SENTENZA N. 91
ANNO 1972
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell'art. 5 della legge 25 febbraio 1963, n. 289 (modifiche alla
legge 8 gennaio 1952, n. 6, sull'istituzione della Cassa nazionale di
previdenza e assistenza a favore degli avvocati e procuratori), promosso con
ordinanza emessa il 12 gennaio 1971 dal tribunale di Roma nel procedimento
civile vertente tra Cavallucci Guido e la Cassa nazionale di previdenza e
assistenza a favore degli avvocati e procuratori, iscritta al n. 150 del
registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 140 del 3 giugno 1971.
Visti gli atti di
costituzione di Cavallucci Guido e della Cassa nazionale forense e d'intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica
del 22 marzo 1972 il Giudice relatore Luigi Oggioni;
uditi l'avv. Guido
Cavallucci, l'avv. Arturo Carlo Jemolo, per la Cassa nazionale forense, ed il
sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Nel procedimento civile
vertente fra la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore degli
avvocati e procuratori e l'avv. Guido Cavallucci, e concernente il credito di
lire 441.210 vantato dalla Cassa ai sensi dell'art. 5 della legge 25 febbraio
1963, n. 289, a titolo di contributo del 25 per cento sull'importo del compenso
di curatore del fallimento della società ACIM, spettante al detto
professionista, il tribunale di Roma, con ordinanza 12 gennaio 1971, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale della citata norma in
relazione agli articoli 53 e 3 della Costituzione.
A sostegno della non manifesta
infondatezza della questione sotto il primo profilo, il tribunale osserva che
il menzionato articolo 5 della legge n. 289 del 1963, richiamato dall'art. 1,
n. 5, della legge 5 luglio 1963, n. 798, stabilisce a favore della Cassa un
contributo progressivo sui compensi percepiti dai professionisti per incarichi
retribuiti conferiti dall'Autorità giudiziaria, con percentuali che, per le
somme eccedenti il milione di lire, raggiungono il 25 per cento. Con ciò il
professionista verrebbe colpito, per tale componente del proprio reddito, con
un’aliquota fino a cinque volte maggiore di quella applicata dalla stessa legge
per tutte le altre componenti del reddito stesso, in relazione alle altre
contribuzioni ivi previste, e ne risulterebbe una sperequazione nella ripartizione
del costo del servizio assistenziale e previdenziale, non in funzione della
effettiva capacità contributiva di ciascuno, ma in base ad un elemento inidoneo
di per sé ad indicarne la reale misura, ed a tutto danno dei professionisti nel
cui patrimonio tale elemento é maggiormente presente.
Questo sistema di
imposizione, poi, secondo il tribunale, concreterebbe altresì una disparità di
trattamento, sia nei rapporti interni fra gli appartenenti all'ordine forense,
in relazione alla esplicazione della loro attività professionale globalmente
considerata, sia nei rapporti esterni, in relazione ad altri tipi di
professioni, come quelle di dottore commercialista e ragioniere, che, pur
consentendo, sotto alcuni profili, attività identiche a quelle degli avvocati
(ad esempio per le curatele fallimentari), per quanto riguarda la tassazione a
fini previdenziali sulle retribuzioni derivanti da incarichi speciali,
presenterebbero profonde differenze, essendo le relative percentuali, per
questi ultimi professionisti, limitate al solo 2 per cento, nonostante si debba
riscontrare la sostanziale identità delle prestazioni previdenziali ed
assistenziali relative.
In tal modo la denunciata
norma si porrebbe anche in contrasto col principio di eguaglianza.
L'ordinanza, notificata e
comunicata come per legge, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 140
del 3 giugno 1971.
Si é costituito nel giudizio
avanti alla Corte costituzionale l'avv. Cavallucci, in unione con l'avv.
Vincenzo D'Audino, ed ha depositato tempestivamente le proprie deduzioni.
L'avv. Cavallucci, dopo
avere accennato alla limitazione nella scelta dell'attività professionale ed
alla conseguente violazione dell'eguaglianza dei cittadini che, sotto questo
profilo, si concreterebbe per effetto dell'eccessivo carico contributivo
previsto dalle norme impugnate, svolge ampiamente le argomentazioni contenute
nell'ordinanza a sostegno della censura concernente la pretesa violazione
dell'art. 53 della Costituzione.
In particolare insiste sulla
esosità dell'aliquota prevista in relazione agli incarichi giudiziari che si
aggiungerebbe ai già pesanti contributi che colpiscono i redditi del
professionista ai fini previdenziali e assumerebbe con la sua progressività una
vera e propria funzione punitiva contro un settore dell'attività professionale,
oltretutto spesso svolta proprio da avvocati che non godrebbero di altre
apprezzabili fonti di lavoro. A mettere in maggior risalto l'inaccettabilità
della norma, l'avv. Cavallucci richiama la disposizione dell'ultimo comma
dell'art. 5 citato, secondo cui la rinuncia alla retribuzione non esonera dal
pagamento alla Cassa, e conclude chiedendo dichiararsi l'illegittimità della
norma impugnata e di quelle eventualmente collegate.
Si é anche costituita la
Cassa nazionale di previdenza e assistenza per avvocati e procuratori, in
persona del presidente pro tempore rappresentato e difeso dall'avv. prof.
Arturo Carlo Jemolo, che ha tempestivamente depositato le proprie deduzioni.
La difesa osserva che
rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore lo stabilire l'oggetto e
l'entità dei singoli contributi dovuti alla Cassa per i suoi fini
istituzionali, così come rientra nella stessa discrezionalità la fissazione
delle tariffe dei compensi per le varie attività professionali, mentre non
sarebbe dubitabile l'idoneità della categoria dei proventi derivanti da
incarichi giudiziari a costituire oggetto di uno specifico contributo.
Né sarebbe violato il
principio di eguaglianza per le lamentate disparità fra categorie professionali,
giacché la determinazione dei contributi ad enti previdenziali sarebbe fatta in
funzione delle necessità e delle caratteristiche degli stessi, ovviamente
diversi a seconda delle diverse situazioni delle categorie cui debbono
provvedere.
Del pari infondata sarebbe
la censura riferita all'art. 53 della Costituzione, non potendosi parlare di
contributo alle spese pubbliche, quando si tratta di contributo degli iscritti
ad un ente mutualistico.
Comunque, secondo la
giurisprudenza della Corte, il principio della capacità contributiva
inciderebbe sul complesso del sistema fiscale, e non sui singoli tributi, onde
non potrebbe essere utilmente invocato nel caso in esame, e ciò anche a potere
prescindere dalla considerazione che nella specie non si tratterebbe di un
tributo, ma di una prestazione obbligatoria conseguente alla iscrizione
obbligatoria ad un ente mutualistico.
In tesi generale, poi,
secondo la difesa della Cassa, se si accogliesse il dubbio avanzato
dall'ordinanza, rimarrebbe coinvolto tutto il sistema previdenziale, giacché
resterebbe vulnerato il principio secondo cui le imprese industriali debbono
tutte gli stessi contributi, indipendentemente dalle loro condizioni di
redditività.
Conclude pertanto chiedendo
dichiararsi infondata la questione.
Si é infine costituito il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso come per legge
dall'Avvocatura generale dello Stato che ha depositato tempestivamente le
proprie deduzioni.
L'Avvocatura si richiama
anzitutto alle sentenze n. 30 del 1964;
n. 23 del 1968
e n. 85 del 1969
con cui la Corte avrebbe affermato, appunto in materia di contribuzioni
previdenziali forensi, che l'art. 53 della Costituzione riguarda solo i
tributi, cioé quelle prestazioni patrimoniali che servono a far fronte alle
spese della organizzazione di servizi nell'interesse della collettività, mentre
le contribuzioni previste dagli artt. 3 e 4 della legge in esame sarebbero
riscossi ai fini di conseguire atti o attività propri del servizio giudiziario,
ed il cui costo pertanto può essere determinato divisibilmente. Tali concetti
sarebbero applicabili in toto anche ai contributi previsti dalle norme
impugnate, e pertanto resterebbe esclusa la violazione dell'art. 53 della
Costituzione.
Dovrebbe anche escludersi la
lamentata violazione dell'art. 3 per quanto riguarda l'aspetto interno alla
categoria, perché la differenziazione di contribuzioni troverebbe una razionale
giustificazione nella diversità oggettiva degli incarichi giudiziari cui si
riferiscono le contribuzioni in esame mentre, per quanto riguarda l'aspetto
esterno, le differenze fra le attività professionali menzionate nell'ordinanza
e le peculiari strutture e finalità delle singole Casse di previdenza non
consentirebbero un valido esame comparativo e giustificherebbero comunque la
diversità di trattamento.
Conclude pertanto chiedendo
dichiararsi la manifesta infondatezza della questione.
L'avv. Cavallucci ha
depositato nei termini una memoria illustrativa, con cui svolge ampiamente le
argomentazioni già addotte.
In particolare obbietta che
la giurisprudenza della Corte, richiamata dall'Avvocatura a sostegno della
propria tesi, rifletterebbe ipotesi estranee a quelle in esame, poiché
riguarderebbe le contribuzioni dovute dai terzi non esercenti la professione
forense, in occasione di prestazioni giudiziarie, ai sensi degli artt. 3 e 4
della legge n. 289 del 1963, e fuori quindi della ipotesi di cui alla norma
impugnata.
Contestando le deduzioni
della Cassa riafferma, poi, l’unicità sostanziale dell'attività professionale
forense anche per quanto riguarda gli incarichi giudiziari e particolarmente le
curatele fallimentari (dei cui compensi dovrebbe, oltre tutto, escludersi la
particolare lucrosità), ed insiste sulla disparità di trattamento contributivo,
che dovrebbe ravvisarsi con le altre attività professionali per effetto della
norma impugnata, nonché sulla esosità della contribuzione che risulterebbe
anche dalla duplicità dell'imposizione che colpirebbe lo stesso cespite: una
volta per la contribuzione de qua ed un'altra per quella generale riferita al
reddito complessivo del professionista a norma dell'art. 6 della legge 25
febbraio 1963, n. 289.
Anche la discrezionalità del
legislatore in materia, dedotta dalla difesa della Cassa, non potrebbe
utilmente essere invocata perché essa dovrebbe arrestarsi di fronte alla
"irragionevolezza" della sperequazione denunziata, sia nei rapporti
interni sia nei rapporti esterni con altre categorie di professionisti.
Nel ribadire poi il
carattere tributario della contribuzione in esame e la conseguente
applicabilità dell'art. 53 della Costituzione, precisa che tale precetto
sarebbe anche violato per il sistema di progressività adottato con la norma
impugnata, sistema che, riferito a una contribuzione concernente una sola e non
indicativa componente della capacità contributiva del soggetto tassato,
esorbiterebbe dalla progressività prevista dall'art. 53 stesso come criterio
generale riferibile non a un singolo tributo, ma a tutti i tributi nel loro
complesso, ed al reddito personale complessivo e non ad una sola parte di esso.
Neppure il riferimento ai
calcoli attucourier newi posti a base della determinazione degli aspetti
economici delle contribuzioni previdenziali dovute alla Cassa sarebbe
conducente, perché i calcoli stessi non potrebbero essere utilizzati per
decidere la ripartizione interna degli oneri fra i contribuenti.
L'avv. Cavallucci, infine,
adduce a sostegno della propria tesi alcune espressioni contenute nei lavori
preparatori, circa l'inopportunità di imporre la contribuzione de qua nella
misura lamentata.
Anche la difesa della Cassa
ha depositato una memoria con cui confuta le argomentazioni addotte a sostegno
della illegittimità della norma impugnata, sostanzialmente riaffermando la
discrezionalità del legislatore nella scelta dell'oggetto dell'imposizione e la
peculiarità dell'attività colpita dal contributo in esame.
Riguardo alla disposizione
di cui all'ultimo comma dell'art. 5 impugnato, concernente l'obbligo di
contribuzione anche nel caso di rinuncia al compenso, la difesa della Cassa
osserva che trattasi di disposizione tendente ad eliminare facili elusioni, e
giustificata dall'intento di assicurare il conseguimento delle entrate
spettanti all'ente mutualistico.
Infine, circa la lamentata
doppia imposizione, rileva che, oltre a trattarsi di doglianza non compresa
nell'ordinanza di rinvio, e non riferita ad alcun precetto costituzionale,
rifletterebbe comunque un fenomeno assai comune nel campo tributario e
pacificamente accettato.
Considerato in diritto
1. - La suindicata ordinanza
del tribunale di Roma sottopone alla Corte la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 5 della legge 25 febbraio 1963, n. 289, che,
nell'introdurre modifiche a precedente legge n. 6 del 1952 sull'istituzione
della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza fra avvocati e procuratori,
ha disposto che il professionista, al quale l'autorità giudiziaria abbia
conferito un incarico retribuito, corrisponda alla Cassa una percentuale,
graduata e progressiva, sull'importo della retribuzione.
L'ordinanza estende, per
ragioni formali, la questione alla pedissequa legge 5 luglio 1965, n. 798, che,
all'art. 1, n. 5, annovera, tra le entrate della Cassa, le somme percentuali
della natura ora indicata.
Si deduce nell'ordinanza che
la disposizione denunciata contrasterebbe con l'art. 53 della Costituzione,
"in quanto il costo delle prestazioni previdenziali e assistenziali,
verrebbe in conseguenza ripartito tra gli appartenenti alla categoria,
prescindendo dalla effettiva misura della rispettiva capacità
contributiva". Si aggiunge che contrasterebbe altresì con il principio di
uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, sia se confrontato,
all'esterno della categoria, con le inferiori prestazioni patrimoniali a fine
previdenziale, imposte ad esercenti attività professionali affini od identiche
"in modo assoluto" a quelle degli avvocati e procuratori (come nel
caso delle curatele fallimentari affidate anche a dottori commercialisti e
ragionieri): sia se confrontato, all'interno della categoria, "in
relazione all'esplicazione della attività professionale globalmente
considerata".
2. - La questione non é
fondata.
L'Avvocatura dello Stato,
per sostenerne la manifesta infondatezza, fa richiamo alla giurisprudenza di
questa Corte sulla questione di legittimità degli artt. 3 e 4, che precedono,
nella stessa legge, l'art. 5 impugnato, questione già riconosciuta non fondata
in riferimento all'art. 53 della Costituzione, con le sentenze n. 30 del 1964;
n. 23 del 1968 e n. 85 del 1969, come ricorda anche la difesa della Cassa. Il
richiamo non é, tuttavia, pertinente, data la diversità della questione in
precedenza sollevata e risolta soltanto nei confronti di prestazioni
patrimoniali, a beneficio della Cassa, ritenute comprese nella categoria dei
tributi giudiziari-lato sensu-gravanti sopra soggetti che fruiscono
"divisibilmente" (cioé in modo misurabile per ogni singolo atto) dei
servizi giudiziari in rapporto o all'esercizio del proprio ministero davanti ad
organi giurisdizionali ordinari, amministrativi, speciali, ovvero in relazione
all'emanazione di provvedimenti giurisdizionali. Ma la già riconosciuta
estraneità all'ambito di applicazione dell'articolo 53 Cost. e,
correlativamente, dell'art. 3 Cost. da parte dei citati artt. 3 e 4 della legge
in esame, non si riflette, nello stesso modo e senso, sull'art. 5, che concerne
la diversa ipotesi di una prestazione patrimoniale, anche essa imposta in base
a legge secondo l'art. 23 Cost., e caratterizzata dal sacrificio pecuniario di
una parte dell'utile spettante al professionista iscritto all'Ente nazionale
allo scopo di devolverla all'Ente stesso per dotarlo dei mezzi necessari a
realizzare, nel settore, il principio di solidarietà sociale, che sta alla base
dell'art. 53 Cost. in relazione all'art. 2.
In questo caso, la natura
tributaria del rapporto di prestazione obbligatoria deriva, oltre che dalla
qualificazione pubblicistica dell'Ente al quale la prestazione é devoluta pel
conseguimento di scopi di assistenza e previdenza, testualmente compresi
nell'ambito dell'art. 38 della Costituzione, precipuamente dallo speciale modo
e dalla particolare finalità del prelievo di reddito, quale sopra descritto.
Aggiungasi che, secondo
giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 21 del 1969),
il citato art. 38 della Costituzione "non esclude che possano farsi
gravare su singole categorie di soggetti gli oneri finanziari inerenti ai
compiti cui esso art. 38 si riferisce".
Da tutto ciò consegue che,
diversamente da quanto ritenuto per gli artt. 3 e 4 della legge in esame, la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della stessa legge
sollevata nei confronti dell'art. 53 della Costituzione, non può, senz'altro,
dichiararsi manifestamente infondata, bensì richiede particolare esame.
3. - Secondo l'ordinanza di
rinvio, l'obbligo di versare una somma percentuale sull'importo della singola
retribuzione percepita, lederebbe il principio della pari capacità contributiva
di cui all'art. 53 della Costituzione, perché il costo delle prestazioni
previdenziali ed assistenziali verrebbe in tal modo ripartito tra gli
appartenenti alla categoria non in base ad un indice complessivo di detta
capacità, ma in base ad un’eventuale singola e non indicativa sua componente.
La Corte osserva, tuttavia,
che, nel caso, il principio di conformità all'art. 53 Cost. risulta osservato.
Va premesso che la
prestazione contributiva - de qua - s'inquadra nel sistema, caratterizzato dal
conseguimento di finalità generali, distinte da quelle particolari (e perciò,
come già si é detto, divisibili) relative al compimento di singoli atti, per
rivestire, invece, carattere di indivisibilità, con i seguenti effetti,
rientranti propriamente nell'ambito dell'art. 53 della Costituzione.
Va, poi, considerato che,
giusta giurisprudenza (sentenze n. 45 del 1964;
nn. 16 e 50 del 1965; n. 89 del 1966;
n. 97 del 1968)
per "capacità contributiva" ai sensi dell'art. 53 deve intendersi
l'idoneità soggettiva alla obbligazione d'imposta, deducibile dal presupposto
al quale la prestazione é collegata e determinabile quantitativamente in base a
detto presupposto.
Nella situazione in esame,
basata sulla percezione effettiva di un reddito, quel presupposto é reale ed
inoltre la misura dell'obbligazione risulta stabilita in relazione alla misura
del reddito percepito. La redditività funziona, pertanto, come indice di
capacità contributiva, in conformità al precetto costituzionale.
Secondo l'ordinanza di
rinvio, la violazione del precetto é, tuttavia, denunciata, come si é detto,
pel fatto che la ripartizione, in quote percentuali, del costo delle
prestazioni previdenziali tra gli appartenenti alla categoria professionale,
risulti sperequata per unilateralità di valutazione.
L'assunto non é fondato,
tanto se considerato, in termini di paragone, con l'imposizione su redditi di altra
natura, quanto se considerato in relazione alla specifica imposizione in esame,
poiché é riservato al legislatore di provvedere alla determinazione in concreto
di un tributo, secondo principi direttivi di politica economico-fiscale. Questa
Corte (sentenze n. 89 del 1966 e n. 124 del 1971)
ha già statuito che il sindacato sulla entità e la proporzionalità di un
tributo fissato in base a calcoli appositi, esula dai poteri spettanti al giudice
della legittimità delle leggi, in funzione dell'art. 53 Cost., salvo i casi di
assoluta arbitrarietà o irrazionalità, che qui, per i motivi suesposti, non
ricorrono. Ed esula parimenti ogni possibilità di esame che attenga alla
verifica di una corrispondenza comparativa in concreto tra l'ammontare delle
contribuzioni devolute e l'ammontare delle prestazioni ricevute.
4. - L'ordinanza di rinvio
estende la censura di legittimità alla violazione del principio di uguaglianza
di cui all'art. 3 Cost., principio di cui, come generalmente riconosciuto,
l'articolo 53 é espressione particolare.
La questione é parimenti non
fondata.
Secondo l'ordinanza, la
violazione si verificherebbe all'interno della categoria degli avvocati e
procuratori "globalmente considerata". Ma, a parte la genericità
della deduzione, il ricorso al criterio della "globalità" non é
pertinente, ove si consideri l'origine e la natura della personale fonte di
reddito, su cui, nel caso in esame, viene ad incidere la quota d'imposizione,
dovuta dai beneficiari, a vantaggio del fondo comune da redistribuire. La
dedotta violazione dell'art. 3 Cost. non é, sotto questo profilo, sollevata a
proposito.
Ugualmente deve ritenersi
per quanto riguarda la stessa questione, sollevata con riguardo ad altre
situazioni, emergenti all'esterno della categoria.
Il confronto con il
trattamento previdenziale, riservato, attivamente e passivamente, ad
appartenenti ad altri ordini professionali, non può condurre a ritenere
disapplicato il principio della parità di trattamento.
Premesso che, per costante
giurisprudenza, l'osservanza di questo principio ricorre nei casi di situazioni
pari e non in quelle differenziate, va osservato che il confronto con altre
categorie , in particolare con le categorie dei dottori commercialisti e dei
ragionieri, non conduce ad una constatazione di disparità, ai sensi dell'art.
3.
Agli effetti della questione
da decidere, non rileva che vi siano casi (come quello delle curatele
fallimentari) nei quali l'adempimento di incarichi conferiti dall'autorità
giudiziaria abbia pari natura e svolgimento per gli appartenenti a tutte le
categorie professionali suaccennate.
Rilevante é, invece,
distinguere e considerare la questione sotto il profilo suo proprio, che
attiene alla disciplina legislativa e statutaria per ciascuna Cassa di
previdenza e di assistenza, istituita nell'ambito dei rispettivi Ordini
professionali.
Tale disciplina é autonoma,
per effetto di leggi particolari, ognuna delle quali deriva il suo contenuto da
valutazioni e da calcoli attinenti al numero dei contribuenti iscritti, alla
loro età media e a quella pensionabile, alla media capacità economica
contributiva, alle esigenze settoriali ed ai risultati che si intendono
conseguire.
Un livellamento per tutte le
categorie delle percentuali di contribuzione, od anche soltanto un loro
adeguamento, onde evitare differenze troppo sensibili, non é imposto
dall'osservanza del principio di uguaglianza di trattamento, data la non
omogeneità delle rispettive situazioni.
Comunque, spetterà
esclusivamente al legislatore ravvisare l'opportunità o meno di un riesame
tecnico aggiornato della materia per correggere, nel sistema, gli eventuali
difetti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 25 febbraio
1963, n. 289, contenente modifiche alla legge 8 gennaio 1952, n. 6, sulla
istituzione della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore degli
avvocati e procuratori, nonché dell'art. 1, n. 5, della legge 5 luglio 1965, n.
798, contenente modifiche alle leggi 8 gennaio 1952, n. 6, e 25 febbraio 1963,
n. 289, riguardanti la previdenza e assistenza forense e l'istituzione
dell'assistenza sanitaria a favore degli avvocati e procuratori legali: questione
sollevata, dall'ordinanza in epigrafe del tribunale di Roma, in riferimento
agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1972.
Giuseppe CHIARELLI - Luigi
OGGIONI
Depositata in cancelleria il
18 maggio 1972.