Sentenza n. 188 del 2012

SENTENZA N. 188

ANNO 2012

 

Commento alla decisione di

Davide Paris

Le sentenze interpretative di rigetto (e di inammissibilità) nel giudizio in via principale

nella Sezione Studi di questa Rivista, 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alfonso                       QUARANTA                                   Presidente

-           Franco                         GALLO                                              Giudice

-           Luigi                            MAZZELLA                                           ”

-           Gaetano                       SILVESTRI                                            ”

-           Sabino                         CASSESE                                               ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                              ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                      ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                    ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                         ”

-           Paolo                           GROSSI                                                  ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                             ”

-           Aldo                            CAROSI                                                  ”

-           Marta                           CARTABIA                                            ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                      ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                               ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, promosso dalla Regione Emilia-Romagna con ricorso notificato il 12 ottobre 2011, depositato in cancelleria il 18 ottobre 2011 ed iscritto al n. 120 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi gli avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2011 e depositato il successivo 18 ottobre (reg. ric. n. 120 del 2011) la Regione Emilia-Romagna ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, in riferimento agli articoli 3, 97, 114, 117 e 118 della Costituzione.

La disposizione impugnata apporta modifiche ai commi 4 e 6-bis dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).

Il testo originario dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 è stato sostituito dall’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha sostituito l’istituto della denuncia di inizio attività (DIA) con quello della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).

La ricorrente premette di avere a suo tempo impugnato l’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, deducendo che con esso l’istituto della SCIA sarebbe stato attratto illegittimamente alla competenza esclusiva dello Stato (reg. ric. n. 106 del 2010) e di avere  in seguito impugnato anche l’art. 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 luglio 2011, n. 106 (reg. ric. n. 91 del 2011), nella parte in cui prevede che la SCIA trovi applicazione in materia edilizia e nella parte in cui, aggiungendo un comma 6-bis all’art. 19 della legge n. 241 del 1990, riduce a trenta giorni, proprio in tale ultima materia, il termine generale di sessanta giorni assegnato all’amministrazione dal precedente comma 3 per vietare la prosecuzione dell’attività conseguente a SCIA e rimuoverne gli effetti dannosi, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti.

Per effetto di tali interventi normativi, prosegue la ricorrente, deve ritenersi che l’attività edilizia, di regola, si avvia a seguito della presentazione della SCIA, e sarebbe possibile argomentare che, decorso il termine di trenta giorni appena ricordato, l’amministrazione potrebbe intervenire a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, ai sensi dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, «solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente».

In particolare, questa conclusione deriverebbe, o comunque troverebbe conferma, proprio dall’art. 6, comma 1, lettera a), attualmente impugnato, con il quale l’esercizio del potere di intervento dell’amministrazione indicato dal comma 4 è stato subordinato al decorso non solo del termine di sessanta giorni stabilito dal comma 3, ma anche a quello dimidiato di trenta giorni, stabilito, per la sola attività edilizia, dal comma 6-bis.

A propria volta, l’art. 6, comma 1, lettera b), censurato con l’odierno ricorso, conferma l’applicabilità delle disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A) e dalle legge regionali, «fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4». La ricorrente reputa che, così disponendo, il legislatore avrebbe ribadito che nessun provvedimento repressivo dell’abuso edilizio potrebbe venire adottato al di fuori dei limitati casi indicati dal comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.

In altri termini, secondo la ricorrente, la norma impugnata potrebbe essere interpretata nel senso che, esaurito il termine di trenta giorni concesso dall’art. 19, comma 3, per vietare la prosecuzione dell’attività conseguente a una SCIA, e non ricorrendo alcuno dei casi tassativi presi in esame dal comma 4, l’amministrazione non possa in alcun modo intervenire in presenza di un abuso edilizio, neppure per mezzo del potere di autotutela di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, che le è attribuito dal comma 3 dell’art. 19.

La Regione Emilia-Romagna sostiene che, se così interpretata, la disposizione impugnata  lederebbe la sua competenza legislativa concorrente in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, Cost.), poiché i limiti all’intervento regionale sarebbero rigidamente e dettagliatamente stabiliti dalla legge dello Stato, e la competenza amministrativa garantita dall’art. 118 Cost. relativamente alle funzioni repressive dell’abusivismo edilizio.

Inoltre, il divieto di intervenire a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, una volta consumatosi il breve termine di trenta giorni garantito dal comma 6-bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, sarebbe manifestamente irragionevole e contrario al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, venendo a ledere gli artt. 3 e 97 Cost., con ridondanza sulle attribuzioni regionali.

La ricorrente, tuttavia, sottolinea che l’interpretazione appena ipotizzata non è l’unica possibile, ed anzi andrebbe esclusa alla luce del canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata. In particolare, sarebbe doveroso ritenere che il potere di agire in autotutela, previsto dal comma 3 dell’art. 19 non sia limitato per effetto della norma impugnata, potendo venire esercitato ogni volta che ne ricorrano i presupposti, e comunque al di fuori dei casi selezionati dal successivo comma 4.

In altri termini, ove quest’ultimo avesse per oggetto un potere inibitorio altro e ulteriore rispetto all’autotutela, la disposizione censurata si sottrarrebbe ad ogni profilo di doglianza.

2.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia rigettato.

L’Avvocatura osserva che, in base all’art. 19 della legge n. 241 del 1990, qualora l’amministrazione non vieti la prosecuzione dell’attività edilizia basata sulla SCIA entro trenta giorni, permangono due distinte ipotesi di intervento pubblico: in primo luogo, ai sensi del comma 3, vi è il generale potere di autotutela, il cui esercizio richiede la sussistenza di un prevalente interesse pubblico ad agire in tal senso; in secondo luogo, quand’anche tale ultimo interesse non ricorra, il comma 4 assicura un “potere inibitorio” degli abusi che possano compromettere i beni ivi indicati.

Così interpretato l’art. 19, andrebbe escluso, anzitutto, che l’impugnato art. 6, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 138 del 2011 abbia il significato attribuitogli dalla ricorrente, giacché esso si limiterebbe a coordinare il comma 4 dell’art. 19 con il seguente comma 6-bis, ove il termine di sessanta giorni assegnato dal comma 3 è stato ridotto a trenta in materia edilizia. Inoltre, anche la lettera b) dell’art. 6, comma 1, impugnato non comporterebbe alcun limite al potere di autotutela di cui al comma 3.

Per queste ragioni, le censure svolte nel ricorso sarebbero «manifestamente inammissibili ed infondate».

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Regione Emilia-Romagna ha depositato una memoria.

La ricorrente si dichiara soddisfatta dall’interpretazione della norma impugnata operata dall’Avvocatura generale dello Stato e insiste per l’accoglimento del ricorso nel caso in cui la Corte invece non la condividesse.

Considerato in diritto

1.– La Regione Emilia-Romagna ha promosso questioni di legittimità costituzionale (reg. ric. n. 120 del 2011) dell’articolo 6, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, in riferimento agli articoli 3, 97, 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione.

La disposizione impugnata interviene sul testo dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), già sostituito dall’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122. Con quest’ultima norma, che la ricorrente ha censurato innanzi alla Corte con il ricorso iscritto al n. 106 del registro ricorsi del 2010, l’istituto della denuncia di inizio attività (DIA) è stato sostituito con quello della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).

L’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 luglio 2011, n. 106, ha poi chiarito che la SCIA trova applicazione anche con riguardo agli interventi edilizi precedentemente compiuti con la DIA (con esclusione dei casi in cui la denuncia è alternativa o sostitutiva del permesso di costruire: art. 5, comma 2, lettera c), mentre la precedente lettera b), numero 2), dello stesso comma ha ridotto, per la sola materia dell’edilizia, da 60 a 30 giorni il termine assegnato all’amministrazione per vietare la prosecuzione dell’attività avviata in carenza dei necessari requisiti e dei presupposti.

La ricorrente ha impugnato (reg. ric. n. 91 del 2011) anche queste ultime previsioni normative, muovendo tra l’altro dall’assunto che esse comprimano indebitamente la potestà legislativa concorrente della Regione in materia di governo del territorio.

Questa Corte, con la sentenza n. 164 del 2012, ha rigettato le censure proposte dalla Regione Emilia-Romagna con i ricorsi appena citati.

La disposizione impugnata con l’odierno ricorso, a parere della ricorrente, avrebbe ulteriormente aggravato i già denunciati vizi, sotto un profilo autonomo ed ulteriore.

Anteriormente all’intervento normativo oggetto di censura, l’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990 già stabiliva che, una volta decorso il termine per vietare la prosecuzione dell’attività iniziata in difetto di requisiti e presupposti, fosse comunque fatto salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della medesima legge.

Parimenti, il comma 4 dell’art. 19 stabiliva che «decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3, all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente».

L’art. 6, comma 1, lettera a), impugnato ha aggiunto al comma 4 la previsione per cui l’intervento dell’amministrazione è consentito decorso il termine di 60 giorni indicato dal comma 3, “ovvero” quello di 30 giorni, come si è visto applicabile alla sola materia edilizia, previsto dal comma 6-bis, come modificato dall’art. 5, comma 2, lettera b), numero 2), del decreto-legge n. 70 del 2011.

L’art. 6, comma 1, lettera b), impugnato, a propria volta, ha modificato il comma 6-bis, stabilendo che, nei casi di SCIA, restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, fatta salva l’applicazione della disposizione di cui “al comma 4”, ovvero fatto salvo il potere di intervento configurato in presenza di un pericolo di danno per i beni giuridici ivi elencati.

La Regione ricorrente paventa una possibile interpretazione delle norme impugnate in base alla quale il comma 4 dell’art. 19 restringerebbe il potere di intervento successivo delle amministrazioni locali preposte al governo del territorio, limitandolo ai soli casi indicati, e dunque alle sole ipotesi in cui si manifesti un potenziale pregiudizio agli interessi primari selezionati dal legislatore, mentre il comma 6-bis, subordinando l’attività di vigilanza sullo sviluppo del territorio al rispetto del solo comma 4, implicherebbe che lo stesso potere generale di autotutela decisoria assicurato dal comma 3 non sia più esercitabile nella materia edilizia, in quanto surrogato dal potere conferito dal comma 4.

A parere della ricorrente, le norme impugnate, ove fossero così interpretate, lederebbero gli artt. 114, 117, terzo comma, e 118 Cost., in quanto disposizioni dettagliate di governo del territorio capaci di vanificare l’allocazione delle funzioni amministrative proprie di tale materia, ed inoltre gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto introdurrebbero, in danno delle competenze locali, restrizioni irragionevoli e contrarie al principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

2.– È giurisprudenza di questa Corte che nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale non è preclusa la proposizione di questioni prospettate con finalità interpretative, laddove si deduca l’illegittimità della norma estrapolabile dalla disposizione oggetto di ricorso mediante processo esegetico e nel caso in cui simile operazione non sia implausibile e irragionevolmente scollegata dal testo di detta disposizione (sentenza n. 249 del 2005; inoltre, sentenza n. 88 del 2007; ordinanza n. 342 del 2009).

È appunto questa la situazione oggetto delle questioni promosse dalla Regione Emilia-Romagna, giacché il vizio di costituzionalità che viene denunciato si concretizzerebbe, a parere della ricorrente, solo nell’ipotesi, possibile ma non necessaria, in cui venisse condiviso dall’interprete il percorso ermeneutico sopra descritto e paventato.

Conclusione opposta dovrebbe trarsi, invece, qualora la disposizione censurata permettesse di escludere che sia venuto meno, in materia edilizia, il potere di autotutela attribuito all’amministrazione dal comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990; in tal caso, infatti, permarrebbero integre le attribuzioni locali in tema di repressione dell’abusivismo edilizio.

3.– La Corte osserva, anzitutto, che il dubbio interpretativo formulato dalla ricorrente non ha alcun nesso logico e giuridico con l’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 138 del 2011, con cui il legislatore si è limitato a coordinare il comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, come introdotto dall’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, con la previsione normativa sopraggiunta, secondo cui, per la sola materia edilizia, il termine concesso all’amministrazione per vietare l’attività è di 30 giorni, anziché di 60.

La questione avente ad oggetto questa previsione normativa è perciò inammissibile, dato che in nessun modo da essa può alimentarsi il vizio di costituzionalità denunciato dalla ricorrente. Viceversa, non è priva di plausibilità l’interpretazione che collega all’art. 6, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 138 del 2011 l’esclusione  del potere di autotutela di cui al comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, a vantaggio dei soli interventi repressivi indicati dal comma 4.

Una simile ipotesi esegetica poteva delinearsi già alla luce del testo originario introdotto dall’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, ma non si può negare che ad essa possa, in linea astratta, conferire nuovo impulso il sopraggiunto dato normativo oggetto del ricorso. Quest’ultimo, pertanto, ben può essere sottoposto al vaglio di questa Corte con riferimento alla lesione costituzionale che potrebbe derivare dalla sua interpretazione.

4.–  La questione di costituzionalità vertente sull’art. 6, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 138 del 2011, per quanto originata da un plausibile dubbio sul significato della disposizione, è ugualmente inammissibile, giacché l’interpretazione da cui deriverebbe il vulnus costituzionale, temuto dalla ricorrente, è erronea, come ha sostenuto anche l’Avvocatura dello Stato.

La disposizione impugnata, infatti, può e deve essere letta nel senso che essa non esclude il ricorso, da parte dell’amministrazione, al potere di autotutela previsto dal comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, in aggiunta alla ulteriore potestà di intervento configurata dal comma 4. Il suo significato, infatti, non può essere compreso se la norma non viene inserita nel più ampio contesto costituito dalla configurazione normativa dei poteri amministrativi di repressione dell’abuso edilizio con cui il legislatore ha inteso accompagnare e completare la riforma dei titoli abilitativi all’edificazione, culminata con l’introduzione della segnalazione certificata di inizio attività.

Il rilevante interesse costituzionale (cui largamente partecipa il sistema regionale e delle autonomie locali: sentenza n. 196 del 2004) al controllo pubblico, a garanzia di un armonico sviluppo del territorio che ne preservi l’integrità, non potrebbe, infatti, essere completamente posposto alle pur rilevanti finalità di semplificazione e accelerazione valorizzate mediante la SCIA (sentenza n. 151 del 1986) se il legislatore non si fosse nel contempo premunito di assicurare un rimedio che, per i casi di più grave sacrificio del bene pubblico, possa consentire di superare l’affidamento ingenerato dalla SCIA stessa.

A tal fine, l’attribuzione all’autorità amministrativa del potere di incidere in autotutela sugli effetti della SCIA, pur dopo l’esaurimento del breve termine concesso per vietare l’attività edilizia, opera quale corollario della linea di tendenza alla semplificazione normativa e allo snellimento delle procedure amministrative.

Tale attribuzione, infatti, anche in ossequio al principio costituzionale di buon andamento, formulato dall’art. 97 Cost., viene a compensare, a vantaggio del pur persistente interesse pubblico, il potenziale pregiudizio insito nella contrazione dei modi e dei tempi dell’attività amministrativa. Difatti, sarebbe irragionevole trascurare che, per quanto efficacemente organizzata, non sempre la pubblica amministrazione può disporre di mezzi tali da consentirle di controllare tempestivamente l’intreccio delle numerose e varie iniziative private soggette a controllo.

Per queste ragioni, già nel vigore della normativa sulla denuncia di inizio attività, la giurisprudenza comune non ha dubitato dell’applicabilità del generale potere di autotutela spettante all’amministrazione, fino a che ciò non è stato espressamente riconosciuto dal legislatore con l’art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

L’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, che ha sostituito il testo dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, ha confermato tale scelta normativa, riproducendo nel comma 3 la clausola di salvezza del potere di autotutela, senza ulteriori distinzioni.

La natura generale della previsione normativa recata dal comma 3, in altri termini, si adatta compiutamente alla materia dell’edilizia, alla quale non vi è ragione per ritenere che non si riferisca. Del resto, si esporrebbe a censura di manifesta irragionevolezza una interpretazione contraria, che venisse a sottrarre gli  interessi implicati dal governo del territorio all’applicabilità di un generale istituto del diritto amministrativo, la cui compatibilità con la SCIA è stata riconosciuta dallo stesso legislatore con il citato comma 3. Né si vede, inoltre, per quale ragione l’affidamento ingenerato nei consociati dalla SCIA dovrebbe in sé fruire di una forma di tutela maggiore di quella derivante dall’espresso provvedimento amministrativo, che è sempre potenzialmente cedevole, ove ricorrano le condizioni indicate dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Date tali premesse, l’introduzione, da parte dell’art. 49, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010, di un ulteriore potere di intervento pubblico, configurato dal comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, riflette la scelta del legislatore non già di depotenziare irragionevolmente la potestà amministrativa rispetto alla SCIA, ma quella, opposta, di assicurare una protezione ulteriore a taluni preminenti beni giuridici, per i quali si è reputata insoddisfacente la sola via dell’autotutela decisoria.

I lavori preparatori relativi all’art. 49, comma 4-bis, confermano, da ultimo, l’esattezza di tale interpretazione. Difatti, mentre l’emendamento 49.1000 al disegno di legge n. 2228, approvato dalla V Commissione del Senato della Repubblica il giorno 7 luglio 2010, ometteva ogni riferimento al potere di autotutela, il subemendamento 49.1000/17, approvato il successivo 8 luglio, ha reintrodotto nel comma 3 dell’art. 19 la clausola di salvezza di tale potere, così manifestando chiaramente la volontà del legislatore di mantenere in vita, senza eccezioni, la potestà in questione, affiancandovi quella ulteriore prevista dal comma 4.

Per le ragioni esposte è da escludere che la norma impugnata abbia l’effetto di privare, nella materia edilizia, l’amministrazione del potere di autotutela, che, viceversa, persiste «fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4», cioè congiuntamente all’intervento ammesso in caso di pericolo di danno per gli interessi ivi indicati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, promosse dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli articoli 3, 97, 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2012.