previsione dell'obbligo di consultare il padre del concepito nel corso della procedura abortiva. Nel forinulare queste censure la Corte di Firenze impugna - assumendone la stretta connessione con i disposti degli artt. 22 e 4 - anche gli artt. 5, terzo e quarto comma, e 8, settimo comma. Il Tribunale di Pesaro denuncia anch'esso l'art. 5, e avanza altresì l'ipotesi che i vizi dedotti investano, oltre le norme indicate nel dispositivo, gli articoli dall'8 al 21, che caratterizzano, a suo avviso, l'intera legge. Spetterebbe d'altronde alla Corte, una volta ritenuta la fondatezza delle questioni, stabilire se l'illegittimità degli articoli da ultimo richiamati vada dichiarata ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della legge n. 87 del 1953.

Si limitano invece ad impugnare l'art. 4, sempre in relazione all'art. 22, le più succinte ordinanze dei Tribunali di Voghera e Larino e del Giudice istruttore del Tribunale di Salerno. I parametri qui invocati sono, sempre per i motivi visti sopra, gli artt. 2 e 31, secondo comma, Cost.; e a questi si aggiungono i precetti del primo e del secondo comma dell'art. 3 Cost. Il Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno sospetta, invero, una duplice violazione del principio di eguaglianza. Vi sarebbe, per un verso, un'ingiustificata differenza di discipline, disposta dalle norme che puniscono l'aborto, rispettivamente nei primi tre mesi e nel corso ulteriore della gestazione, sebbene la vita del concepito esiga secondo Costituzione eguale tutela, quale che sia lo stadio in cui la gravidanza è interrotta; d'altro lato, incluse ex art. 4 le condizioni sociali e familiari fra quelle che possono giustificare l'aborto, il legislatore avrebbe, invece che attuato, disatteso l'obbligo di rimuovere gli ostacoli della eguaglianza fra i cittadini, gravante sugli organi pubblici in virtù del secondo comma dell'art. 3.

Infine, il Giudice istruttore presso il Tribunale di Trieste denunzia l'art. 22, terzo comma, da un diverso angolo visuale, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., e prospetta, come possibili in via alternativa, le seguenti due interpretazioni della norma censurata:

  1. a) La prima ipotesi avanzata nell'ordinanza è che la norma incriminatrice del codice sia abrogata solo irretroattivamente, e continui dunque ad applicarsi ai fatti commessi prima dell'abrogazione, modificata, tuttavia, dalle condizioni di non punibilità previste dall'art. 22, mediante il richiamo dell'art. 4. In tal caso, risulterebbe, però, ingiustificatamente derogato il disposto dell'art. 2, secondo comma, codice penale, che prescrive la retroattività dell'abolitio criminis. Da ciò si fa discendere la violazione del principio di eguaglianza, sotto un doppio riflesso: l'autore del reato di aborto verrebbe discriminato rispetto a chi abbia commesso qualsiasi altro reato, poi abrogato, in conformità del codice, retroattivamente; chi ha commesso il fatto prima che entrasse in vigore l'attuale normativa soggiacerebbe ad un trattamento meno favorevole - quanto al contenuto sostanziale del precetto punitivo, e all'entità della relativa sanzione - rispetto a chi commetta l'illecito configurato nell'art. 19 della legge;
  2. b) l'altra possibilità dell'interprete, si dice poi, è quella di assumere un collegamento funzionale dell'art. 22, terzo comma, con l'art. 19: nel senso che in quest'ultima disposizione, la quale punisce l'infrazione della legge vigente, sarebbero collocate anche la norma incriminatrice e la sanzione dei fatti pregressi.

Adottando un tal punto di vista - precisa il giudice a quo - viene, si, fatta cadere, quoad poenam, la diseguaglianza denunziata sub a). D'altra parte, si giunge a postulare la punizione retroattiva del fatto, che sarebbe riassunto sotto la previsione di una legge sopravvenuta. Di qui la lamentata lesione dell'art. 25, secondo comma, Cost. Alla conclusione testè prospettata non si potrebbe, poi, nemmeno opporre che la nuova legge incriminatrice è più favorevole al reo, e in quanto tale estensibile alla specie ai sensi dell'art. 2, terzo comma, del codice penale. Il principio di irretroattività della norma penale - viene infatti dedotto - non è suscettibile di alcuna deroga. A parte questo, la suddetta regola della successione delle leggi penali nel tempo risulterebbe compatibile con la Costituzione, solo se intesa nel senso che la legge posteriore alla commissione del fatto sub iudice, e più favorevole al reo, sia, essa medesima, posta nel rispetto del principio di irretroattività, al fine di prevedere e sanzionare penalmente gli illeciti commessi dopo la sua entrata in vigore: mentre, si osserva, il terzo comma dell'art. 22 è appositamente dettato per disporre solo il trattamento dei fatti commessi in precedenza.

5.1. - Per le considerazioni che seguono, la questione è inammissibile anche in relazione ai fatti pregressi.

In taluni provvedimenti di remissione difetta qualsiasi indicazione in ordine alle circostanze di fatto e alla rilevanza dei dedotti vizi di illegittimità: così nelle ordinanze emesse dai Tribunali di Larino e di Voghera. L'incidente di costituzionalità promosso dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Salerno (registro ordinanze 537/78) non è motivato da alcun apprezzamento, sempre in punto di rilevanza. Ancora: il Giudice istruttore presso il Tribunale di Trieste assume la evidente rilevanza dell'una e dell'altra questione che egli propone, secondo le due interpretazioni alternative sopra riferite, alle quali si presterebbe il dettato dal terzo comma dell'art. 22. Per vero, egli muove dal presupposto, solo ipotetico, che nella specie difettassero le cause di non punibilità del fatto, stabilite dall'art. 4. Sennonché - premesso che ad avviso dei sanitari l'aborto era stato imposto dalla necessità di scongiurare un grave pericolo per la salute della gestante - il giudice a quo nulla osserva, al riguardo, per parte sua. La rilevanza è dunque apoditticamente affermata.

Altra figura di irrilevanza sussiste, poi, nelle ordinanze che ora residuano all'esame della Corte. In esse, come ritiene l'Avvocatura, si affacciano infatti ultronee censure, concernenti disposizioni diverse dall'apposita norma che contempla i fatti pregressi nel terzo comma dell'art. 22, e rinvia, per quanto riguarda le condizioni di non punibilità, alle previsioni dell'art. 4. Così, in primo luogo, è da ritenere per l'ordinanza con la quale il Tribunale di Trento denunzia l'incostituzionalità dell'intera legge n. 194. Ora, se la questione abbraccia qui tutto il corpo della normativa, è perchè il giudice a quo, com'è sopra spiegato, non attribuisce sostanza precettiva o sanzionatoria al terzo comma dell'art. 22, escludendo, in ogni caso, la punibilità del fatto pregresso; e perchè, d'altra parte, egli ravvisa nel primo comma di detta disposizione, che ha espressamente abrogato per intero il citato titolo del codice penale, "la chiave di volta" della sostituzione del nuovo al previgente regime dell'interruzione volontaria della gravidanza. Solo per questa via, invero, si giunge a prospettare il vizio, che dovrebbe, per l'asserito contrasto con l'art. 2 della Costituzione, inficiare l'attuale legge nella sua interezza: vizio, si deduce, necessariamente implicato, per un verso nell'inscindibilità delle disposizioni liberalizzatrici dell'aborto durante il primo trimestre della gravidanza, per l'altro nell'ingiustificato aggravamento della disciplina, che risulterebbe da un'eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle anzidette disposizioni, rispetto alla rimanente normativa, posta con riferimento all'ulteriore corso della gestazione. Sennonché, il ragionamento che serve a dilatare la prospettazione del caso è contraddetto, alle basi, dalla lettera e dall'evidente intento del terzo comma dell'art. 22. Ivi si statuisce che il fatto pregresso non è punibile, se risulta accertata la sussistenza delle condizioni all'uopo stabilite. Il che significa che, altrimenti, il fatto è punibile. Questo, intanto, è fuor di dubbio. All'interprete rimane solamente da individuare la sanzione, che non è testualmente indicata dalla disposizione in esame, come del resto, hanno, sia pure con vario risultato, assunto tutti gli altri giudici, nell'investire la Corte del presente giudizio.

Egualmente irrilevanti sono le censure mosse dal Tribunale di Pesaro nei confronti dell'art. 5 (nella parte motiva dell'ordinanza è detto, peraltro, che i dubbi avanzati in ordine alla legittimità costituzionale di questa disposizione si estendono ai rimanenti articoli, dall'8 al 21, che contengono principi qualificanti "l'intera legge"); nonché quelle formulate dalla Corte d'appello di Firenze con riguardo agli artt. 5, terzo comma, e 8, ultimo comma, in modo da investire le disposizioni - concernenti alcune i fatti pregressi, altre i fatti attuali - le quali avrebbero per comune matrice l'innovatore principio dell'autodeterminazione della gestante. Identica, a maggior ragione, è la conclusione, se si guarda all'ipotesi - delineata, questa volta, dal solo Tribunale di Pesaro - che anche la disciplina dell'aborto dopo i primi novanta giorni di gestazione risulti affetta da un vizio di illegittimità conseguenziale, del quale la Corte potrebbe conoscere ai sensi del secondo comma dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953. Del resto, questa rilevanza, asserita sulla base del rapporto ora di connessione, ora di dipendenza, che sussisterebbe tra la norma regolatrice della specie e le altre attratte nella censura, nel nostro caso non viene comunque in considerazione. La questione, com'è posta dai due suddetti giudici, non può, invero, ritenersi ammissibile, nemmeno con riferimento al disposto del terzo comma dell'art. 22. Soccorre al riguardo l'esame di quel che nelle relative ordinanze si deduce, sotto il profilo ora considerato.

5.2. - Un'eventuale pronunzia di accoglimento - afferma il Tribunale di Pesaro - rileverebbe nella specie, qualunque sia la conseguenza che possa risultarne: il "vuoto legislativo" in materia di aborto, se si assume che detta pronunzia lasci sussistere l'effetto abrogante della norma incriminatrice posteriore, dichiarata illegittima; ovvero la reviviscenza dell'abrogata norma del codice, se invece si assume la caducazione anche di quest'ultimo effetto, come indistintamente di tutti gli altri, della norma sopravvenuta.

Ad avviso della Corte di appello di Firenze, il venir meno di una norma penale, conseguente ad una pronunzia di incostituzionalità, è fenomeno diverso dalla successione delle leggi penali nel tempo. La pronunzia che dichiari l'illegittimità di una legge abrogativa di altra legge penale, non solleva - spiega il giudice a quo - questioni di stretta legalità in relazione all'art. 1 del codice penale e all'art. 25, secondo comma, Cost. Non vi sarebbe, anzi, nemmeno la reviviscenza, in senso stretto, delle norme abrogate, sopravvenendo la pronunzia della Corte solo per accertare l'inapplicabilità al giudizio in corso di una norma "apparentemente valida, ma, invece, viziata di invalidità fin dall'origine". Di qui il convincimento che, nella specie, l'effetto della eventuale pronunzia di accoglimento debba concretarsi nel rendere applicabile agli imputati la norma incriminatrice del codice: "con le modifiche introdotte nella sentenza n. 27 del 1975 della Corte costituzionale" - come si afferma - "ma senza più alcuna influenza delle condizioni e situazioni previste dalla nuova disciplina di cui alla legge n. 194".

Nessuna delle ipotesi così delineate vale, però, a giustificare la rilevanza della proposta questione. Dai giudici anzidetti si prospetta una dichiarazione di incostituzionalità, che colpisca la norma abrogatrice della previgente disciplina. E con ciò - dato che si assume comunque la perdurante rilevanza penale dell'aborto di donna consenziente - si fa, propriamente, riferimento alla "parziale abrogazione implicita", qual è puntualizzata dalla Corte di appello di Firenze: per modo che si confina l'effetto ablativo, prodotto dalla norma sopravveniente, entro i limiti in cui l'anteriore norma del codice risulterebbe modificata, attraverso il richiamo delle condizioni previste nell'art. 4. Essendo la rilevanza motivata nei termini sopra riferiti, ne risulta che la Corte verrebbe, con un'eventuale pronuncia di accoglimento, ad espungere dal terzo comma dell'art. 22 il solo richiamo all'art. 4 della legge: per la parte, occorre precisare, in cui tale norma eccede le previsioni giustificative dell'aborto, quali sono state fissate, in relazione al disposto dell'art. 546 del c.p., nella sentenza n. 27 del 1975. Nell'art. 4 è infatti contenuta la disposizione denunziata come lesiva della tutela del concepito, per la lamentata larghezza e genericità delle ipotesi giustificative del fatto, disegnate nell'art. 4, si soggiunge, in funzione del subiettivo apprezzamento che di esse compie, secondo legge, la stessa gestante. La tesi è svolta e chiarita, con l'affermare che l'interruzione volontaria della gravidanza va discriminata, diversamente da come ora si prevede, quando il compimento della gestazione (non anche la futura maternità) rappresenta, per la vita o la salute della donna, un pericolo grave (non, soltanto, serio), obbiettivamente accertabile alla stregua di nessun'altra indicazione, fuori che quella terapeutica. E si aggiunge che, così configurata, la disciplina penale dell'aborto riesce a conciliare gli interessi costituzionalmente garantiti da un canto alla madre, dall'altro al concepito.

I vizi che si censurano sarebbero dunque rimossi, una volta soddisfatti i requisiti sopra richiamati.

Ora, riguardo all'ipotesi del vuoto legislativo, avanzata dal Tribunale di Pesaro, deve subito dirsi che, se la questione fosse ritenuta fondata, l'illiceità penale del fatto, lungi dall'espandersi ad altre aree della previsione normativa, verrebbe semmai, per le ragioni sopra esposte, del tutto eliminata. D'altra parte, non ha miglior fondamento l'altra ipotesi che il Tribunale di Pesaro configura, quando esso assume che la dichiarazione di illegittimità costituzionale possa nel caso in esame condurre alla reviviscenza dell'abrogata disposizione incriminatrice del codice. Né si può ritenere, con la Corte d'appello di Firenze, che la prospettata pronunzia della Corte, accertando l'invalidità della norma abrogante fin dall'origine, consentirebbe l'applicabilità agli imputati della norma del codice, in quanto mai (validamente) abrogata, e nel contenuto risultante della sentenza n. 27 del 1975. Nelle ordinanze in esame si trascura, invero, che un'eventuale pronuncia di fondatezza inciderebbe - nei limiti sopra precisati, e senza toccare gli effetti abrogativi della vigente normativa - soltanto sulla statuizione introdotta, con il rinvio all'art. 4, nel terzo comma dell'art. 22. Non si considera, inoltre, che - circoscritta la dichiarazione di illegittimità costituzionale come si è detto - residuerebbe, tuttavia, l'altra disposizione, che è parte integrante del testo normativo oggetto di censura, e nella quale si richiamano le condizioni previste nell'art. 6. Né, infine, si pone mente al disposto di questa ultima norma, che è il seguente: "L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

  1. a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  2. b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna". Epperò - una volta soppresso, s'intende, il riferimento alla fase infratrimestrale della gravidanza - le condizioni di non punibilità dell'aborto qui configurate rispondono sostanzialmente ai criteri che nelle ordinanze in esame si assume debbano sempre e comunque governare l'interruzione volontaria della gravidanza. Così, in definitiva, il problema che si pone all'attenzione della Corte è quello di estendere la previsione dell'art. 6 all'ambito in cui, altrimenti, opererebbe il distinto ed autonomo regime, disposto per i primi novanta giorni della gravidanza. Tale risultato non si consegue, tuttavia, senza un riassetto della vigente normativa: la quale, si è già detto, attribuisce all'interruzione volontaria della gravidanza diverso rilievo, secondo la fase della gestazione. Questa scelta del legislatore è alla base della disciplina introdotta con la legge n. 194, e si riflette anche sul terreno del presente giudizio, dal momento che è previsto un duplice ordine di condizioni, la cui sussistenza, rispettivamente nel primo trimestre e nel rimanente corso della gravidanza, va accertata dal giudice, prima di escludere la punibilità del fatto pregresso. Un'eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe, allora, la conseguenza di innovare la sistemazione normativa del caso di specie, riconducendone il trattamento dall'uno all'altro dei suddetti criteri, appositamente adottati nel distinguere le due fasi della gestazione. Il che, va aggiunto, implicherebbe l'insorgenza, nel contesto della normativa censurata, di una regola incriminatrice, appunto, nuova, rispetto ai casi in cui l'interruzione della gravidanza - sempre che si osservino le prescritte modalità - è ora penalmente lecita. Se, poi, si ritiene che la sanzione dei fatti pregressi sia quella comminata dall'art. 19, e si assume altresì che la dichiarazione di illegittimità renderebbe applicabili al nostro caso le disposizioni in tale articolo dettate per punire l'interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si delinea anche un eventuale aggravamento della pena. Ma in ogni caso la Corte non può pronunziare alcuna decisione, dalla quale derivi la creazione - esclusivamente riservata al legislatore (cfr. sentenza 42/77) - di una nuova fattispecie penale.

Ad imporre la suddetta conclusione è, dunque, il precetto dell'art. 25, secondo comma, Cost. La questione è inammissibile, perchè ne preclude l'esame il principio di legalità, sancito nel codice e consacrato nella Carta repubblicana, come fondamentale valore dello stato di diritto, ancor prima del principio di irretroattività della legge penale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della legge 22 maggio 1978, n. 194 ("Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza") sollevate con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 29, secondo comma, 30, primo e secondo comma, 31 e 32 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 25 giugno 1981.