Sentenza n. 14 del 2020

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SENTENZA N. 14

ANNO 2020

 

Commento alla decisione di

 

Francesco Lazzeri

Modifica dell'imputazione e facoltà di chiedere la messa alla prova: dichiarata l'incostituzionalità parziale dell'art. 516 c.p.p.

per g.c. di Sistema Penale

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Grosseto, nel procedimento penale a carico di B. R., con ordinanza del 25 gennaio 2019, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;

 

deliberato nella camera di consiglio del 16 gennaio 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza del 25 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Grosseto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, in caso di contestazione di un fatto diverso, la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

1.1.– Riferisce il giudice a quo di dover giudicare della responsabilità penale di B. R., rinviato a giudizio per un fatto originariamente qualificato dal pubblico ministero come ricettazione, ai sensi dell’art. 648 del codice penale, di oggetti provenienti da un furto commesso in una chiesa.

 

Nel corso dell’istruttoria, il pubblico ministero aveva tuttavia ritenuto – senza peraltro che fossero emersi elementi di novità rispetto agli atti d’indagine – di contestare all’imputato, ai sensi dell’art. 516, comma 1, cod. proc. pen., di avere egli stesso sottratto gli oggetti in questione, e di essere pertanto responsabile del delitto di furto in abitazione ai sensi dell’art. 624-bis cod. pen.

 

L’imputato aveva quindi chiesto, a mezzo del proprio difensore, di essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova ai sensi dell’art. 168-bis cod. pen., previa rimessione delle questioni di legittimità costituzionale ora sottoposte all’esame di questa Corte, precisando altresì che tale richiesta – che egli, invero, avrebbe potuto a suo tempo formulare anche con riferimento alla originaria imputazione ex art. 648 cod. pen. – era legata alla considerazione che in caso di condanna per furto in abitazione, a differenza di quanto accade in caso di condanna per ricettazione, non è consentita la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.

 

1.2.– Quanto alla rilevanza delle questioni, il rimettente osserva anzitutto che il reato contestato in udienza dal pubblico ministero rientra fra quelli per i quali, ai sensi dell’art. 168-bis cod. pen., è possibile la sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

Rileva infatti il giudice a quo che tale disposizione consente di ammettere al rito speciale in parola gli imputati di reati puniti con la pena detentiva non superiore a quattro anni, nonché di quelli indicati dall’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. Il delitto di furto in abitazione prevede, invero, una pena detentiva superiore nel massimo a quattro anni, e non è espressamente menzionato dall’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. nell’elenco dei reati per i quali si procede comunque con citazione diretta. Tuttavia, secondo la costante interpretazione della Corte di cassazione, il delitto in questione rientra comunque tra quelli per i quali si procede con citazione diretta, atteso che la sua mancata espressa menzione nell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. deve ricondursi unicamente a un difetto di coordinamento normativo, conseguente all’elevazione a fattispecie autonoma – ad opera della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini) – del furto in abitazione, che in precedenza rientrava tra le ipotesi di furto aggravato di cui all’art. 625 cod. pen., cui espressamente si riferisce l’art. 550, comma 2, lettera f), cod. proc. pen. (sono citate, tra le altre, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 novembre 2017-26 gennaio 2018, n. 3807; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 maggio-22 settembre 2017, n. 43958; Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 24 aprile-20 luglio 2012, n. 29815).

 

L’istanza formulata dall’imputato dovrebbe, tuttavia, essere respinta in quanto tardiva ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., a tenore del quale la relativa richiesta può essere proposta, nel caso di procedimento con citazione diretta a giudizio, soltanto fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

 

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente rammenta che questa Corte, con sentenza n. 141 del 2018, ha dichiarato l’art. 517 cod. proc. pen. costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, considerata quale vero e proprio rito alternativo.

 

A parere del giudice a quo, gli argomenti che hanno condotto a tale dichiarazione di illegittimità costituzionale varrebbero allo stesso modo con riferimento all’ipotesi di contestazione di un fatto diverso, contemplata dall’art. 516 cod. proc. pen.

 

La scelta del rito costituirebbe, d’altra parte, una delle più qualificanti modalità di esplicazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (sono citate le sentenze n. 237 del 2012, n. 219 e n. 148 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993), il cui esercizio dovrebbe sempre essere garantito in ogni ipotesi di mutamento, “patologico” o “fisiologico” che sia, della fisionomia originaria dell’accusa, pena la violazione – altresì – del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

 

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il Tribunale ordinario di Grosseto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, in caso di contestazione di un fatto diverso, la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

Secondo il rimettente, la disposizione censurata violerebbe il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., non consentendo all’imputato di chiedere di essere ammesso al rito speciale a contenuto premiale della sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui, nel corso del dibattimento, gli venga contestato un fatto diverso da quello oggetto della originaria imputazione.

 

Avendo poi questa Corte dichiarato, con sentenza n. 141 del 2018, l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi di contestazione di una nuova circostanza aggravante, la mancata previsione di analoga facoltà per l’imputato al quale venga contestato un fatto diverso durante il dibattimento lederebbe, altresì, il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

 

2.– Le questioni sono fondate, con riferimento a entrambi i parametri evocati.

 

2.1.– Come da ultimo estesamente ricapitolato nella sentenza n. 141 del 2018, una risalente giurisprudenza di questa Corte, muovendo dalla premessa per cui la scelta dei riti alternativi da parte dell’imputato costituisce una delle più qualificanti espressioni del suo diritto di difesa, ha di volta in volta dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di essere ammesso a un rito speciale a contenuto premiale allorché, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, fosse emerso – rispettivamente – un fatto diverso da quello originariamente contestato, ovvero un reato connesso o una circostanza aggravante non previamente contestati all’imputato. Tali preclusioni sono apparse alla Corte lesive, altresì, del principio di eguaglianza, «venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero» (sentenza n. 265 del 1994).

 

In una prima fase, per la verità, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale erano state spesso circoscritte all’ipotesi in cui la diversa o nuova contestazione concernesse un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (così le sentenze n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994). Questo criterio limitativo è stato però progressivamente abbandonato dalle pronunce più recenti (sentenze n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012), nelle quali si è in sostanza sottolineato che, in ogni ipotesi di nuove contestazioni – indipendentemente dalla circostanza per cui ciò sia o meno addebitabile alla negligenza del pubblico ministero nella formulazione dell’originaria imputazione –, all’imputato deve essere restituita la possibilità di esercitare le proprie scelte difensive, comprensive della decisione di chiedere un rito alternativo.

 

Tale generale principio è stato applicato dalla più volte menzionata sentenza n. 141 del 2018 all’ipotesi di contestazione di nuove circostanze aggravanti nel corso dell’istruttoria dibattimentale di cui all’art. 517 cod. proc. pen., in relazione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova; istituto che, ha osservato questa Corte, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio» (sentenza n. 240 del 2015, nonché, nello stesso senso, sentenze n. 68 del 2019 e n. 91 del 2018).

 

2.2.– Il principio non può ora che essere esteso anche all’ipotesi – strutturalmente identica, sotto il profilo che qui rileva – prevista dall’art. 516 cod. proc. pen., in questa sede censurato; il quale deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, in seguito alla modifica dell’originaria imputazione, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui, in seguito alla modifica dell’originaria imputazione, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Francesco VIGANÒ, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2020.