Sentenza n. 125 del 2009

SENTENZA N. 125

ANNO 2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Francesco          AMIRANTE                      Presidente

- Ugo                  DE SIERVO                        Giudice

- Paolo                MADDALENA                         “

- Alfio                 FINOCCHIARO                       “

- Alfonso             QUARANTA                            “

- Franco              GALLO                                   “

- Luigi                 MAZZELLA                             “

- Gaetano            SILVESTRI                              “

- Sabino              CASSESE                                “

- Maria Rita        SAULLE                                  “

- Giuseppe           TESAURO                               “

- Paolo Maria       NAPOLITANO                        “

- Giuseppe           FRIGO                                    “

- Alessandro        CRISCUOLO                           “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 9, lett. a), ultima parte, e 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) in combinato disposto con l’art. 15 del regolamento del Consiglio delle Comunità europee n. 659/1999 (recante modalità di applicazione dell’art. 93 del Trattato CE) promosso dal Tribunale di Reggio Calabria nel procedimento vertente tra la Medcenter Container Terminal s.p.a. e l’I.N.P.S. ed altri con ordinanza dell’11 febbraio 2008, iscritta al n. 227 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti l’atto di costituzione della Medcenter Container Terminal s.p.a. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Giampiero Proia e Camillo Paroletti per la Medcenter Container Terminal s.p.a. e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata l’11 febbraio 2008 ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 9, lettera a), ultima parte, e 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), in combinato disposto con l’art. 15 del regolamento del Consiglio delle Comunità europee n. 659/1999 del 22 marzo 1999 (recante modalità di applicazione dell’art. 93 del Trattato CE).

Il rimettente premette che, con ricorso depositato il 26 luglio 2007, la società Medcenter Container Terminal s.p.a. (d’ora in avanti Medcenter s.p.a) ha adito il giudice del lavoro di Reggio Calabria impugnando una cartella esattoriale relativa alla somma di euro 14.168.650,17, «emessa per recupero sgravi, oltre accessori, in applicazione della decisione dell’Unione Europea dell’11.5.1999 concessi per i contratti di formazione lavoro dal novembre 1995 al maggio 2001».

Dopo avere riassunto i numerosi motivi addotti a sostegno dell’opposizione, tra cui in primo luogo «la prescrizione dei diritti di credito vantati ex artt. 3 e 9 legge n. 335/1995» (recte art. 3, comma 9, lettera a, ultima parte, della legge n. 335 del 1995), il rimettente prosegue osservando che, nel giudizio così introdotto, si sono costituiti l’Istituto nazionale di previdenza sociale (d’ora in avanti INPS) e la S.C.C.I. s.p.a., mentre è rimasta contumace Equitalia ETR s.p.a., concessionaria del servizio di riscossione dei tributi.

Le parti convenute hanno dedotto – tra l’altro – che, secondo la giurisprudenza comunitaria, la normativa interna non può essere invocata per escludere il diritto dell’INPS e l’obbligo della Repubblica Italiana di recuperare gli aiuti di stato illegittimamente concessi, dovendo il giudice interpretare la normativa interna in modo da dare attuazione al diritto comunitario e non applicare le norme di diritto interno idonee ad impedire l’effettività del recupero; che la prescrizione non era operante perché la Corte di giustizia delle Comunità europee, con la sentenza del 20 marzo 1997, causa C–24/95, aveva ritenuto che il principio della certezza del diritto non poteva precludere la restituzione di un aiuto di Stato per il ritardo col quale le autorità nazionali si erano conformate alla decisione della Commissione europea che imponeva tale restituzione, decisione immediatamente efficace e non richiedente alcuna procedura di recepimento; che, in ogni caso, si sarebbe dovuta applicare la prescrizione decennale, versandosi in tema di restituzione d’indebito ai sensi dell’art. 2953 del codice civile.

Ciò posto, il rimettente chiarisce che la causa è stata messa in discussione in ordine a «profili di possibile illegittimità costituzionale della lettura della legge n. 335 del 1995 alla luce della normativa comunitaria» ed osserva che la controversia de qua prende le mosse dalla decisione della Commissione europea n. 2000/128/CE dell’11 maggio 1999, con la quale, traendo spunto dalla notifica del disegno di legge che avrebbe dato vita alla legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell’occupazione), detta Commissione, estendendo l’esame a tutta la normativa nazionale relativa ai contratti di formazione e lavoro, aveva avviato la procedura d’infrazione di cui all’art. 88, paragrafo 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea del 25 marzo 1957, reso esecutivo con legge 14 ottobre 1957, n. 1203 (come modificato dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001, reso esecutivo con legge 11 maggio 2002, n. 102), (ex art. 93, paragrafo 3, dell’originario Trattato CE), in relazione alla disciplina che accordava benefici contributivi in caso di contratti di formazione e lavoro e, in particolare, per quella parte di sgravio contributivo differenziale rispetto alla misura fissa ed uniforme di cui alla legge 19 dicembre 1984, n. 863 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, recante misure urgenti a sostegno ed incremento dei livelli occupazionali) e pari al 25%. Ad avviso della Commissione (che indicava pure dei criteri cui i contratti dovevano uniformarsi per essere conformi alla normativa comunitaria) gli sgravi accordati in misura superiore, in ragione del luogo d’insediamento dell’impresa beneficiaria, del settore di appartenenza e della dimensione, costituivano misure selettive capaci d’incidere sulla concorrenza sia all’interno dello Stato sia tra imprese insediate in Stati diversi.

Avverso tale decisione l’Italia aveva proposto ricorso alla Corte di giustizia, che lo aveva respinto con sentenza del 7 marzo 2002, C–310/99, nella quale il giudice comunitario si era espresso anche in ordine al legittimo affidamento e lo aveva escluso in capo allo Stato, avuto riguardo alla comunicazione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, con la quale la Commissione informava i potenziali beneficiari di aiuti statali della precarietà degli aiuti stessi che fossero stati loro illegittimamente concessi, nel senso che essi potevano essere tenuti a restituirli, pur senza escludere la possibilità, per il beneficiario di un aiuto illegittimamente concesso, d’invocare circostanze eccezionali sulle quali fondare il proprio affidamento circa la regolarità dell’aiuto e di opporsi alla sua restituzione.

Per la perdurante inerzia dell’Italia era poi seguito il giudizio, conclusosi con la sentenza di condanna della Corte di giustizia della Comunità europea del 1° aprile 2004, C–99/02, con la quale la Corte aveva ribadito il carattere obbligatorio del recupero delle somme erogate a titolo di aiuto illegittimo ed aveva precisato che non era configurabile l’impossibilità assoluta di dare esecuzione alla decisione. Le mere difficoltà operative avrebbero dovuto comportare un diligente intervento presso la Commissione stessa, proponendo appropriate modifiche della decisione in termini tali da renderla suscettibile di ottemperanza in ragione del principio di leale collaborazione e buona fede che informa i rapporti tra gli Stati e le istituzioni comunitarie.

2.— In questo quadro, il rimettente rileva che la domanda dell’INPS non va qualificata come ripetizione d’indebito, bensì «come azione promossa dall’ente previdenziale per il recupero di contributi omessi poiché il diritto nasce dall’affermazione del ripristino dell’obbligo contributivo che scaturirebbe per effetto dell’impatto della normativa comunitaria sul diritto interno che autorizzava lo sgravio».

Per ragioni di ordine logico, quindi, afferma di dovere esaminare con priorità la questione preliminare relativa alla prescrizione della pretesa azionata, postulante la soluzione di problemi connessi «all’interferenza ed impatto del diritto comunitario sul diritto interno, non solo e non tanto in ordine alle norme di legge ordinaria, ma anche e soprattutto in relazione a principi fondamentali aventi rilevanza e riconoscimento nel sistema costituzionale italiano».

Dopo avere posto in rilievo che l’efficacia diretta della fonte comunitaria nel caso in esame non potrebbe essere messa in questione – traendo essa fondamento dalla decisione della Corte di giustizia 7 marzo 2002, C–310/99, che aveva avallato l’orientamento già espresso dalla Commissione europea – il rimettente procede all’esame dei principi che governano i rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale ed afferma che, pur in presenza del primato da riconoscere al primo, avente come destinatario non soltanto lo Stato ma lo stesso giudice interno, quest’ultimo dovrebbe porsi il dubbio circa la conformità della normativa comunitaria «ai principi fondamentali ed ai limiti che in ragione della certezza del diritto devono riconoscersi anche ad interventi conformativi del giudice delle leggi quali il limite del diritto quesito e delle situazioni esaurite o irrevocabili che la stessa Corte nazionale intervenendo con pronunce ablative non può travalicare».

In sostanza, la qualificazione della pretesa azionata dall’INPS, come azione promossa per il recupero di contributi omessi, implicherebbe l’applicabilità dell’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995 (secondo cui, a far tempo dal 1° gennaio 1996, le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie si prescrivono, e non possono essere versate, col decorso del termine di cinque anni, salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti).

Tale regime, con orientamento costante della Corte di cassazione, sarebbe ritenuto di ordine pubblico e, dunque, irrinunciabile e rilevabile d’ufficio dal giudice. Invece la pretesa contributiva dello Stato, sorretta da una declaratoria d’illegittimità comunitaria, sarebbe sottratta al regime della prescrizione prevista dal diritto nazionale, sia qualora il principio di effettività del diritto comunitario si debba intendere in senso rigoroso (cioè postulante un obbligo di recupero non soggetto a limiti temporali), sia qualora, “più ragionevolmente”, si debba ritenere che anche il diritto comunitario conosca dei termini di prescrizione, individuabili nel periodo di dieci anni ai sensi dell’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999.

In questa seconda “ipotesi interpretativa”, si dovrebbe procedere alla verifica di compatibilità tra la legge nazionale e il regolamento (CE) del Consiglio n. 659/1999, che fissa alla Commissione il termine di dieci anni per il recupero dei contributi.

A tal proposito, il giudice a quo si pone il quesito se il detto termine sia stato previsto soltanto come limite al potere della Commissione nei confronti dello Stato (il che non comporterebbe necessariamente un conflitto con la normativa di diritto nazionale che disciplina la prescrizione degli obblighi contributivi), oppure se sia stato introdotto anche come limite al potere dello Stato membro per esperire un’utile azione di recupero nei confronti dei beneficiari degli aiuti; e, traendo argomento sia da una decisione della Commissione europea in data 28 giugno 2000 (riguardante aiuti di Stato concessi dalla Germania a favore di alcune società operanti nel settore siderurgico), sia da due pronunce di giudici di merito italiani (ad avviso del giudicante indicativi della formazione di un diritto vivente sull’interpretazione dell’art. 15 del regolamento CE del Consiglio n. 659/1999), sia infine dal testuale disposto di detta norma («Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell’aiuto illegale interrompe il periodo limite»), perviene alla conclusione di ritenere il limite temporale per il recupero di dieci anni esteso «allo Stato membro che agisca su richiesta della Commissione» e quindi ai rapporti tra lo Stato e i beneficiari.

3.— Acquisito questo punto, il rimettente prosegue osservando che, se il conflitto tra norma comunitaria e norma interna va risolto, di regola, ritenendo la prevalenza del primo, resta tuttavia il problema relativo al rispetto dell’art. 3, primo comma, Cost. nell’ordinamento statale. Invero il giudice interno, dovendo “adeguare” al diritto comunitario l’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte, e comma 10, della legge n. 335 del 1995, dovrebbe leggere tale disposizione «nel senso che il limite quinquennale di prescrizione dei crediti contributivi opera a meno che i crediti in questione non siano accertati come frutto di aiuti illegittimi dalla Commissione europea». In questo modo, però, verrebbe introdotta per tali fattispecie una disciplina diversa rispetto alle altre ipotesi di contribuzioni che restano soggette alla legge nazionale in ragione del suo perdurante vigore. Di detta disciplina andrebbe verificata la coerenza rispetto al principio di eguaglianza sancito nell’art. 3 Cost., perché il giudice deve «dare un’interpretazione del diritto nazionale conforme non solo al diritto comunitario prevalente su quello interno ma anche ai valori costituzionali fondamentali dello Stato».

Ciò posto, il giudice a quo esclude che la diversa provenienza delle norme – una comunitaria e una di diritto interno – possa giustificare trattamenti diseguali, trattandosi di fonti destinate entrambe ad operare nel territorio dello Stato e perciò tenute a coordinarsi ed integrarsi, nel rispetto della preminenza del diritto comunitario operante in virtù delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., ma sempre in attuazione dei valori costituzionali nazionali aventi il rango di «principi e diritti fondamentali», la cui osservanza va garantita all’interno dello Stato, come da costante giurisprudenza di questa Corte. Procede quindi a verificare se siano ravvisabili caratteri eterogenei tra le fattispecie in esame e conclude in senso negativo, «poiché l’interpretazione nascente dal combinato disposto dell’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte, e comma 10, della legge n. 335 del 1995 ed il regolamento (CE) n. 659/1999 implica che norme diverse disciplinano in maniera diseguale situazioni identiche, l’unica differenza riposando sull’intervento della Commissione e sulla diversa disciplina apprestata dal diritto comunitario nel caso di pronuncia della Commissione di illegittimità degli aiuti (che si siano sostanziati, nel caso, in uno sgravio ossia nella rinunzia dello Stato ad esigere determinati crediti contributivi oltre una certa misura»).

Non ravvisando spazio per una interpretazione adeguatrice, il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 3, nei sensi indicati in epigrafe, osservando, quanto alla rilevanza, che il termine di prescrizione va accertato con priorità e che esso trova applicazione nel caso di specie «essendo stata rimessa al giudicante la verifica della legittimità degli aiuti concessi all’impresa nel periodo che va da novembre 1995 al maggio 2001 che si intendono recuperare con la cartella esattoriale, per 957 contratti tutti singolarmente prodotti», mentre la richiesta dei contributi da parte dell’INPS è stata notificata il 7 gennaio 2005.

La non manifesta infondatezza, poi, discenderebbe dal rilievo che il giudice può rivolgersi alla Corte costituzionale qualora la non applicazione di una disposizione interna determini un contrasto, sindacabile esclusivamente dalla Corte medesima, con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ovvero con diritti inalienabili della persona.

Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, contestando che, nel caso di cui si tratta, la necessaria prevalenza della regola comunitaria rispetto a quella del diritto interno determina un contrasto col principio di eguaglianza e rilevando che, nella fattispecie, si sarebbe in presenza di una situazione assimilabile alla ripetizione d’indebito, soggetta a prescrizione decennale (giusto il combinato disposto degli artt. 2033 e 2946 cod. civ.), con la conseguenza che la questione sollevata verrebbe ad essere priva di rilevanza, perché la norma da applicare nel processo a quo non sarebbe quella denunciata in questa sede. Ha chiesto, quindi, che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

Inoltre si è costituita la Medcenter s.p.a., osservando, in via preliminare, che il rimettente avrebbe preso le mosse da un presupposto erroneo, cioè dalla pretesa coesistenza, nella specie, di due distinte discipline della prescrizione, l’una di fonte nazionale (e di durata quinquennale), l’altra di fonte comunitaria (e di durata decennale). Invece le due discipline sarebbero operanti su piani diversi, cioè quello dei rapporti tra Commissione e Stato membro e quello dei rapporti tra Stato membro e contribuente. In particolare, l’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995 regolerebbe il regime di prescrizione dei crediti relativi a «contributi di previdenza e assistenza sociale obbligatoria», fissando il termine (quinquennale) entro il quale l’organo nazionale può procedere al recupero nei confronti del debitore. Invece l’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999 non introdurrebbe affatto un termine più ampio di prescrizione, ma regolerebbe soltanto la diversa fattispecie del “periodo limite” entro il quale la Commissione può esercitare, nei confronti dello Stato membro, il proprio potere di recupero.

Pertanto questa Corte dovrebbe affermare che l’unica disciplina della prescrizione applicabile nel giudizio a quo sarebbe quella prevista dall’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995.

In subordine, qualora tali considerazioni non fossero condivise, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente sarebbe rilevante e fondata, per le ragioni esposte nell’ordinanza.

Nell’imminenza dell’udienza di discussione la Medcenter s.p.a. ha depositato una memoria illustrativa nella quale, richiamando gli argomenti già esposti con l’atto di costituzione ed ampliandoli, ribadisce che nella specie il giudice a quo si sarebbe basato su un presupposto erroneo, cioè sulla pretesa coesistenza di due distinte discipline della prescrizione, l’una di fonte nazionale (avente durata quinquennale) e l’altra di fonte comunitaria (avente durata decennale), tra loro in conflitto. Così operando, il rimettente avrebbe confuso due piani, concettuali e giuridici, tra loro distinti e non sovrapponibili: il piano dei rapporti tra Commissione e Stato membro, da una parte, e il piano dei rapporti tra Stato membro e contribuente dall’altro.

Nei rapporti tra Commissione e Stato membro troverebbe esclusiva applicazione l’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999, destinato a regolare il “periodo limite” (dieci anni) entro il quale la Commissione può esercitare nei confronti dello Stato membro il proprio potere di ingiungere il recupero degli aiuti illegittimi o incompatibili col mercato comune. Il diverso piano dei rapporti correnti fra ciascuno Stato membro ed i beneficiari degli aiuti da recuperare resterebbe disciplinato, invece, in ordine al termine di prescrizione dell’azione restitutoria, dalla legislazione nazionale, e quindi (nella specie) dall’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995, che determina il regime di prescrizione dei crediti relativi a «contributi di previdenza e assistenza sociale obbligatoria», fissando il termine (quinquennale) entro il quale l’organo nazionale può procedere al recupero nei confronti del debitore.

La necessità di distinguere i due piani suddetti non avrebbe nulla a che vedere con la ricostruzione teorica dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno. Essa, infatti, deriverebbe dal consolidato insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia, alla quale spetta stabilire in via autoritativa la portata del diritto comunitario.

La Corte di giustizia, con riguardo ai rapporti tra Commissione e Stati membri, avrebbe affermato che, a fronte di una decisione della Commissione con la quale si ingiunga di recuperare presso i beneficiari un aiuto dichiarato illegittimo o incompatibile con il mercato comune, lo Stato membro non potrebbe invocare norme, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per sottrarsi all’esecuzione degli obblighi ad esso incombenti. Con la conseguenza che, secondo le statuizioni di detta Corte, l’unica eccezione opponibile dallo Stato membro al ricorso per inadempimento sarebbe quella relativa all’impossibilità assoluta di dare esecuzione alla decisione.

La società prosegue affermando che, sempre secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, le discipline nazionali regolanti le azioni di ripetizione, mentre non potrebbero essere invocate da uno Stato membro per sottrarsi agli obblighi imposti dalla Commissione, potrebbero invece essere invocate dai beneficiari degli aiuti per resistere all’azione di ripetizione proposta dallo Stato membro. Ciò perché in tutti i casi in cui la violazione di norme comunitarie determini un obbligo di rimborso, e tuttavia il diritto comunitario non disciplini direttamente, sulla base di una specifica disposizione, le condizioni dell’azione di ripetizione, andrebbe applicata la regola generale per la quale «il rimborso può essere chiesto solo alle condizioni, di merito e di forma, stabilite dalle varie legislazioni nazionali in materia» (regola applicabile anche per quanto riguarda la ripetizione degli aiuti nazionali contrari al diritto comunitario).

Sempre secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia (richiamata in memoria), il rinvio alle legislazioni nazionali – in ordine alla disciplina delle condizioni di forma e di sostanza delle azioni di ripetizione degli aiuti contrari al diritto comunitario – comprenderebbe anche l’istituto della prescrizione. I relativi termini, infatti, costituendo «applicazione del principio fondamentale della certezza del diritto», se “ragionevoli”, non renderebbero «praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario anche se, per definizione, lo spirare di detti termini comporterebbe il rigetto, totale o parziale, dell’azione esperita». La Corte di giustizia, inoltre, avrebbe affermato che un termine di prescrizione di cinque anni deve essere considerato ragionevole, sicché la sua applicazione ad un’azione di rimborso non sarebbe incompatibile col diritto comunitario.

Pertanto il contrasto denunciato dal rimettente non sussisterebbe, perché basato sull’erroneo presupposto che il “periodo limite” di dieci anni, previsto dall’art. 15, primo paragrafo, del regolamento (CE) n. 659/1999 troverebbe applicazione non soltanto sul piano dei rapporti tra Commissione e Stati membri, ma anche sul diverso piano dei rapporti tra Stati membri e beneficiari degli aiuti. Invece il citato art. 15 non sarebbe applicabile a quest’ultimo profilo, con la conseguenza che, mancando una specifica disciplina, nei rapporti tra Stati membri e beneficiari degli aiuti continuerebbe a trovare esclusiva applicazione il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995.

La società procede quindi ad illustrare le ragioni che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia (ed anche del Tribunale di primo grado delle Comunità Europee), indurrebbero a tale conclusione, soffermandosi altresì sull’interpretazione letterale e sistematica della richiamata disposizione regolamentare e contestando il diverso avviso esposto nell’ordinanza di rimessione. Afferma, quindi, che la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria sarebbe manifestamente infondata e, comunque, irrilevante, stante l’inapplicabilità alla fattispecie del citato art. 15.

La questione, inoltre, sarebbe irrilevante, ai fini della definizione del giudizio, anche per altro ed assorbente profilo. Infatti, pur volendo ammettere che il periodo limite di dieci anni, di cui alla norma ora indicata, trovi applicazione anche sul piano dei rapporti tra Stato membro e beneficiario degli aiuti, andrebbe rilevato che, secondo la legge italiana, dopo il decorso di cinque anni le somme oggetto di recupero non potrebbero essere versate, sicché l’INPS non potrebbe ricevere i contributi prescritti (art. 55 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, recante «Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale» convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1936, n. 1155, e art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995). L’INPS, quindi, non potrebbe pretendere né conseguire la restituzione di contributi che la legge italiana le impedirebbe di riscuotere.

Infine, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale sarebbe fondata, perché nella specie la prevalenza dell’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999 sull’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995 determinerebbe una violazione di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e in particolare: a) del principio di uguaglianza, nella misura in cui introdurrebbe una irragionevole disparità di trattamento; b) del principio di certezza del diritto, nella misura in cui comprometterebbe la certezza nei rapporti giuridici ed il legittimo affidamento nelle leggi dello Stato.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione – dell’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte e comma 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), in “combinato disposto” con l’art. 15 del regolamento del Consiglio delle Comunità europee n. 659/1999, del 22 marzo 1999 (recante modalità di applicazione dell’art. 93 del Trattato CE).

La questione è stata sollevata in una controversia promossa da Medcenter Container Terminal s.p.a. (d’ora in avanti Medcenter s.p.a.) nei confronti dell’INPS e di S.C.C.I. s.p.a., nonché di Equitalia ETR s.p.a., concessionaria del servizio di riscossione dei tributi. Con l’atto introduttivo del giudizio Medcenter s.p.a. ha proposto opposizione avverso una cartella esattoriale per la somma di euro 14.168.650,17, oltre accessori, relativa al recupero da parte dell’INPS di agevolazioni contributive, ritenute aiuti di Stato non conformi al Trattato CE con decisione della Commissione europea in data 11 maggio 1999, n. 2000/128/CE, poi confermata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con sentenza 7 marzo 2002, causa C–310/99 e ribadita dalla medesima Corte con pronunzia del 1° aprile 2004, causa C–99/02.

Le agevolazioni erano state ottenute da detta società tra il novembre 1995 e il maggio 2001, a fronte della stipulazione di numerosi contratti di formazione e lavoro, ai sensi del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 (Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, nonché del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito con modificazioni dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, con le ulteriori modifiche di cui alla legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell’occupazione).

A sostegno dell’opposizione Medcenter s.p.a. ha dedotto una pluralità di motivi, eccependo in via preliminare l’intervenuta prescrizione quinquennale del credito azionato, ai sensi dell’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte, della legge n. 335 del 1995.

L’INPS, costituendosi in giudizio, ha replicato che nella specie la prescrizione quinquennale non sarebbe operante, perché la normativa di diritto interno non potrebbe essere invocata per escludere il diritto dell’INPS e l’obbligo dello Stato italiano di recuperare gli aiuti illegittimamente concessi, in quanto il giudice dovrebbe interpretare la normativa interna in modo da dare attuazione al diritto comunitario e disapplicare la detta normativa qualora essa dovesse impedire l’effettività del recupero.

1.1.— Il giudice rimettente, dopo avere premesso che la domanda dell’INPS non andava qualificata come ripetizione d’indebito (secondo la tesi dell’ente), bensì come azione promossa dall’istituto previdenziale per il recupero di contributi omessi, ha ritenuto che, per ragioni di ordine logico, si dovesse decidere con priorità sulla questione della prescrizione.

Ha quindi affermato che, nel caso in esame, l’efficacia diretta della fonte comunitaria non poteva essere messa in dubbio, individuando tale fonte nella decisione della Commissione europea e nelle due sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (sopra citate), che il giudice nazionale aveva l’obbligo di applicare previa disapplicazione della normativa di diritto interno qualora essa si ponesse in conflitto con quella comunitaria.

Dopo avere rilevato che, secondo l’ordinamento interno, il diritto azionato dall’INPS per il recupero di contributi omessi sarebbe stato soggetto alla prescrizione (quinquennale) prevista dall’art. 3, comma 9 e comma 10, della legge n. 335 del 1995, il giudice a quo ravvisa nell’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, che fissa un “periodo limite” di dieci anni per il recupero degli aiuti di Stato illegittimamente concessi, la norma di diritto comunitario rilevante nella fattispecie.

Il rimettente procede all’interpretazione del citato art. 15, affermando che esso contempla un termine di prescrizione destinato a trovare applicazione non soltanto nei rapporti tra Commissione europea e Stato membro, ma anche tra quest’ultimo e beneficiari degli aiuti da recuperare, con la conseguenza che il termine per azionare la relativa pretesa creditoria in base al diritto comunitario applicabile sarebbe diverso e più lungo rispetto a quello stabilito dal diritto interno.

A questo punto il rimettente osserva che «il giudice di diritto interno, dovendo adeguare al diritto comunitario l’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte, e comma 10, della legge n. 335 del 1995, dovrebbe leggere tale previsione nel senso che il limite quinquennale di prescrizione dei crediti contributivi opera a meno che i crediti in questione non siano accertati come frutto di aiuti illegittimi dalla Commissione europea». Ma tale interpretazione implicherebbe la sottrazione delle relative ipotesi alla norma interna (art. 3 cit. della legge n. 335 del 1995) e obbligherebbe il giudicante a verificare se le situazioni sostanziali soggette al diverso termine di prescrizione previsto dal diritto comunitario possano considerarsi “eterogenee” rispetto a quelle che restano sottoposte alla legge nazionale. Si dovrebbe cioè verificare se la diversa disciplina sia ragionevole, perché il giudice dovrebbe dare una interpretazione conforme non soltanto al diritto comunitario (prevalente su quello interno) ma anche ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, fra i quali è il principio di uguaglianza consacrato nell’art. 3 Cost.

Il giudice a quo perviene ad escludere il carattere eterogeneo delle fattispecie, perché «l’interpretazione nascente dal combinato disposto dell’art. 3, comma 9, lettera a), ultima parte, e comma 10, della legge n. 335 del 1995 e del regolamento (CE) n. 659/1999 implica che norme diverse disciplinano in maniera diseguale situazioni identiche». Infatti, l’unica differenza sarebbe ravvisabile nell’intervento della Commissione europea e nella diversa disciplina prevista dal diritto comunitario in caso di pronuncia d’illegittimità degli aiuti.

Pertanto, non ravvisando la possibilità di un’interpretazione adeguatrice, il rimettente ritiene rilevante (avuto riguardo all’arco temporale in cui gli aiuti furono concessi all’impresa) e non manifestamente infondata (alla stregua delle considerazioni esposte) la questione di legittimità costituzionale nei termini sopra indicati, richiamando il principio secondo cui il giudice della controversia può investire la Corte costituzionale della questione di compatibilità comunitaria nel caso di norme dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi, nell’impossibilità di un’interpretazione conforme, nonché qualora la non applicazione della disposizione interna determini un contrasto, sindacabile esclusivamente dalla Corte costituzionale, con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ovvero con i diritti inalienabili della persona.

2.— La questione  è inammissibile sotto vari profili.

2.1 — Il rimettente, dopo avere correttamente affermato che, nel contrasto tra norma interna e norma comunitaria con effetto diretto, il giudice deve applicare la norma comunitaria, previa disapplicazione della norma di diritto nazionale, individua nell’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio la norma comunitaria applicabile nell’ambito dell’azione di recupero, affermando che essa contempla un termine di prescrizione (decennale) destinato a spiegare efficacia non soltanto nei rapporti tra Commissione e Stato membro, ma anche tra quest’ultimo e i beneficiari degli aiuti da recuperare. Di qui prende le mosse il percorso argomentativo che lo conduce a sollevare la questione nei sensi sopra indicati.

Ma il giudice a quo non chiarisce in modo sufficiente le ragioni di tale interpretazione, che si rivela anzi non plausibile.

Essa è affidata sia alla lettura degli articoli 14 e 15 del citato regolamento, sia ad uno spunto argomentativo tratto da una decisione della Commissione europea del 28 giugno 2000, riguardante aiuti di Stato concessi dalla Germania alla società Salzgitter e alle controllate del gruppo operante nel settore siderurgico. Tuttavia, né le norme indicate né la pronuncia della Commissione confortano l’opzione ermeneutica adottata dal rimettente; al contrario, per più aspetti la smentiscono.

Invero, l’art. 14 – sotto il titolo “recupero degli aiuti” – si riferisce alle iniziative della Commissione e, nel terzo comma, dispone che «il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. A tal fine e in caso di procedimento dinanzi ai Tribunali nazionali, gli Stati membri interessati adottano tutte le misure necessarie disponibili nei rispettivi ordinamenti giuridici, comprese le misure provvisorie, fatto salvo il diritto comunitario».

Il principio che le procedure dirette al recupero dell’aiuto incompatibile sono disciplinate dal solo diritto nazionale è espresso, dunque, in forma molto chiara. Né a diverse conclusioni si può giungere sulla base del successivo art. 15, anch’esso  riferito ai poteri della Commissione (primo comma), il quale, con il richiamo a «qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell’aiuto illegale», non ha inteso riferirsi  alle azioni di recupero avviate nell’ambito degli ordinamenti nazionali bensì alle iniziative intraprese sempre dalla medesima Commissione, che ben può chiedere informazioni, chiarimenti, indagini agli Stati membri per pervenire alle proprie determinazioni.

Quanto alla decisione Salzgitter, essa al punto 84 così recita: «Nell’ambito delle riflessioni sul principio della certezza del diritto, la Germania accenna inoltre alla necessità che, per il recupero degli aiuti illegali e incompatibili, si applichino le procedure del diritto nazionale, che prevede l’applicazione di termini di prescrizione. Al riguardo la Commissione si limita a ricordare che in base alla giurisprudenza della Corte le disposizioni del diritto nazionale devono essere applicate in modo da non rendere praticamente impossibile la ripetizione degli aiuti prescritta dal diritto comunitario». Come si vede, dunque, la decisione della Commissione non contesta affatto il principio che per gli aiuti illegali e incompatibili si applichino le procedure del diritto nazionale, che prevede termini di prescrizione, ma si limita a ribadire che le disposizioni del diritto nazionale non vanno applicate in modo da rendere impossibile la ripetizione degli aiuti. Ed è il caso di aggiungere che anche la sentenza della Corte di giustizia in data 22 aprile 2008, C-408/04, la quale trae spunto dalla decisione della Commissione europea ora citata, nel prendere in esame il “periodo limite” ed il termine di prescrizione stabilito dall’art. 15 del regolamento n. 659/1999, ne tratta a proposito del tempo di cui dispone la Commissione per esercitare la sua funzione di controllo della compatibilità dell’aiuto e per la conseguente ingiunzione di recupero allo Stato membro, come si legge con chiarezza nei punti della sentenza raggruppati sotto il titolo (anch’esso significativo) “relativamente al tempo di reazione della Commissione”, nei punti da 95 a 108 (in particolare, nei punti 98, 101, 103).

Il suddetto principio, del resto, è consolidato nella giurisprudenza comunitaria, la quale ha più volte affermato che il recupero dell’aiuto deve realizzarsi attraverso i mezzi e le procedure vigenti negli Stati membri, sempre che il recupero stesso non sia reso praticamene impossibile ( tra le altre: sentenza della Corte di giustizia 21 maggio 1990, C-142/87, Tubemeuse, punto 61; sentenza 20 settembre 2001, C-390/98, Banks, punti 121-122; sentenza 5 ottobre 2006, C-368/04, Transalpine Olleitung, punto 45). L’autonomia dello Stato membro incontra due soli limiti: l’equivalenza tra ciò che è previsto dal diritto comunitario con quanto previsto per le violazioni del diritto interno; e l’effettività del rimedio, nel senso che non sia reso impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio dei diritti garantiti dall’ordinamento comunitario. Ciò riguarda anche il termine di prescrizione; secondo il diritto comunitario, esso deve essere analogo a quello previsto per i casi “interni” e deve essere ragionevolmente idoneo a rendere effettiva la sentenza o la decisione comunitaria che obbliga lo Stato al recupero.

Il rimettente ha omesso di considerare i profili ora indicati e tale omissione, rendendo non plausibile l’individuazione dell’art. 15 del citato regolamento comunitario come norma applicabile nell’ambito dell’azione di recupero proposta dallo Stato membro nei confronti del beneficiario degli aiuti ritenuti incompatibili, si traduce in erroneità del presupposto interpretativo, già di per sé idonea ad integrare una ragione d’inammissibilità della questione sollevata (ex plurimis, sentenza n. 390 del 2008; ordinanze n. 447 del 2008, n. 63 del 2007 e  n. 109 del 2006).

2.2 — Altro profilo di inammissibilità si deve ravvisare nel difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione in ordine alla applicabilità, alla fattispecie oggetto del giudizio principale, del termine di prescrizione quinquennale stabilito dall’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995 per le obbligazioni contributive.

Il giudice a quo, infatti, non ha approfondito la rilevanza, ai fini dell’individuazione della natura dell’obbligazione, della sua finalità di porre rimedio alla violazione del diritto comunitario, in quanto diretta al recupero di aiuti di Stato accertati in via definitiva come illegittimi da una decisione della Commissione e da due sentenze della Corte di giustizia (ordinanza n. 36 del 2009, con riguardo all’ipotesi di esenzioni fiscali), affermando in modo apodittico che la pretesa vantata dall’Inps andrebbe ricondotta nella categoria delle obbligazioni contributive, peraltro dopo aver rilevato che la relativa fonte era nel diritto comunitario.

Il giudice rimettente trascura, altresì, di precisare le ragioni che lo inducono ad escludere, in difetto di uno specifico termine breve di prescrizione in ordine al recupero degli aiuti di Stato, il ricorso al termine ordinario decennale.

Siffatte carenze, rendendo incerto il presupposto interpretativo ed impedendo il dovuto controllo sulla applicabilità della norma oggetto della questione di costituzionalità, comportano l’inammissibilità della stessa per insufficiente motivazione sulla rilevanza.

3.— Inoltre, anche il quesito sottoposto all’esame di questa Corte è errato. Esso prospetta un “combinato disposto” tra l’art. 3, commi 9, lettera a), ultima parte, e 10 della legge n. 335 del 1995 e l’art. 15 del regolamento (CE) n. 659/1999, ed in tal modo realizza un’interpolazione che risulta viziata sul piano giuridico.

Infatti, per giurisprudenza ormai costante di questa Corte, nei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato (sentenze n. 168 del 1991, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973). Le norme derivanti dalla fonte comunitaria vengono a ricevere, ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di efficacia diretta, precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna con esse ritenuta inconciliabile (ove occorra, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ex art. 234 del Trattato CE).

In questo quadro, il “combinato disposto” realizzato dal rimettente non è consentito perché si risolve nella fusione di due norme (sulla cui individuazione, peraltro, valgono le considerazioni esposte nei paragrafi precedenti) destinate invece a restare distinte, in quanto appartenenti ad ordinamenti diversi, pur se coordinati, e che non sono suscettibili di essere lette in combinazione appunto perché tra loro contrastanti.

Ne consegue che non è stata individuata correttamente la disposizione da sottoporre allo scrutinio di legittimità costituzionale, giungendo quindi a formulare un petitum che, invece di essere espresso in termini puntuali e specifici, risulta erroneo nell’individuazione dei presupposti interpretativi, ed  insufficientemente determinato (ex plurimis, sentenza n. 325 del 2008, ordinanze n. 393 del 2007 e n. 279 del 2007).

La questione sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, dunque, è per diversi profili inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 9, lettera a), ultima parte, e 10 della legge 8 agosto 1995, n. 335, in combinato disposto, con l’art. 15 del regolamento del Consiglio delle Comunità europee n. 659/1999, del 22 marzo 1999, sollevata con l’ordinanza in epigrafe dal Tribunale di Reggio Calabria in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2009