Sentenza n. 240 del 2015

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SENTENZA N. 240

ANNO 2015

 

Commento alla decisione di

G.L.

La Corte costituzionale esclude l’applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all’epoca della sua introduzione (e nega l’illegittimità della relativa disciplina intertemporale)

 

per g.c. di Diritto penale Contemporaneo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

- Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

- Paolo                           GROSSI                                                   ”

- Giorgio                        LATTANZI                                              ”

- Aldo                            CAROSI                                                   ”

- Marta                           CARTABIA                                             ”

- Mario Rosario              MORELLI                                                ”

- Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

- Giuliano                       AMATO                                                   ”

- Silvana                         SCIARRA                                                ”

- Daria                            de PRETIS                                               ”

- Nicolò                          ZANON                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), promosso dal Tribunale ordinario di Torino nel procedimento penale a carico di V.G., con ordinanza del 28 ottobre 2014, iscritta al n. 260 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Torino, in composizione monocratica, con ordinanza del 28 ottobre 2014 (r.o. n. 260 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15-bis co. 1 della legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge 67/2014».

Il giudice a quo premette che l’imputato è stato «rinviato a giudizio» dinanzi al suo ufficio per rispondere del reato di cui all’art. 483 del codice penale, perché aveva dichiarato falsamente, quale amministratore di una società a responsabilità limitata, innanzi al notaio, nel corso di un’assemblea straordinaria, che era «presente o validamente rappresentato l’intero capitale sociale, mentre al contrario il socio di maggioranza […] né era presente all’assemblea né aveva rilasciato mandato ad essere rappresentato».

Riferisce il Tribunale rimettente che nella prima udienza, tenutasi il 16 maggio 2014, era stato aperto il dibattimento ed erano state ammesse le prove richieste dalle parti, mentre nella successiva udienza del 26 maggio 2014 l’imputato aveva richiesto la «sospensione del procedimento con messa alla prova». Nell’udienza del 18 settembre 2014 la difesa aveva insistito per l’accoglimento della richiesta di sospensione con messa alla prova, prospettando, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), nella parte in cui non prevede l’applicabilità della messa alla prova anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della nuova legge nei quali era stato già aperto il dibattimento.

In punto di rilevanza, il Tribunale ordinario di Torino osserva che ricorrono nel caso di specie tutti i presupposti oggettivi e soggettivi per «l’ammissione dell’imputato alla messa alla prova». Il reato contestato sarebbe infatti punito con pena massima inferiore ai limiti di cui all’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. e non sussisterebbero le condizioni ostative previste dall’art. 168-bis, quarto e quinto comma, cod. pen., non avendo mai l’imputato fruito in precedenza della sospensione del procedimento con messa alla prova e non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dagli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 cod. pen. Il «caso concreto» sarebbe di modesta gravità, in quanto relativo ad una dichiarazione resa in occasione di un’assemblea straordinaria della società nella quale l’imputato era amministratore ed esclusivo proprietario delle quote sociali fiduciariamente intestate alla persona offesa. Inoltre l’imputato ha formulato un’offerta risarcitoria e ha presentato «richiesta di elaborazione all’UEPE del programma con dichiarazione di disponibilità a sottoporsi alle prescrizioni imposte e svolgere un lavoro di pubblica utilità». Il giudice a quo ritiene che, tenuto conto dell’epoca del fatto e dei non gravi precedenti penali, l’imputato si sarebbe attenuto al programma, astenendosi in futuro dal commettere ulteriori reati. Non ricorrerebbero, inoltre, le condizioni per la pronuncia di una sentenza ex art. 129 cod. proc. pen.

L’unico ostacolo sarebbe dunque rappresentato dalla preclusione processuale stabilita dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., in quanto la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova è stata formulata successivamente alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado e pertanto oltre il termine stabilito dalla legge. Infatti, al momento dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 (17 maggio 2014), era già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento, mentre la richiesta dell’imputato era stata formulata alla prima udienza successiva all’introduzione del nuovo istituto.

L’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. fissa i limiti per l’accesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova in modo unitario per tutti i processi (già pendenti o successivi al momento dell’entrata in vigore della nuova legge). Tale limite, per la fase dibattimentale, è rappresentato dalla dichiarazione di apertura del dibattimento e, come ricorda il giudice rimettente, la legge n. 67 del 2014 non contiene alcuna norma transitoria, come quella che è stata introdotta dalla legge 11 agosto 2014, n. 118 (Introduzione dell’articolo 15-bis della legge 28 aprile 2014, n. 67, concernente norme transitorie per l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili) per l’applicazione della sola disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili.

La preclusione derivante dal termine posto dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. non sarebbe superabile mediante una diretta applicazione dei principi generali dell’art. 2 cod. pen. Palese sembrerebbe inoltre la volontà del legislatore, il quale non avrebbe predisposto, per le norme di cui al Capo II della legge n. 67 del 2014, una disciplina transitoria, neppure contestualmente all’approvazione della citata legge n. 118 del 2014.

Il Tribunale rimettente ricorda che una parte della giurisprudenza di merito ha ammesso la possibilità di formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova alla prima occasione utile successiva all’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, anche in caso di avvenuta apertura del dibattimento, applicando l’istituto della restituzione nel termine di cui all’art. 175 cod. proc. pen, ma dichiara di non poterla condividere, in quanto determinerebbe l’introduzione «in via giurisprudenziale» di un regime transitorio non voluto dal legislatore. Neanche sarebbe possibile applicare direttamente l’art. 2 cod. pen. o l’art. 7 della CEDU, in quanto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 2011, non ha escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni all’operatività del principio di retroattività della lex mitior, «quando siano sorrette da una valida giustificazione».

Il nuovo istituto della sospensione con messa alla prova cumulerebbe connotazioni di carattere processuale e sostanziale, perché sarebbe al contempo una causa di estinzione del reato e un modulo di definizione alternativa al giudizio. Tale natura mista imporrebbe una verifica di ragionevolezza, ai sensi dell’art. 3 Cost., del differente trattamento di persone che, pur versando nelle medesime condizioni sostanziali, si trovino, al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, in diverse fasi del processo di primo grado. Il legislatore, infatti, individuando un discrimine unico, valido tanto per i processi nuovi quanto per i processi già in corso, avrebbe disciplinato in modo identico situazioni nettamente difformi, consentendo solo agli imputati dei primi di aver accesso al nuovo, più favorevole, istituto. Tale soluzione sembrerebbe contrastare, inoltre, con l’art. 117, primo comma, Cost., attraverso il parametro interposto dell’art. 7 della CEDU, che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo pone il principio della retroattività della lex mitior. Infatti il «momento» prescelto dal legislatore, mentre risulterebbe pienamente coerente e razionale per tutti i processi nuovi, non lo sarebbe per i processi pendenti in primo grado nei quali la preclusione sia già maturata al momento dell’entrata in vigore della nuova legge. Tale soluzione legislativa violerebbe anche l’art. 24 Cost., in quanto si risolverebbe «in una lesione del pieno esercizio del diritto di difesa (nel quale va inclusa anche la facoltà di richiedere l’accesso a riti alternativi)». Sussisterebbe anche la violazione dell’art. 111 Cost., essendo pregiudicato il diritto a un «giusto processo (inteso come diritto ad una scelta del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione di rischi connessi alla possibilità di previamente valutare le opzioni offerte e ad una ordinata, corretta e fisiologica successione di atti processuali)».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.

La difesa dello Stato sottolinea la natura ambivalente dell’istituto, che, riflettendosi nella duplice disciplina, sostanziale e processuale, aveva creato incertezze sulla sua applicabilità ai processi pendenti nei quali fosse stato già stato dichiarato aperto il dibattimento, inducendo la giurisprudenza di merito ad adottare soluzioni opposte.

L’Avvocatura generale ritiene che entrambe le soluzioni siano plausibili. In particolare, quella che, in base al principio di diritto processuale “tempus regit actum”, esclude l’applicazione del nuovo istituto ai procedimenti pendenti nei quali sia già avvenuta l’apertura del dibattimento, sarebbe costituzionalmente legittima e costituirebbe il frutto di una scelta riservata al legislatore nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità in materia processuale.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 28 ottobre 2014 (r.o. n. 260 del 2014), il Tribunale ordinario di Torino, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15-bis, co. 1 della legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge 67/2014».

Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata, individuando un «discrimine unico», valido tanto per i processi nuovi quanto per quelli già in corso, disciplina in modo identico situazioni nettamente difformi, consentendo solo agli imputati dei primi di aver accesso al nuovo, più favorevole, istituto.

Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, in quanto, rispetto ai processi pendenti in primo grado per i quali la preclusione era già maturata al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, la deroga al principio della retroattività della lex mitior non sarebbe sorretta da una sufficiente ragione giustificativa.

Inoltre, la norma impugnata contrasterebbe con l’art. 24 Cost., risolvendosi «in una lesione del pieno esercizio del diritto di difesa (nel quale va inclusa anche la facoltà di richiedere l’accesso a riti alternativi)».

Si configurerebbe, infine, la lesione dell’art. 111 Cost., venendo pregiudicato «il diritto ad essere sottoposto ad un giusto processo (inteso come diritto ad una scelta del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione di rischi connessi alla possibilità di previamente valutare le opzioni offerte e ad una ordinata, corretta e fisiologica successione di atti processuali)».

2.– Le questioni non sono fondate.

2.1.– L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli adulti è stato introdotto con la legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). La messa alla prova comporta, oltre alla tenuta da parte dell’imputato di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, ove possibile, al risarcimento del danno, l’affidamento al servizio sociale con un particolare programma. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art. 168-bis del codice penale). L’esito positivo della prova «estingue il reato per cui si procede» (art. 168-ter cod. pen.).

Il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

La norma impugnata stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta: sono termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti. Nel procedimento con citazione diretta, oggetto del giudizio a quo, la richiesta può essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

2.2.– Il giudice rimettente ha denunciato in primo luogo la violazione dell’art. 3 Cost., a causa «del differente trattamento di soggetti che – versando nelle medesime condizioni sostanziali – si trovino al momento dell’entrata in vigore della nuova legge in diverse fasi del processo di primo grado. Infatti, il legislatore, individuando un discrimine unico valido tanto per i processi nuovi quanto per i processi già in corso, ha disciplinato in modo identico situazioni nettamente difformi, consentendo unicamente agli imputati dei primi di aver accesso al nuovo, più favorevole, istituto».

Con il riferimento alle «medesime condizioni sostanziali» il giudice rimettente vuole inferire, da queste e dagli effetti sostanziali del nuovo istituto, l’illegittimità della sua disciplina processuale, per la mancanza di una norma transitoria che ne consenta l’applicazione in base a una richiesta formulata, nei processi in corso, anche dopo l’apertura del dibattimento.

In una prospettiva processuale però ben si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. È allo stato del processo che il legislatore ha inteso fare riferimento e sotto questo aspetto ben può dirsi che ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali.

Il termine entro il quale l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo. Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, eventualmente con la partecipazione della parte civile (che avrebbe maturato una legittima aspettativa alla decisione), significherebbe alterare in modo rilevante il procedimento, e il non averlo fatto non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3 Cost.

La preclusione lamentata dal giudice rimettente dipende solo dal diverso stato dei processi che la subiscono e questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, sicché le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale (ordinanze n. 455 del 2006 e n. 91 del 2005).

Una questione analoga si è posta in passato per il regime transitorio del giudizio abbreviato, regolato dall’art. 247 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e questa Corte in quell’occasione, tra l’altro, ha considerato che «poiché lo scopo dell’istituto del procedimento abbreviato è quello di consentire la sollecita definizione del giudizio, escludendo la fase dibattimentale, è del tutto razionale che, per i reati pregressi e per i procedimenti in corso, tale istituto sia stato reso applicabile soltanto quando il suo scopo possa essere ugualmente perseguito, e cioè quando non si sia ancora giunti al dibattimento». La Corte ha aggiunto: «Non è, pertanto, producente il confronto fra imputati per i quali il dibattimento sia stato o non sia stato ancora aperto proprio perché si tratta di situazioni oggettivamente diverse; l’apertura del dibattimento rende irrazionale l’applicabilità del giudizio abbreviato» (sentenza n. 277 del 1990).

Uguali considerazioni possono farsi rispetto alla norma impugnata, sicché risulta esclusa qualsiasi violazione dell’art. 3 Cost.

2.3.– Secondo il giudice rimettente, la mancanza della norma transitoria di cui si vorrebbe l’introduzione, impedendo l’applicazione retroattiva di una norma penale di favore, sarebbe pure in contrasto «con il principio di rango costituzionale – attraverso il parametro interposto di cui all’art. 117 Cost., sancito dall’art. 7 C.E.D.U. (cfr. sentenza della Corte EDU 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia resa dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo) – della retroattività della lex mitior».

Il giudice rimettente però non considera che la preclusione di cui lamenta gli effetti è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 della CEDU risulta fuori luogo.

Il principio di retroattività si riferisce al rapporto tra un fatto e una norma sopravvenuta, di cui viene in questione l’applicabilità, e nel caso in oggetto, a ben vedere, l’applicabilità e dunque la retroattività della sospensione del procedimento con messa alla prova non è esclusa, dato che la nuova normativa si applica anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.

L’art. 464-bis cod. proc. pen., nella parte impugnata, riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del principio “tempus regit actum”. Il principio potrebbe essere derogato da una diversa disciplina transitoria, ma la mancanza di questa non è certo censurabile in forza dell’art. 7 della CEDU.

È da aggiungere che, come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, la Corte europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che il principio di retroattività della legge penale più favorevole «sia un corollario di quello di legalità, consacrato dall’art. 7 della CEDU, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il principio di retroattività della lex mitior, come in generale “le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione”, concerne secondo la Corte le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso senso, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia)». Perciò «è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità» (sentenza n. 236 del 2011).

In un caso in cui era contestato il termine per richiedere il giudizio abbreviato previsto dall’art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 5 giugno 2000, n. 144, la Corte di Strasburgo ha distinto le norme sostanziali da quelle processuali che disciplinano tale giudizio e ha escluso che queste ultime potessero comportare la violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU. Secondo la Corte, «Poiché la modificazione legislativa denunciata dal ricorrente [aveva] riguardato una norma di procedura, salvo il caso di arbitrarietà, niente nella Convenzione impediva al legislatore italiano di regolamentare la sua applicazione ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore». Più in particolare, «poiché il giudizio abbreviato ha come scopo di evitare il dibattimento e di decidere sulla fondatezza delle accuse in esito a una udienza in camera di consiglio, non si [poteva] rimproverare alle autorità di avere limitato l’applicazione delle nuove modalità di accesso a questa procedura semplificata ai soli casi in cui il dibattimento pubblico non avesse avuto ancora luogo» (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 aprile 2010, Morabito contro Italia).

Il caso oggetto della ricordata decisione è analogo a quello cui si riferisce la questione di legittimità costituzionale e dalla stessa giurisprudenza della Corte europea emerge in modo limpido l’insostenibilità dell’asserita violazione dell’art. 7 della CEDU.

2.4.– Le ragioni precedentemente indicate a conferma della legittimità costituzionale della norma impugnata fanno apparire prive di fondamento anche le questioni relative alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost., sollevate nell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell’entrata in vigore della norma impugnata dovrebbe riconoscersi all’imputato, come espressione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, come si è visto, è stata legittimamente esclusa l’applicabilità.

Deve quindi concludersi che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Torino sono prive di fondamento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dal Tribunale ordinario di Torino, in composizione monocratica, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2015.