SENTENZA N. 209
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI
Presidente
- Giorgio LATTANZI
Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14,
comma 16, lettera f), del decreto-legge
31 maggio 2010, n. 78, (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in
legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Consiglio di Stato nel
procedimento vertente tra RAI-Radiotelevisione Italiana spa, RAI Way spa e Roma
Capitale ed altre, con ordinanza
del 23 giugno 2015, iscritta al n. 291 del registro ordinanze 2015 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno
2015.
Visti l’atto di costituzione di RAI-Radiotelevisione
Italiana spa e di RAI Way spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2017 il Giudice
relatore Aldo Carosi;
uditi l’avvocato Giuseppe Lavitola per RAI-Radiotelevisione Italiana spa e per RAI Way spa e l’avvocato dello Stato Massimo
Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1.− Il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 16, lettera f) della legge 30 luglio 2010, n. 122 [recte art. 14,
comma 16, lettera f), del
decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010 n. 122], per violazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione.
La disposizione impugnata stabilisce
che: «[…] in considerazione della specificità di Roma quale Capitale della
Repubblica, e fino alla compiuta attuazione di quanto previsto ai sensi
dell’articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42 [recante «Delega al Governo
in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della
Costituzione»], per garantire l’equilibrio economico-finanziario della gestione
ordinaria, il Comune di Roma può adottare le seguenti apposite misure: […] f) contributo straordinario nella misura
massima del sessantasei per cento del maggior valore immobiliare conseguibile,
a fronte di rilevanti valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento
urbanistico generale, in via diretta o indiretta, rispetto alla disciplina
previgente per la realizzazione di finalità pubbliche o di interesse generale,
ivi comprese quelle di riqualificazione urbana, di tutela ambientale, edilizia
e sociale. Detto contributo deve essere destinato alla realizzazione di opere
pubbliche o di interesse generale ricadenti nell’ambito di intervento cui accede,
e può essere in parte volto anche a finanziare la spesa corrente, da destinare
a progettazioni ed esecuzioni di opere di interesse generale, nonché alle
attività urbanistiche e servizio del territorio. Sono fatti salvi, in ogni
caso, gli impegni di corresponsione di contributo straordinario già assunti dal
privato operatore in sede di accordo o di atto d’obbligo a far data
dall’entrata in vigore dello strumento urbanistico generale vigente».
La questione è sorta nell’ambito di un
ricorso proposto da RAI-Radiotelevisione Italiana spa e RAI Way spa, con il
quale dette società chiedevano l’annullamento dei provvedimenti relativi
all’adozione del piano regolatore generale (PRG) del Comune di Roma, ed in
particolare lamentavano l’illegittimità della previsione del contributo
straordinario di cui al combinato disposto degli artt. 102, comma 5, e 20,
comma 3, delle norme tecniche di attuazione (NTA), nella parte in cui
assoggettano le cosiddette “valorizzazioni urbanistiche”, frutto della nuova
pianificazione, ad un contributo straordinario, deducendo la carenza della
necessaria base legislativa; con successiva memoria le ricorrenti sollevavano
censure di incostituzionalità dell’art. 14, comma 16, lettera f) del d.l. n.
78 del 2010, nel testo sostituito dalla legge n. 122 del 2010 − entrato
in vigore nelle more del giudizio di primo grado.
Il Tribunale amministrativo regionale
del Lazio, con sentenza n. 5887 del 2011, dichiarava inammissibile il ricorso
per carenza di un interesse attuale e concreto a proporre l’impugnazione.
In appello le società ricorrenti
riproponevano le censure nei confronti dell’art. 14, comma 16, lettera f) del d.l. n.
78 del 2010, nonché dell’art. 17, comma 1, lettera g), n. 3, del decreto legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure
urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), nel testo
sostituito dalla legge di conversione 11 novembre 2014, n. 164.
Il Consiglio di Stato, nell’accogliere
alcune delle sollecitazioni delle società appellanti, premette di ritenere
infondata l’eccezione di inammissibilità accolta dal TAR del Lazio, in quanto
non si potrebbe dubitare della ricorrenza dell’interesse ad agire. Infatti,
secondo le società ricorrenti la dismissione delle aree cui farà seguito il
mutamento di destinazione oggetto di contributo straordinario, costituirebbe un
passaggio sicuro ed obbligato talché la lesione derivante dalle norme, oltre
che concreta, sarebbe suscettibile di verificarsi con un elevato grado di
probabilità nel prossimo futuro.
Riferisce il rimettente che, per effetto
di accordi conclusi tra il Ministero delle comunicazioni e la Rai, per il passaggio
delle trasmissioni radiotelevisive alla tecnologia digitale terrestre e per la
riduzione dei servizi in onda media, le società ricorrenti avevano necessità di
dismettere i complessi immobiliari siti in località «Prato smeraldo» e «Santa
Palomba» sino a quel momento utilizzati per i servizi in precedenza erogati. A
tale scopo, avevano a suo tempo formulato osservazioni al nuovo PRG di Roma, al
fine di assoggettare le predette aree, a seguito della dismissione, a strumento
urbanistico attuativo, chiedendo, per il complesso immobiliare di «Prato
Smeraldo», una destinazione prevalentemente residenziale e, per quello di
«Santa Palomba», una destinazione commerciale e a servizi. Le osservazioni
erano state parzialmente accolte dal Comune di Roma, sicché l’art. 102, quinto
comma, delle NTA, aveva previsto il riuso della edificazione dismessa con
destinazioni d’uso commerciali e servizi, turistico-ricettive e produttive.
La norma in questione prevedeva anche
l’assoggettamento al contributo straordinario previsto dall’art. 20 delle
stesse NTA, per la superficie destinata alle funzioni turistico-ricettive e
produttive, escluse le destinazioni «servizi alle persone» e «attrezzature
collettive».
Secondo il giudice a quo tale previsione dovrebbe ritenersi già lesiva, nella misura
in cui essa incide immediatamente sulla convenienza economica delle programmate
operazioni di dismissione, tra l’altro poste a base delle osservazioni al PRG
proposte dalle due società, e prese espressamente e specificatamente in considerazione
dalle norme tecniche impugnate aventi proprio ad oggetto il «riuso della
edificazione dismessa».
In punto di rilevanza osserva
ulteriormente il Consiglio di Stato che, pur potendo ritenersi − come già
affermato in precedenza (è citata la sentenza del Cons.
Stato 13 luglio 2010, n. 4545) − che disposizioni quali quelle contestate
costituiscano espressione della potestà conformativa del territorio
nell’esercizio della propria attività di pianificazione, concretizzatasi
attraverso il ricorso a modelli privatistici e consensuali, a mente dell’art.
11, legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi», sarebbe del tutto evidente che l’art. 14, comma 16, lettera f) del d.l. n.
78 del 2010 debba esser inteso quale disposizione posta a “copertura”
legislativa del contributo straordinario in contestazione, ovvero emanata al
preciso scopo di legittimare ex post
la previsione del contributo straordinario da parte del Comune di Roma.
Conseguentemente, in disparte gli impegni già assunti dal privato a mezzo di un
accordo già formalizzato, secondo il Consiglio di Stato dovrebbe ritenersi che
le altre procedure urbanistiche di valorizzazione citate dalla norma, ancora in itinere, restino disciplinate dalla
norma citata, ed alla luce di questa dovrebbero essere giudicate.
Evidenzia inoltre il giudice a quo che, successivamente, per effetto
delle modifiche introdotte dall’art. 17, comma l, lettera g) della legge 11 novembre 2014, n. 164 [recte: del decreto-legge 11
settembre 2014, n. 133,] (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la
semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive), come modificato dalla legge di conversione
11 novembre 2014, n. 164, all’art. 16, comma 4, del d.P.R.
6 giugno 2001 n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (testo A)», sarebbe stata introdotta su tutto
il territorio nazionale la previsione di assoggettamento ad un analogo
contributo straordinario; inoltre, la medesima legge n. 164 del 2014 avrebbe
anche inserito – mediante l’art. 17, comma l, lettera g), numero 3-bis del d.l. n. 133 del 2014 − un
successivo comma 4-bis all’art. 16
del d.P.R. n. 380 del 2001, con il quale si fanno
salve le «diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti
urbanistici generali». Secondo il Consiglio di Stato in tal modo sarebbe fatto
salvo anche l’art. 20 delle NTA del nuovo PRG di Roma e soprattutto, a maggior
ragione, in quanto norma speciale, si dovrebbe ritenere implicitamente salvo
anche l’art. 14, comma 16, lettera f)
del d.l. n. 78 del 2010, oggetto di impugnazione.
Il rimettente esclude qualsiasi
possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata «essendo
qualsivoglia approccio esegetico inibito dal carattere perentorio della norma,
nonché dalla mancanza nell’ordinamento di norme e principi, anche in materia
perequativa, la cui tenuta costituzionale si possa dire certa al punto di
consentire di colmare le lacune o di emendare le norme con l’ausilio
dell’analogia».
1.1.− Tanto premesso, nel merito
il Consiglio di Stato ritiene che la norma impugnata violi l’art. 23 Cost., in quanto il contributo straordinario, finalizzato a
«garantire l’equilibrio economico-finanziario della gestione ordinaria del
Comune di Roma», pur accedendo a previsioni urbanistiche espressive del
tradizionale potere pianificatorio, introdurrebbe una
prestazione patrimoniale imposta, seppur collegata ad un beneficio derivante
dall’attività istituzionale dell’ente di pianificazione del territorio, che
tale prestazione impone, e ciò secondo la logica tipica della contribuzione in
materia edilizia. Quel che muterebbe rispetto all’ordinamento previgente, secondo il rimettente, è che, ove le finalità della
pianificazione siano quelle indicate, e gli effetti siano economicamente
stimabili in termini di incremento di valore dell’immobile interessato dalla
pianificazione, il proprietario di quest’ultimo è soggetto all’imposizione di
un contributo straordinario nella misura massima del sessantasei per cento del
maggior valore immobiliare conseguibile.
1.1.1.− Sulla scorta di tale qualificazione, eccepisce il
rimettente che, pur essendo pacifico che la riserva di legge di cui all’art. 23
della Costituzione abbia carattere relativo, nel caso concreto si tratterebbe
di una prescrizione normativa “in bianco” che non preciserebbe in alcun modo i
contenuti ed i modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale
di libertà dei cittadini. Tale disposizione difatti porrebbe criteri vaghi
(quale sarebbe la nozione di «rilevanti» valorizzazioni immobiliari) ed
imprecisi (quale sarebbe la riferibilità di tali valorizzazioni a fatti
generatori anche in via «indiretta») che, come tali, sarebbero inidonei a
delimitare la discrezionalità dell’autorità amministrativa nell’esercizio del
potere impositivo. Parimenti, secondo il Consiglio di Stato, difetterebbero i
criteri in ordine al quantum della
pretesa, poiché l’indicazione di una sola misura massima del sessantasei per
cento lascerebbe l’amministrazione totalmente libera di fissare l’aliquota in
un margine eccessivamente ampio (da 0 al 66 per cento), in assenza di
qualsivoglia parametro o criterio.
1.1.2.− Sotto altro profilo, l’art. 14, comma 16, lettera f) del d.l. 78
del 2010 violerebbe l’art. 23 Cost., alla luce del
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi di imparzialità e buon andamento di cui
all’art. 97 Cost. Secondo il Consiglio di Stato la
particolare gravosità dell’imposizione patrimoniale si spiegherebbe solo con
riferimento al principio della derivazione del beneficio dall’esercizio del
potere amministrativo di conformazione della proprietà: l’ente sarebbe
legittimato a chiedere una somma così alta perché essa sarebbe il frutto di una
previa attività amministrativa dell’ente, creativa di un plusvalore ancora più rilevante. L’obbligazione pecuniaria citata,
secondo il rimettente, avrebbe quindi un senso solo se connessa al principio di
perequazione: poiché l’amministrazione, nel perseguimento di una corretta ed
imparziale pianificazione del futuro assetto del territorio, genera, per alcuni
proprietari, rilevanti valorizzazioni rispetto ad altri, si dovrebbe ritenere
equo che i proprietari beneficiati restituiscano, quanto meno in parte, il plusvalore a favore del territorio, così
che anche gli altri proprietari ne possano indirettamente beneficiare. Le
esigenze di restituzione, in sintesi, dovrebbero essere quelle proprie dei
proprietari non beneficiati in funzione perequativa, non già quelle
dell’amministrazione quale compenso o contributo per la generazione del beneficio.
Sulla scorta di tali considerazioni, secondo il Consiglio di Stato, la norma
sarebbe incostituzionale nella parte in cui consentirebbe di destinare
promiscuamente il gettito derivante dal contributo straordinario, non solo
«alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale ricadenti
nell’ambito dell’intervento cui accede» ma anche in parte a «finanziare la
spesa corrente, da destinare a progettazioni ed esecuzioni di opere di
interesse generale, nonché alle attività urbanistiche e servizio del
territorio». La formula sarebbe così ampia e vaga da legittimare, nella
sostanza, la generica utilizzabilità del gettito per qualsivoglia esigenza del
Comune di Roma, ove si consideri che potrebbero rientrare nella spesa corrente
di Roma Capitale anche gli oneri del personale amministrativo e le spese
generali in qualche modo correlate al «servizio del territorio».
1.2.− La disposizione impugnata violerebbe inoltre l’art.
53 Cost. in quanto
colpirebbe una capacità contributiva futura e non attuale, identificando il
fatto imponibile nel maggior valore immobiliare «conseguibile» e non già in
quello effettivamente conseguito, prescindendo dal concreto sfruttamento
edilizio.
1.3.− L’art. 14, comma 16, lettera
f) del d.l.
n. 78 del 2010 violerebbe poi gli artt. 3 e 53 Cost.,
anche sotto il profilo del principio di eguaglianza tributaria, in quanto
differenzierebbe tra titolari di aree valorizzate o meno «rilevantemente»,
sottoponendo solo i primi a gravosa imposizione patrimoniale e consentendo
invece ai secondi il pieno ed esclusivo godimento della rendita generata, con
esenzione totale dall’imposizione; essa inoltre sarebbe discriminatoria anche
sotto il profilo dell’ambito applicativo e dei contenuti della previsione
urbanistica “valorizzante”, generando obbligazioni pecuniarie in funzione
tendenzialmente perequativa solo per le ipotesi di varianti finalizzate alla
realizzazione di finalità pubbliche o di interesse generale, ivi comprese
quelle di riqualificazione urbana, di tutela ambientale, edilizia e sociale,
che comportino rilevante valorizzazione in favore del proprietario, ma, secondo
il giudice a quo, del tutto
irragionevolmente, non le genererebbe invece per le varianti o per i nuovi
piani che siano semplicemente ispirati ad una ratio di fisiologica espansione urbanistica. Infine, la
disposizione impugnata creerebbe una sperequazione tra soggetti già
oggettivamente beneficiati dalle previsioni del piano urbanistico “originario”,
esentati dal contributo, e soggetti interessati dalle varianti o dal nuovo
piano che, per ciò solo, sarebbero invece soggetti a tale onere aggiuntivo,
anche e paradossalmente in favore degli altri proprietari originariamente
beneficiati.
2.− Ha svolto atto di intervento nel presente giudizio
il Presidente del Consiglio dei ministri, deducendo l’inammissibilità o
comunque l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate.
2.1.− In via preliminare il
Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce l’inammissibilità delle
questioni in quanto il giudice a quo,
nel motivare in ordine al requisito della rilevanza, sopravvenuta ai
provvedimenti impugnati nel giudizio amministrativo, avrebbe omesso del tutto
di valutare, ai fini della definizione del procedimento, se i provvedimenti
stessi possano o meno ritenersi legittimi sulla base della situazione normativa
esistente all’epoca della loro adozione; se cioè essi possano in ipotesi
continuare a “vivere” senza la copertura legislativa operata con la norma
impugnata e che, secondo il rimettente, sarebbe stata emanata al preciso scopo
di legittimare ex post la previsione
del contributo straordinario da parte del Comune di Roma. La mancata previa
valutazione della potenziale fondatezza del ricorso in conseguenza
dell’illegittimità degli atti impugnati all’epoca della loro adozione e quindi
della necessità di applicare, per scongiurare detta illegittimità, la norma
sopravvenuta di cui si discute e della “clausola di salvaguardia” contenuta
nella sua ultima parte, renderebbe la questione di costituzionalità
inammissibile per difetto di compiuta motivazione in punto di rilevanza.
2.2.− Nel merito, il Presidente del Consiglio dei
ministri deduce la infondatezza di tutti i profili di illegittimità
prospettati.
Eccepisce l’interveniente che la norma
impugnata si inserisce in un coacervo di disposizioni volte a salvaguardare
l’andamento della finanza pubblica recando, da un lato, disposizioni valevoli
per tutti gli enti territoriali e, dall’altro, previsioni particolari
riguardanti il solo Comune di Roma, sicché le censure di costituzionalità non
potrebbero prescindere da una visione complessiva delle esigenze di tutela
della finanza pubblica e del principio di buon andamento.
Il Presidente del Consiglio dei
ministri, innanzitutto, esprime dubbi in ordine al fatto che il contributo
straordinario previsto dalla disposizione impugnata possa correttamente
qualificarsi quale prestazione patrimoniale imposta a mente dell’art. 23 Cost., in
quanto sarebbe evidente la sua prevalente natura sinallagmatica. In ogni caso,
osserva che la riserva di legge relativa prevista dalla Costituzione
risulterebbe, nella fattispecie, soddisfatta in quanto la legge avrebbe rimesso
la misura del contributo all’amministrazione, laddove i suoi presupposti in
fatto non potrebbero ritenersi arbitrari, ma determinabili in base a
valutazioni tecniche e/o di discrezionalità tecnica espressamente contemplate.
Né, secondo il Presidente del Consiglio
dei ministri, potrebbe desumersi la particolare gravosità dell’imposizione
patrimoniale, essendo essa correlata all’incremento di valore dell’immobile di
proprietà.
In ogni caso, si osserva che i proventi
del contributo sono altresì da destinarsi in via principale alla realizzazione
di opere pubbliche o di interesse generale ricadenti nell’ambito di intervento
cui accede e, solo in via sussidiaria – nell’ottica della già illustrata
necessità di concorrere al buon andamento della finanza pubblica e in
particolare di quella dell’ente locale – «in parte […] a finanziare la spesa
corrente, da destinare a progettazioni ed esecuzioni di opere di interesse
generale, nonché alle attività urbanistiche e servizio del territorio». Quindi,
secondo l’interveniente, la normativa di cui si discute sembrerebbe proprio
ispirata al perseguimento del principio del buon andamento nonché alla salvaguardia
di altri principi, quali quello del pareggio di bilancio.
In relazione al presunto profilo di
disparità di trattamento, motivato sulla circostanza che dell’utilità derivante
dagli interventi di interesse generale beneficerebbero anche altri soggetti,
obietta il Presidente del Consiglio dei ministri che, caratteristica propria
dell’attività amministrativa è quella di essere destinata a «beneficiare» non
singoli soggetti, ma tutta la «collettività», la quale comprende anche i
proprietari di immobili non sottoposti ad un medesimo obbligo contributivo, ma
ciò non può essere certo considerato come una forma di discriminazione e di
violazione del principio di uguaglianza.
Parimenti infondate per il Presidente
del Consiglio dei ministri sarebbero le doglianze che assumono la violazione
dell’art. 53 Cost. Innanzitutto l’interveniente
dubita che il contributo introdotto dalla disposizione impugnata abbia natura
di tributo. In ogni caso, evidenzia l’intrinseca contraddittorietà
dell’argomentazione spesa dal rimettente (la capacità contributiva deve essere
attuale, e non solo potenziale) a fronte della ritenuta attualità
dell’interesse ad agire, laddove emergerebbe invece la certezza della
dismissione degli immobili.
Osserva il Presidente del Consiglio dei
ministri che già il solo mutamento della qualificazione dell’area o
dell’immobile prodotto direttamente da uno strumento urbanistico dovrebbe
ritenersi indice di capacità contributiva, e lo stesso dovrebbe ritenersi per
trasformazioni di fatto che incidano sul valore degli stessi sul mercato,
sicché anche laddove si ritenesse che il contributo abbia natura di tributo, ci
si troverebbe in presenza di una capacità contributiva attuale e non futura,
effettiva e non apparente e fittizia.
Secondo l’interveniente non
sussisterebbe neppure la pretesa disparità di trattamento con i titolari di
altre aree “valorizzate” in misura non rilevante. Ciò, innanzitutto, per
effetto delle inevitabili differenze che scaturiscono dal susseguirsi delle
norme nel tempo e, comunque, perché la titolarità di aree suscettibili di
essere valorizzate in modo «rilevante» costituirebbe un valido criterio
discretivo per individuare i soggetti tenuti al versamento del tributo. Si
tratterebbe di una valutazione rimessa, in ogni caso, alla discrezionalità del
legislatore, che non sarebbe contestabile in quanto non manifestamente
irrazionale ed ispirata al perseguimento di finalità di carattere generale
degne di tutela.
3.− Hanno svolto atto di intervento anche le società RAI-Radiotelevisione Italiana spa e RAI Way spa,
deducendo motivazioni a sostegno dell’incostituzionalità della disposizione
impugnata.
Le società intervenienti evidenziano
che, in base alle NTA del PRG, il Comune di Roma avocherebbe a sé, a titolo
gratuito, i tre quinti della edificabilità espressa da aree di proprietà
privata ed al tempo stesso assoggetta la metà della residua edificabilità, a
disposizione del proprietario, anche al pagamento del contributo straordinario
di urbanizzazione.
3.1.− Secondo le medesime società
la Corte dovrebbe risolvere come preliminare e fondamentale la questione se la
nuova cubatura e/o la nuova destinazione d’uso attribuite dal nuovo PRG,
appartengano o meno al proprietario, in quanto tale potenzialità edificatoria,
secondo le predette, dovrebbe ritenersi intrinsecamente propria di quelle aree
all’epoca di formazione, adozione ed approvazione del nuovo strumento
urbanistico generale; diversamente, il contributo straordinario produrrebbe un
«surrettizio» scorporo dello ius aedificandi (sono richiamate le sentenze n. 5 del 1980,
n. 127 del 1983
e n. 179 del
1989).
3.2.− Con riguardo alle censure
dedotte dal rimettente in relazione all’art. 23 Cost.,
le intervenienti evidenziano che, data la natura di prestazione patrimoniale
imposta, la violazione dell’art. 23 Cost., dovrebbe
rinvenirsi in un più radicale profilo rispetto a quelli indicati dal Consiglio
di Stato, costituito proprio dal surrettizio scorporo dello ius aedificandi prodotto dal contributo
straordinario; al riguardo evidenziano che la Corte avrebbe precisato che
l’espressione «in base alla legge» contenuta nell’art. 23 Cost.
si dovrebbe interpretare in relazione al fine della
protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale
fondamentale principio costituzionale (sent. n. 83 del
2015).
In relazione alla dedotta
incostituzionalità della norma, laddove essa potrebbe essere destinata a
finanziare anche la spesa corrente da destinare a progettazioni ed esecuzioni
di opere d’interesse generale, nonché alle attività urbanistiche a servizio del
territorio, le società richiamano quanto affermato dal Consiglio di Stato (sent.
n. 616 del 2014), circa il fatto che la perequazione non può servire
ai Comuni per finanziare qualsiasi opera pubblica purché compresa nella
programmazione triennale, essendo necessario, invece, che vengano finanziate
opere «in prossimità» dell’intervento.
3.3.− Infine, relativamente alle censure imperniate sulla
violazione dell’art. 53 Cost., secondo le
intervenienti non potrebbe dubitarsi che si tratti di un prelievo di ricchezza
destinato al soddisfacimento di bisogni pubblici, riguardante determinate
categorie di soggetti (proprietari di aree edificabili). Ed al riguardo
osservano che il momento impositivo non potrebbe essere quello del rilascio del
permesso di costruire e che la sussistenza o meno dell’incremento di valore e
la sua relativa misura sarà verificabile esclusivamente al momento della
vendita.
Considerato
in diritto
1.− Il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 16, lettera f), della legge 30 luglio 2010 n. 122 [recte: art. 14,
comma 16, lettera f), del
decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) convertito dalla
legge 30 luglio 2010 n. 122], per violazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della
Costituzione.
La questione è sorta nell’ambito di un
ricorso proposto da RAI-Radiotelevisione Italiana spa
e RAI Way spa, con il quale dette società chiedevano l’annullamento dei
provvedimenti relativi all’adozione del piano regolatore generale (PRG) del
Comune di Roma, ed in particolare lamentavano l’illegittimità della previsione
del contributo straordinario di cui al combinato disposto degli artt. 102,
comma 5, e 20, comma 3, delle norme tecniche di attuazione (NTA) di detto PRG,
nella parte in cui assoggettavano ad un contributo straordinario le cosiddette
“valorizzazioni urbanistiche” frutto della nuova pianificazione.
Riferisce il giudice rimettente che per
effetto di accordi conclusi tra il Ministero delle comunicazioni e la RAI le
società ricorrenti avevano necessità di dismettere i complessi immobiliari siti
in località «Prato smeraldo» e «Santa Palomba» sino a quel momento utilizzati
per i servizi in precedenza erogati. A tal scopo, a suo tempo avevano formulato
osservazioni al nuovo PRG di Roma al fine di assoggettare le predette aree a
seguito della dismissione, a strumento urbanistico attuativo, chiedendo, per Prato
Smeraldo, una destinazione prevalentemente residenziale e, per Santa Palomba,
una destinazione commerciale e a servizi.
Le osservazioni erano state parzialmente
accolte dal Comune di Roma ed infatti l’art. 102, quinto comma, delle NTA aveva
previsto il riuso della edificazione dismessa con destinazioni d’uso
commerciali e servizi, turistico-ricettive e produttive. Tuttavia, la norma in
questione stabiliva anche l’assoggettamento al contributo straordinario
previsto dall’art. 20 delle stesse NTA, per la superficie destinata alle
funzioni turistico-ricettive e produttive, escluse le destinazioni «servizi
alle persone» e «attrezzature collettive».
Secondo il giudice a quo tale previsione dovrebbe ritenersi già lesiva, nella misura
in cui essa incide immediatamente sulla convenienza economica delle programmate
operazioni di dismissione, poste a base delle osservazioni al PRG proposte
dalle due società, e prese espressamente e specificatamente in considerazione
dalle norme tecniche impugnate aventi proprio ad oggetto il «riuso della
edificazione dismessa».
In punto di rilevanza, osserva ulteriormente il
Consiglio di Stato che, pur potendo ritenersi − come già affermato in
precedenza dal medesimo giudice amministrativo di appello (è citata la sentenza
Cons. Stato 13 luglio 2010, n. 4545) − che
disposizioni quali quelle contestate, costituiscano espressione della potestà
conformativa del territorio nell’esercizio della propria attività di
pianificazione, concretizzatasi attraverso il ricorso a modelli privatistici e
consensuali, ex art. 11 della legge 7
agosto 1990 n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi), sarebbe nondimeno del tutto
evidente che l’art. 14, comma 16, lettera f)
del d.l. n. 78 del 2010, dovrebbe essere inteso quale
disposizione posta a dare “copertura” legislativa al predetto contributo
straordinario, in sostanza emanata al preciso scopo di legittimare ex post la previsione del contributo
straordinario da parte del Comune di Roma; sicché, prosegue il rimettente, in
disparte gli impegni già assunti dal privato a mezzo di un accordo già
formalizzato, le altre procedure urbanistiche di valorizzazione citate dalla
norma ancora in itinere dovrebbero
ritenersi già disciplinate dalla norma citata, ed alla luce di questa
dovrebbero essere giudicate.
Evidenzia, inoltre, il giudice a quo che, successivamente, per effetto
delle modifiche recate dall’art. 17, comma l, lettera g) del decreto-legge 11 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura
dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle cattività produttive), come modificato, in sede di
conversione, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, all’art. 16, comma 4, del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)»,
sarebbe stato introdotto su tutto il territorio nazionale la previsione di
assoggettamento ad un analogo contributo straordinario; inoltre, la medesima
legge n. 164 del 2014 avrebbe anche inserito − nell’art. 17, comma l,
lettera g), numero 3-bis del d.l.
n. 133 del 2014 − un successivo comma 4-bis all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2001, con il quale si fanno salve le «diverse disposizioni delle legislazioni
regionali e degli strumenti urbanistici generali». Secondo il Consiglio di
Stato in tal modo sarebbe fatto salvo anche l’art. 20 delle NTA del nuovo PRG
di Roma e, soprattutto, a maggior ragione, in quanto norma speciale, si
dovrebbe ritenere implicitamente salvo anche l’art. 14, comma 16, lettera f), del d.l.
n. 78 del 2010 oggetto di impugnazione.
Nel merito, il Consiglio di Stato
ritiene che la norma impugnata violi l’art. 23 Cost.,
in quanto il contributo straordinario, finalizzato a garantire l’equilibrio
economico-finanziario della gestione ordinaria del Comune di Roma, pur
accedendo a previsioni urbanistiche espressive del tradizionale potere pianificatorio, introdurrebbe una prestazione patrimoniale
imposta ma che, nel caso concreto, avrebbe le caratteristiche di una
prescrizione normativa “in bianco”, dettando criteri vaghi (quale sarebbe la
nozione di «rilevanti» valorizzazioni immobiliari) ed imprecisi (quale sarebbe
la riferibilità di tali valorizzazioni a fatti generatori «indiretti») e che,
come tali, sarebbero inidonei a delimitare la discrezionalità dell’autorità
amministrativa nell’esercizio del potere impositivo.
Parimenti, secondo il Consiglio di Stato,
difetterebbero i criteri in ordine al quantum
della misura (indicato nella sola entità massima del 66 per cento) lasciando
all’amministrazione un margine eccessivamente ampio, in assenza di qualsivoglia
parametro o criterio.
Sotto altro profilo, secondo il giudice a quo sarebbe altresì violato l’art. 23 Cost.,
letto alla luce del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi di
imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.,
in quanto, secondo i principi della cosiddetta urbanistica perequativa, la
restituzione di parte del plusvalore
a favore del territorio, imponibile in capo ai proprietari beneficiati,
dovrebbe essere volta a vantaggio dei proprietari non beneficiati e non invece
a vantaggio dell’amministrazione, quale compenso o contributo per la
generazione del beneficio, come invece previsto dalla norma impugnata.
Inoltre, l’art. 14, comma 16, lettera f) del d.l. n.
78 del 2010, violerebbe l’art. 53 Cost., in quanto colpirebbe una capacità contributiva futura e
non attuale, che prescinderebbe dal concreto sfruttamento edilizio del terreno
.
Secondo il Consiglio di Stato tale disposizione
violerebbe poi gli artt. 3 e 53 Cost. anche sotto il
profilo del principio di eguaglianza tributaria, in quanto differenzierebbe,
senza offrire alcuna giustificazione, tra titolare di aree valorizzate
«rilevantemente» e titolari di aree edificabili valorizzate, anche se «non
rilevantemente», sottoponendo solo i primi a gravosa imposizione patrimoniale e
consentendo invece ai secondi il pieno ed esclusivo godimento della rendita
generata, con esenzione totale dall’imposizione; la norma sarebbe
discriminatoria anche sotto il profilo dell’ambito applicativo, generando
obbligazioni pecuniarie in funzione tendenzialmente perequativa solo per le ipotesi
di varianti finalizzate alla realizzazione di finalità pubbliche o di interesse
generale, ivi comprese quelle di riqualificazione urbana, di tutela ambientale,
edilizia e sociale, ma, secondo il giudice a
quo, del tutto irragionevolmente non le genererebbe invece per le varianti
o per i nuovi piani che siano semplicemente ispirate ad una logica di
fisiologica espansione urbanistica; essa, infine, creerebbe una sperequazione
tra soggetti già oggettivamente beneficiati dalle previsioni del piano urbanistico
“originario”, che rimarrebbero fuori dall’ambito di applicazione della legge e
potrebbero continuare a godere integralmente della rendita, e soggetti
interessati dalle varianti o dal nuovo piano che, per ciò solo, sono obbligati
al contributo, anche e paradossalmente in favore degli altri proprietari
originariamente beneficiati.
2.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 16,
lettera f), del d.l.
n. 78 del 2010, nel testo introdotto dalla legge di conversione n. 122 del
2010, è inammissibile per diversi ordini di ragioni.
2.1.− La norma impugnata così
dispone: «[…] in considerazione della specificità di Roma quale Capitale della
Repubblica, e fino alla compiuta attuazione di quanto previsto ai sensi
dell’articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42, per garantire l’equilibrio
economico-finanziario della gestione ordinaria, il Comune di Roma può adottare
le seguenti apposite misure: […] f)
contributo straordinario nella misura massima del 66 per cento del maggior
valore immobiliare conseguibile, a fronte di rilevanti valorizzazioni
immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale, in via diretta o
indiretta, rispetto alla disciplina previgente per la realizzazione di finalità
pubbliche o di interesse generale, ivi comprese quelle di riqualificazione
urbana, di tutela ambientale, edilizia e sociale. Detto contributo deve essere
destinato alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale
ricadenti nell’ambito di intervento cui accede, e può essere in parte volto anche
a finanziare la spesa corrente, da destinare a progettazioni ed esecuzioni di
opere di interesse generale, nonché alle attività urbanistiche e servizio del
territorio. Sono fatti salvi, in ogni caso, gli impegni di corresponsione di
contributo straordinario già assunti dal privato operatore in sede di accordo o
di atto d’obbligo a far data dall’entrata in vigore dello strumento urbanistico
generale vigente».
Successivamente, come rammenta lo stesso
giudice rimettente, l’art. 17, comma 1, lettera g), numero 3), del d.l. n. 133 del 2014 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), nel testo introdotto dalla legge di
conversione n. 164 del 2014, inserendo la lettera d-ter al comma 4
dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha
nuovamente introdotto la fattispecie del «contributo straordinario» connesso a
nuove valorizzazioni urbanistiche in ambito nazionale, dettando una disciplina
in parte differente da quella contenuta nell’art. 14, comma 16, lettera f), del d.l.
n. 78 del 2010.
Infatti, l’art. 16, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, stabilisce che «l’incidenza degli
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del
consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce
per classi di comuni in relazione: […] d-ter) alla valutazione del maggior
valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in
deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato
dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per
cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune
stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse
pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per
la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui
ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di
pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche».
Inoltre, il successivo art. 16, comma 4-bis, inserito dall’art. 17, comma 1,
lettera g), n. 3-bis, del d.l. n. 133 del 2014, nel testo
introdotto dalla legge n. 164 del 2014, prevede che «con riferimento a quanto
previsto dal secondo periodo della lettera d-ter) del comma 4, sono fatte salve le
diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici
generali comunali».
2.2.– Il confronto tra il vigente quadro normativo e la prospettazione del
rimettente porta a concludere che le argomentazioni del giudice a quo non presentano alcun elemento che
chiarisca le ragioni per le quali egli ritiene di dover fare applicazione della
disposizione censurata per proseguire il giudizio in corso (ex plurimis (sentenza n. 314 del
2013 ed ordinanza
n. 322 del 2013).
In particolare egli non chiarisce: a) perché l’art.
14, comma 16, lett. f), del decreto n. 78 del 2010
dovrebbe applicarsi alla fattispecie pervenuta al suo esame; b) per quale
motivo egli tenga in considerazione gli effetti della sola norma impugnata e
non anche di quella che successivamente ha esteso, con modifiche, la disciplina
del contributo straordinario in ambito nazionale; c) per quale motivo ritenga
che le NTA debbano trovare apposita copertura nella disposizione impugnata.
Quanto al profilo sub a) lo stesso rimettente
riferisce che le due società ricorrenti non hanno assunto alcun obbligo nei
confronti del Comune di Roma (ora Roma Capitale) al fine di poter
effettivamente fruire della volumetria aggiuntiva assegnata ai propri suoli
dalle nuove previsioni del PRG. Ammette così implicitamente la non pertinenza
al giudizio a quo della clausola di
salvaguardia e della finalità di impiego contenute nella norma impugnata.
Quanto al profilo sub b), il Consiglio di Stato,
pur menzionando le ulteriori disposizioni sopravvenute nel 2014, non svolge alcuna
indagine circa il rapporto tra queste ultime e la norma impugnata che sarebbe
necessaria alla luce della sua prospettazione, invero apodittica, secondo cui
l’art. 14 avrebbe dato copertura alle NTA oggetto del giudizio a quo.
Peraltro l’aporia più grave del ragionamento del
rimettente riguarda la mancata spiegazione del motivo per cui la norma
impugnata servirebbe «a conferire base legale [ad un procedimento
amministrativo] esercitato esclusivamente a mezzo della ricerca del consenso» e
del perché tale preteso conferimento sia pregiudiziale alla decisione che deve
assumere.
Secondo la richiamata sentenza Cons. Stato, sezione quarta, n. 4545 del 2010 non v’è
alcuna necessità di conferire base legale specifica ad un procedimento che è
sorretto «da due pilastri fondamentali, entrambi ben noti al nostro
ordinamento» quali la potestà conformativa del territorio di cui il Comune è
titolare nell’esercizio della propria attività di pianificazione e il modello
privatistico e consensuale per il perseguimento di finalità di pubblico
interesse, di tal che «la “copertura” legislativa delle prescrizioni
urbanistiche [deve essere] rinvenuta non tanto in particolari disposizioni di
legge, ma innanzitutto nei principi radicati nel nostro ordinamento, con
riguardo da un lato al potere pianificatorio e di
governo del territorio (quale disciplinato dalla legislazione fin dalla legge
17 agosto 1942, n. 1150, recante la “Legge urbanistica”) e, dall’altro, alla
facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti» (CdS,
sez. IV n. 4545 del 2010).
In effetti, il concreto contenuto dell’accordo con
il privato rispecchia il contenuto e gli obiettivi dell’atto pianificatorio, a loro volta scanditi attraverso
specificazioni tecniche poste in essere in conformità alle NTA.
In tale prospettiva i profili pubblicistici della
pianificazione si inseriscono nell’accordo secondo un modulo consensuale
sinallagmatico finalizzato all’equa ripartizione del plusvalore edilizio, che
non vincola il privato se non attraverso la sua espressa volontà di addivenire
all’accordo.
Da tale ultima considerazione si ricava un altro
vizio del percorso argomentativo dell’ordinanza che non tiene conto della
chiara relazione corrispettiva tra il contributo previsto dalle NTA e l’incremento
di valore dell’immobile interessato alla negoziazione, collegamento che, tra
l’altro, porta ad escludere in radice la pretesa arbitrarietà e gravosità del
corrispettivo dovuto dal privato.
2.3.– La natura dell’accordo rende irrilevanti anche i dubbi circa i rapporti
tra l’equilibrio economico finanziario del bilancio e il contributo che il
giudice a quo concepisce erroneamente
come una prestazione imposta arbitrariamente finalizzata ad un obiettivo
estrinseco alla materia urbanistica.
Come esattamente rilevato dalla Avvocatura generale
dello Stato, di regola tutte le entrate degli enti territoriali, sia quelle di
natura tributaria che corrispettiva, servono a finanziare il complesso delle
attività istituzionali e i servizi resi alla collettività (principio di unità
del bilancio) ma, in alcuni casi, è ben possibile che alcune entrate, in tutto
o in parte, siano vincolate a specifici obiettivi (sentenze n. 184 del
2016, n. 192
e n. 70 del 2012).
Per tutti gli esposti motivi, la questione in esame
deve essere dichiarata inammissibile.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art.
14, comma 16, lettera f), del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito dalla
legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 23, 53 e
97 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2017.