Sentenza n. 277 del 1990

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N.277

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Giovanni CONSO, Presidente

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 247 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, promossi con cinque ordinanze emesse il 14 novembre 1989 dal Pretore di Torino, il 23 novembre 1989 ed il 7 dicembre 1989 dal Pretore di Mondovì ed il 1° dicembre 1989 (nn. 2 ordd.) dal Tribunale di Roma, iscritte ai nn. 24, 34, 35, 36 e 37 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 5 e 6/1a s.s. dell'anno 1990.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 marzo 1990 il Giudice relatore Renato Dell'Andro.

Ritenuto in fatto

1.- Con tre ordinanze identicamente motivate emesse dal Pretore di Torino il 14 novembre 1989 (Reg. ord. n. 24/90) e dal Tribunale di Mondovì il 23 novembre ed il 7 dicembre 1989 (Reg. ord. nn. 34/90 e 35/90) é stata sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 delle disposizioni d'attuazione del nuovo codice di procedura penale, nella parte in cui limita l'ammissibilità del giudizio abbreviato ai procedimenti in cui non siano state compiute le formalità d'apertura del dibattimento di primo grado.

Osservano i giudici a quibus che i nuovi istituti del giudizio abbreviato e dell'applicazione della pena su richiesta delle parti prevedono da una parte una diversa e più rapida procedura di definizione del processo e dall'altra una rilevante diminuzione della pena ed altre conseguenze giuridiche più favorevoli al reo (esclusione dell'applicazione delle pene accessorie, delle misure di sicurezza e della condanna al pagamento delle spese processuali, estinzione del reato). là pertanto evidente che i cd. nuovi riti speciali - poichè non si limitano soltanto a disciplinare l'accertamento della notitia criminis e le attività processuali ma incidono direttamente sulla quantificazione della pena, sull'applicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza e sull'estinzione del reato - hanno natura penale sostanziale. In particolare, la riduzione della pena e gli altri benefici che conseguono dai procedimenti previsti dagli artt. 438 e 444 del codice di procedura penale hanno natura sostanziale mentre le norme che ne disciplinano le forme di esperimento hanno natura processuale.

A parere dei giudici a quibus, dai primi tre commi dell'art. 2 del codice penale s'evince che il nostro sistema penale accoglie non tanto il principio della irretroattività, bensì il principio superiore che al reo é assicurato il trattamento più favorevole tra quelli stabiliti dalla legge a partire dalla commissione del fatto e sino alla sentenza irrevocabile. Tale principio superiore, ispirato al favor libertatis, si specifica poi in quello d'irretroattività nel primo comma, in quello della retroattività (anche oltre la sentenza irrevocabile) nel secondo comma ed in quello della legge più favorevole nel terzo comma. Anzi, dalla degradazione della irretroattività a semplice corollario d'un principio superiore, si é da alcuni dedotto che l'art. 25, secondo comma, Cost. ha implicitamente accolto non solo il principio d'irretroattività della legge penale ma anche il principio più generale che ne é il fondamento.

A parere delle autorità remittenti, anche se non può essere condivisa la tesi secondo cui le norme dell'art. 2 del codice penale siano materialmente costituzionali, deve tuttavia ritenersi che il principio dell'applicabilità della legge più favorevole, posto dai primi tre commi dei detto art. 2 del codice penale, incidendo sullo status libertatis e sui diritti fondamentali del cittadino, ha rilevanza costituzionale; sicchè la sua eventuale deroga deve essere giustificata da ragioni aventi pari rilevanza costituzionale.

Orbene. poichè i riti speciali di cui agli arti. 438 e 444 del codice di procedura penale costituiscono disposizioni penali sostanziali più favorevoli all'imputato, deriva che, ai sensi dell'art. 2 del codice penale, la loro applicabilità non va limitata ai procedimenti iniziati successivamente al 24 ottobre 1989 ma deve essere estesa a tutti i procedimenti pendenti in tale data.

Il nuovo codice di procedura penale, sempre a parere dei giudici a quibus, ha invece accolto solo parzialmente il principio dell'applicabilità del trattamento più favorevole al reo. Infatti, gli artt. 247 e 248 delle disposizioni d'attuazione da un lato estendono i riti speciali ai procedimenti in corso ma dall'altro ne limitano l'ammissibilità ai soli procedimenti nei quali non siano state ancora compiute le formalità d'apertura dei dibattimento.

Ora, tale limitazione non appare nè ragionevole nè diretta a tutelare un interesse avente pari rilevanza costituzionale. Non é invero esatta l'opinione secondo cui, poichè nel nuovo processo il giudizio abbreviato e l'applicazione della pena a richiesta delle parti hanno la funzione di giungere ad una rapida definizione dei processi e la riduzione della pena costituisce solo un incentivo per l'imputato affinchè chieda tali riti, sarebbe stato ingiustificato estenderne 1'ammissibilità ai procedimenti pendenti, il cui iter - con l'apertura del dibattimento - sia giunto ad un punto tale da rendere non più apprezzabile il beneficio d'una loro rapida definizione. Ed infatti, se é vero che i riti speciali hanno tale funzione, Ciò non toglie che essi hanno tuttavia attribuito all'imputato un vero e proprio diritto soggettivo di chiedere tali riti e d'ottenere la conseguenziale riduzione della pena indipendentemente dalla loro adozione. L'art. 448 prevede, in caso di dissenso del P.M. che il giudice ritenga ingiustificato, che la riduzione della pena possa essere concessa anche nel giudizio d'impugnazione. Ciò prova, secondo le citate ordinanze di rimessione, che anche nel caso in cui il sistema processuale non abbia tratto alcun beneficio dal rito speciale, in quanto si é già celebrato interamente il giudizio di primo grado e quello d'appello, ugualmente l'imputato conserva il suo diritto d'ottenere la riduzione della pena e l'esclusione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza. Questa conseguenza, a parere dei giudici a quibus, é giustificata dalla considerazione che i riti speciali, se sono esaminati dal lato del sistema processuale costituiscono un mezzo per giungere alla rapida definizione del processo, mentre se sono visti dal lato dell'imputato costituiscono un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere la riduzione della pena. Non é quindi ragionevole la giustificazione secondo cui gli artt. 247 e 248 delle disposizioni d'attuazione del codice di procedura penale avrebbero limitato l'ammissibilità ai procedimenti pendenti in cui non siano state ancora compiute le formalità d'apertura del dibattimento per la considerazione che, oltre questo termine, il sistema processuale non ne avrebbe tratto alcun beneficio. Questa giustificazione, oltre ad essere infondata, non tiene conto che il principio dell'applicabilità della legge penale più favorevole al reo, stabilito dall'art. 2 del codice penale, incidendo sullo status libertatis e sui diritti fondamentali dei cittadini ed essendo stato recepito dall'art. 25, secondo comma, Cost., ha rilevanza costituzionale.

Di conseguenza, concludono i giudici a quibus, gli artt. 247 e 248 citati determinano un'ingiustificata disparità di trattamento tra gli imputati a seconda che nei loro procedimenti siano o non siano state compiute le formalità d'apertura del dibattimento.

Quanto alla rilevanza i giudici a quibus osservano che nei procedimenti di cui si tratta, nei quali erano già state compiute le formalità d'apertura del dibattimento prima dell'entrata in vigore del nuovo codice processuale, gli imputati hanno chiesto la definizione del processo col rito abbreviato e che l'accoglimento della questione é certamente rilevante in quanto incide sulla quantifica2ione della pena.

2.- Con due ordinanze emesse il Ì dicembre 1989 (Reg. ord. nn. 36/90 e 37/90) il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 delle disposizioni d'attuazione dei nuovo codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 Cost.

Il Tribunale si limita ad osservare che la disposizione impugnata "opera una disparità di trattamento tra sottoposti a procedimenti che siano addivenuti al giudizio dopo il 24 ottobre c.a. e quelli già chiamati a giudizio prima della detta data con giudizio di primo grado non ancora concluso, consentendo ai primi e non ai secondi d'usufruire del giudizio abbreviato".

3.- Nei giudizi - ad eccezione di quello sollevato con l'ordinanza del Pretore di Torino (Reg. ord. n. 24/90) - é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Osserva l'Avvocatura che la stessa ordinanza di rimessione riconosce l'inaccettabilità, nel nostro ordinamento a costituzione rigida, di disposizione a rilevanza costituzionale soltanto materiale quando non siano poste i essere da disposizioni costituzionali. É pertanto contraddittorio affermare che il principio dell'applicabilità della legge penale più favorevole abbia tale rilevanza e che ogni sua deroga debba essere giustificata da ragioni aventi pari rilevanza costituzionale. Oltre che contraddittoria, l'affermazione é incongrua in quanto, se la norma fosse formalmente costituzionale, non basterebbero ragioni a rilevanza costituzionale a stabilirne la deroga, perchè sarebbe sempre necessario che questa venga disposta con norma formale costituzionale. Del resto, la sentenza di questa Corte n. 164 del 1974 ha statuito che l'art. 25 Cost. vieta la retroattività della legge penale ma non concerne l'ultrattività, che é disciplinata dall'art. 2 del codice penale, in tal modo evidenziando la distinzione fra la valenza meramente ordinaria di quest'ultima disposizione ed il diverso contenuto normativo dell'art. 25 Cost.

É quindi evidente l'infondatezza della sollevata questione perchè il diritto soggettivo dell'imputato di chiedere i nuovi riti speciali e d'ottenere la conseguente riduzione della pena é riconosciuto nei limiti previsti dall'ordinamento e cioé nei casi in cui, con ragionevole valutazione legislativa che tien conto di esigenze di celerità del processo penale, quei riti siano adottabili e non già indipendentemente dalla loro adozione. A parere dell'Avvocatura generale, non é quindi violato l'art. 3 Cost. poichè non v'é uguaglianza delle posizioni iniziali; ed il diversi trattamento é giustificato da apprezzabili ragioni d'interesse pubblico.

Considerato in diritto

1.-Le ordinanze in epigrafe trattano un'unica questione e possono, pertanto, unificati i giudizi, essere decise con un'unica sentenza.

La sollevata questione di costituzionalità non è fondata.

Diverse ragioni militano a favore della costituzionalità della limitazione, ex art. 247 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, dell'ammissibilità del giudizio abbreviato (relativamente ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale) ai soli procedimenti per i quali non siano state compiute le formalità di apertura del dibattimento.

La prima delle sopra indicate ragioni consiste nell'inscindibilità della disposizione impugnata: questa, infatti, in tanto consente l'eventuale riduzione di pena in quanto intende sollecitare la richiesta, da parte dell'imputato, del giudizio abbreviato. E tutto ciò allo scopo d'assicurare la rapida definizione del maggior numero di processi; l'introduzione, nel nuovo codice di procedura penale, d'una pluralità di procedimenti speciali tende, appunto, a realizzare il predetto scopo, com'è, peraltro, generalmente riconosciuto, e come, d'altra parte, ammettono gli stessi giudici a quibus.

La predetta inscindibile unità finalistica dell'impugnata disposizione rende quanto meno discutibile la doppia considerazione del giudizio abbreviato, il quale (come, invece, si assume da alcuni dei giudici a quibus) se esaminato sotto il profilo del sistema processuale, costituisce mezzo per giungere alla rapida definizione dei processi mentre, esaminato dal lato dell'imputato, costituisce un <vero e proprio> diritto subiettivo a chiedere il giudizio abbreviato e ad ottenere la riduzione della pena.

Va, invece, osservato che, reso impossibile, con l'apertura del dibattimento, quel beneficio, per il sistema processuale, che giustifica l'inclusione del giudizio abbreviato (si badi: si tratta pur sempre di un procedimento speciale) nel sistema del nuovo codice di procedura-non essendo, cioé, razionale consentire un giudizio abbreviato, inidoneo a raggiungere lo scopo unitario della disposizione impugnata-è conseguentemente e razionalmente impossibile all'imputato realizzare il c.d. <diritto> ad ottenere la riduzione di pena. Quand'anche si configurasse un diritto dell'imputato ad ottenere la riduzione di pena qui in esame, l'utilità per il generale sistema processuale, e, pertanto, l'esperibilità del giudizio abbreviato costituirebbe, pur sempre, limite all'esercizio del predetto <diritto>.

2. - Si badi: il legislatore, che ben poteva dichiarare applicabile il nuovo codice di procedura penale soltanto ai fatti per i quali, alla data dell'entrata in vigore dello stesso codice ancora non fosse stato iniziato procedimento penale, ha invece, dettando apposite norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) ritenuto opportuno, al fine d'accelerare anche la definizione dei procedimenti pendenti e di conseguentemente permettere il funzionamento stesso del nuovo codice, estendere l'applicazione di alcuni istituti del nuovo codice anche ai procedimenti in corso alla data d'entrata in vigore dello stesso codice.

Tale applicazione è stata, tuttavia, razionalmente limitata ai soli casi in cui gli istituti stessi siano in grado di mantenere la loro fisionomia e finalità.

In altre parole: poichè lo scopo dell'istituto del procedimento abbreviato è quello di consentire la sollecita definizione del giudizio, escludendo la fase dibattimentale, è del tutto razionale che, per i reati pregressi e per i procedimenti in corso, tale istituto sia stato reso applicabile soltanto quando il suo scopo possa essere ugualmente perseguito, e cioé soltanto quando non si sia ancora giunti al dibattimento.

Anzi, irrazionale sarebbe stata un'applicazione del giudizio abbreviato oltre i predetti limiti. Infatti, in tanto è riconosciuto il <diritto> dell'imputato di chiedere che il processo sia definito nell'udienza preliminare, ex primo comma dell'art. 247 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e di ottenere i conseguenziali benefici, in quanto, da un lato, si consente una rapida definizione del giudizio e, dall'altro, tal diritto funge, per così dire, da corrispettivo per il rischio che assume l'imputato d'essere giudicato allo stato degli atti e di rinunciare al dibattimento, dal quale potrebbe anche scaturire una pronuncia a lui più favorevole. Pertanto, se fosse possibile all'imputato chiedere il rito abbreviato anche nel caso che il dibattimento sia già iniziato, i benefici non sarebbero più giustificati nè dallo scopo (ormai impossibile) d'eliminare la fase dibattimentale nè dal rischio assunto dall'imputato, il quale invece si troverebbe nella comoda situazione di decidere dopo che il Pubblico Ministero ha già offerto le sue prove e comunque dopo aver potuto valutare l'andamento del dibattimento stesso. Si tratterebbe quindi d'una situazione ingiustificata ed irrazionale.

Non è, pertanto, producente il confronto fra imputati per i quali il dibattimento sia stato o non sia stato ancora aperto proprio perchè si tratta di situazioni oggettivamente diverse; L'apertura del dibattimento rende irrazionale l'applicabilità del giudizio abbreviato.

Ugualmente inconferente è il richiamo all'art. 448 del nuovo codice ed alla possibilità che il giudice applichi la riduzione della pena dopo il dibattimento quando ritenga ingiustificato il dissenso del Pubblico Ministero. Anche questo caso, infatti, presuppone pur sempre che l'imputato abbia fatto la richiesta (assumendosi il relativo rischio) prima del dibattimento, mentre nel caso di specie si tratterebbe di imputati che sarebbero autorizzati ad ottenere i benefici senza correlativi rischi.

3. - Di tutto ciò non possono non essere consapevoli i giudici a quibus. Il ricorso al principio dell'applicabilità della legge più favorevole al reo, di cui all'art. 2, terzo comma, del codice penale, che si assume recepito dall'art. 25, secondo comma, Cost., va considerato, infatti, come ricerca d'un principio valido a superare le ragioni che militano a favore della costituzionalità della disposizione impugnata.

In questa sede, non è consentito addentrarsi nell'esame del tema dell'appartenenza o meno, alla Costituzione, del principio di retroattività della <posteriore> legge penale favorevole all'imputato.

La mancanza, nella Costituzione, d'esplicita menzione del predetto principio e l'approvazione dell'ordine del giorno Giovanni Leone ed altri, soppressivo della seconda parte del secondo comma dell'art. 20 del progetto (dove costituzionalmente si sanciva la retroattività della legge posteriore favorevole al reo: cfr. seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea Costituente) sembra dar torto ai giudici a quibus.

Senonchè, i lavori preparatori vanno studiati ed approfonditi nelle motivazioni che conducono alle conclusioni soppressive.

In tanto, vale preliminarmente chiedersi se sia, per sè, sufficiente, al fine d'escludere l'appartenenza alla Costituzione d'un determinato principio, peraltro sempre appartenuto all'ordinamento previgente, il silenzio (e non l'esplicita esclusione).

Ma, di più, v'è da osservare che l'assoluta, stragrande maggioranza dei Costituenti non ha avuto mai dubbi sulla costituzionalizzazione anche del principio di retroattività della legge penale <successiva>, favorevole al reo.

Ed infatti, nella seduta antimeridiana del 25 gennaio 1947 dell'adunanza plenaria della Commissione per la Costituente, l'art. 19 del progetto risultava così formulato: <Nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, precostituito per legge; nè può essere punito se non in virtù di una legge già in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo>.

Va aggiunto che gran parte degli emendamenti proposti alla seconda parte del secondo comma dell'art. 20 (il contenuto dell'art. 19 era stato intanto parzialmente trasferito nell'art. 20 del progetto) ancora prevedevano come costituzionalizzato anche il principio di retroattività della legge penale <successiva> favorevole al reo (cfr. verbali della ricordata seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea Costituente).

L'accordo, nell'ora citata seduta, non fu raggiunto soltanto sull'ampiezza delle nozioni di leggi eccezionali e temporanee e cioé sull'ampiezza delle deroghe al principio, in sè accettato, della retroattività della legge <successiva> favorevole al reo: fu soltanto per il mancato accordo su tal punto che venne proposto l'ordine del giorno, approvato, soppressivo dell'esplicita menzione della retroattività della legge penale <posteriore> favorevole al reo.

Queste considerazioni non intendono, certo, giungere a respingere, in questa sede, l'opinione tradizionale in materia ma valgono a chiarire da una parte che quasi tutti i Costituenti non furono per nulla alieni dal costituzionalizzare anche il principio di retroattività della legge penale, successiva al fatto, favorevole al reo e d'altra parte che gli stessi Costituenti furono ben <attenti e preoccupati> delle eccezioni al principio della predetta retroattività. Resta da vagliare-ma non è questa la sede- se la rimessione al legislatore ordinario della risoluzione delle questioni attinenti alla successione di leggi penali nel tempo (così si esprimevano i Costituenti) esprima disinteresse, da parte degli stessi Costituenti, per il tema, con la conseguenza dell'assoluta <libertà>, in proposito, del legislatore ordinario oppure equivalga a concessione a quest'ultimo della sola discrezionale valutazione in ordine alle leggi eccezionali, temporanee (e finanziarie) uniche idonee a derogare al principio di retroattività delle leggi penali <posteriori> favorevoli al reo.

4.-Il caso di specie va risolto senza ricorso all'esame dell'ampiezza, portata, e contenuti dell'art. 2 del codice penale.

Questa disposizione entra in discussione, infatti, solo e soltanto ove vi sia stato un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto tipico oggetto del giudizio. La dottrina è, invero, attenta a chiarire che ex art. 2, secondo e terzo comma, del codice penale, non è consentito sottoporre a punizione (od a più grave punizione) un soggetto per un fatto che, nello stesso momento in cui vien perseguito, non riveste più, per la coscienza sociale, quella nota d'illiceità per la quale fu legislativamente incriminato.

Soprattutto a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, occorrerebbe, pertanto, rileggere l'art. 2, secondo e terzo comma, del codice penale e chiarire l'estraneità all'ambito d'operatività dei principi enunciati dai predetti commi (retroattività della legge penale successiva abrogativa e della legge successiva modificativa in melius, salvo il giudicato) delle ipotesi nelle quali non si sia verificato un mutamento, favorevole al reo, della valutazione della coscienza sociale rispetto ad un fatto penalmente illecito.

Poichè è generalmente riconosciuto che indispensabile premessa dell'applicazione dei principi innanzi ricordati - sia che si faccia ricorso all'irrazionalità di punire (o continuare a punire in maniera sfavorevole) alcuni soggetti per fatti che chiunque può impunemente (o subendo un trattamento più favorevole) commettere, nel momento stesso in cui i primi subiscono <pesanti> condanne, sia che ci si riferisca al favor libertatis, del quale irretroattività della legge penale creativa o modificativa in peius e retroattività della legge penale abolitiva o modificativa in melius costituirebbero derivazioni-è il mutamento (favorevole al reo) della valutazione sociale rispetto ad un fatto che, appunto a seguito di tale mutata valutazione, la legge penale sanziona in maniera più lieve od addirittura (secondo comma dell'art. 2 del codice penale) considera penalmente lecito: nelle ipotesi in cui non si è verificata una mutata valutazione sociale rispetto al fatto tipico incriminato si è fuori dell'ambito d'applicabilità dei principi in discussione.

Or, nel caso in esame, la valutazione sociale negativa, rispetto ai fatti oggetto del processo penale, non è mutata: nulla, invero, è variato in ordine all'illiceità od alla disciplina giuridico-penale dei fatti previsti nel codice penale sostanziale.

La possibilità della riduzione di pena per chi richiede il procedimento abbreviato vale soltanto, come s'è innanzi osservato, a stimolare, nei limiti dell'esperibilità del procedimento abbreviato, la richiesta, da parte dell'imputato, dello stesso procedimento: l'intento <stimolatorio> della richiesta del giudizio abbreviato non può, pertanto, assurgere a mutata valutazione sociale, in senso favorevole al reo, del fatto, oggetto del giudizio, previsto e punito dal codice penale sostanziale.

Consegue che al caso in esame non può applicarsi il disposto di cui al terzo comma dell'art. 2 del codice penale. Rimane, pertanto, libero il legislatore di non far retroagire la disposizione impugnata a favore degli imputati i cui procedimenti abbiano, alla data del 24 ottobre 1989, già raggiunto il dibattimento. Non risulta violato, pertanto, l'art. 3, primo comma, Cost., a causa, come s'è innanzi accennato, della diversità delle situazioni diversamente valutate e disciplinate dal legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art . 247 delle norme d'attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) sollevata, con riferimento all'art. 3 Cost., dal Pretore di Torino con ordinanza 14 novembre 1989, dal Tribunale di Mondovì con due ordinanze del 23 novembre e del 7 dicembre 1989 e dal Tribunale di Roma con due ordinanze del 1° dicembre 1989.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/05/90.

Giovanni CONSO, PRESIDENTE

Renato DELL'ANDRO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 31/05/90.