Ordinanza n. 154 del 2008

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ORDINANZA N. 154

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                        Presidente

- Giovanni Maria          FLICK                                     Giudice

- Ugo                          DE SIERVO                                  "

- Paolo                        MADDALENA                               "

- Alfio                         FINOCCHIARO                            "

- Alfonso                     QUARANTA                                 "

- Franco                      GALLO                                         "

- Luigi                         MAZZELLA                                  "

- Gaetano                    SILVESTRI                                   "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Giuseppe                   TESAURO                                     "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), dell’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della citata legge n. 46 del 2006, anche in combinato disposto con l’art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 1 e 10 della medesima legge, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 5 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Roma, del 31 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Lecce e del 9 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Bologna, rispettivamente iscritte ai nn. 265, 429 e 577 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 43 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che la Corte d’appello di Roma (r.o. n. 265 del 2006) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui precludono al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento e, nell’ipotesi di processi già pendenti, impongono alla Corte d’appello di dichiarare l’inammissibilità delle predette impugnazioni;

che la Corte rimettente ha inoltre sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 576, comma 1, e 593 del codice di procedura penale, come modificati rispettivamente dagli artt. 6 e 1 della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui «precludono alla parte civile la possibilità di proporre, comunque, appello avverso le sentenze emesse in primo grado e, per l’effetto, di dichiarare inammissibile, ai sensi dell’art. 591 cod. proc. pen., l’appello proposto dalla parte civile»;

che la Corte rimettente − chiamata a delibare gli appelli proposti dal pubblico ministero e dalla parte civile avverso una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, emessa dal Tribunale di Roma − rileva che, alla luce della normativa introdotta dalla legge n. 46 del 2006, gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili;

che, tuttavia, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con plurimi parametri costituzionali;

che, in particolare, per quanto concerne la prima questione di costituzionalità, la Corte d’appello rimettente ritiene che la preclusione dell’appello delle sentenze di proscioglimento in capo all’organo della pubblica accusa – conseguente alla sostituzione dell’art. 593 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006 – violi innanzitutto il principio della parità fra le parti e il principio della ragionevole durata del processo, sanciti nell’art. 111, secondo comma, Cost.;

che il principio della parità imporrebbe che ciascuna parte sia posta nella condizione di promuovere una rivisitazione critica della decisione, attraverso la proposizione di un appello “nel merito”;

che sono possibili e giustificabili parziali limitazioni al potere di impugnazione dell’organo dell’accusa (come, ad esempio, nella disciplina del giudizio abbreviato); ma non troverebbe alcuna giustificazione la totale privazione del potere di impugnazione in capo a tale organo, a nulla rilevando la residua possibilità di proporre appello nelle ipotesi previste dall’art. 603 cod. proc. pen., stante la loro assoluta marginalità;

che, quanto alla lesione del principio della ragionevole durata del processo, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe, ad avviso della Corte rimettente, un evidente aumento dei gradi di giudizio, con conseguente dilatazione dei tempi del processo;

che, inoltre, sarebbe palese il contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., posto che il pubblico ministero conserverebbe il potere di proporre appello avverso una sentenza di condanna parziale (dunque, di parziale accoglimento della pretesa punitiva), ma gli sarebbe preclusa l’impugnazione in caso di assoluzione, vale a dire di totale sconfessione della pretesa punitiva;

che quanto alla seconda questione proposta − relativa all’impugnazione della parte civile, come disciplinata dall’art. 576 cod. proc. pen., nel testo novellato dalla legge n. 46 del 2006 − la Corte rimettente muove dal presupposto che alla parte privata non competa più tale potere essendo stato soppresso il riferimento al «mezzo previsto per il pubblico ministero», che, prima della novella, avrebbe costituito il solo elemento testuale idoneo a legittimare ed a rendere possibile l’appello della parte civile;

che, a giudizio della Corte rimettente, le ragioni della illegittimità costituzionale (per violazione  degli artt. 3, 24 e 111 Cost.) esposte in relazione alla preclusione dell’appello del pubblico ministero, varrebbero anche in riferimento alla eliminazione del medesimo potere in capo alla parte privata;

che analoghe, ed in parte sovrapponibili, argomentazioni sono poste a fondamento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Lecce (r.o. 429 del 2006);

che, in particolare, la Corte d’appello di Lecce dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui limita l’appello del pubblico ministero alle sole sentenze di condanna e lo consente contro le sentenze di proscioglimento nei soli casi previsti dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.»; dell’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, «in relazione all’art. 593 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente alla parte civile l’appello contro le sentenze di proscioglimento»; infine, dell’art. 10 della legge n. 46 del 2006, «che dichiara applicabile, anche con riguardo alla parte civile, la nuova disciplina introdotta ai processi in corso»;

che la Corte rimettente premette di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero e dalla persona offesa costituita parte civile avverso la sentenza con la quale l’imputato è stato assolto perché il fatto non costituisce reato dai reati di diffamazione e calunnia; e precisa che − intervenuta nelle more del giudizio la legge n. 46 del 2006 che ha abrogato l’art. 577 e modificato gli artt. 593 e 576 cod. proc. pen. − gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili, in forza di quanto previsto dall’art. 10 della citata legge n. 46 del 2006;

che, quanto al contrasto della disciplina censurata con l’art. 97 Cost., la Corte d’appello di Lecce ritiene che il meccanismo della declaratoria di inammissibilità dell’appello proposto dal pubblico ministero e della “conversione” forzosa in ricorso per cassazione entro i quarantacinque giorni successivi alla notifica della relativa ordinanza − secondo il regime transitorio previsto nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 − violerebbe il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, applicabile anche agli organi giurisdizionali;

che, infatti, «senza un’apparente ragione», risulterebbe vanificato «il lavoro svolto dal pubblico ministero, costretto a rimodulare la sua impugnazione e a trasformarla in ricorso», gravando contemporaneamente il lavoro della Corte di cassazione, fino a comprometterne l’efficienza;

che anche la Corte d’appello di Bologna (r.o. n. 577 del 1006) solleva analoghe questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 10, commi 1, 2 e 3, della legge n. 46 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 Cost.; b) dell’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui limita l’appello dell’imputato e del pubblico ministero, contro le sentenze di proscioglimento, alle sole ipotesi ivi previste, nonché dalle parole “Qualora il giudice…”, sino alla fine del comma», in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost.; c) dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui impedisce «alla parte civile di proporre impugnazione, con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio», in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione;

che la Corte d’appello rimettente è chiamata a celebrare il giudizio d’appello, in esito ad impugnazione proposta tanto dal pubblico ministero, quanto dalla parte civile costituita, avverso una sentenza di assoluzione e – sul presupposto interpretativo che entrambe le impugnazioni dovrebbero essere dichiarate inammissibili – motiva diffusamente circa la rilevanza delle questioni;

che anche la Corte d’appello di Bologna ritiene che la soppressione dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento si ponga in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. per violazione del principio della parità fra le parti e della ragionevole durata del processo; nonché con l’art. 3 Cost., in relazione al mantenimento in capo all’organo della pubblica accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna;

che il contrasto con l’art. 97 Cost. è argomentato sul rilievo che una «norma che impedisca, al pubblico ministero, di emendare l’erroneo proscioglimento dell’imputato ed, alle vittime, di vedere corrisposta la propria legittima aspettativa di punizione», violerebbe il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione: sia sotto il profilo della inefficienza della «macchina giudiziaria»; sia sotto quello della legittima aspettativa, per tutti i cittadini, «del più completo ed imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati»;

che, infine – richiamando un indirizzo «anche se più datato» della Corte costituzionale, che avrebbe ricollegato la facoltà di appello del pubblico ministero al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – la Corte rimettente deduce il contrasto della disciplina censurata con l’art. 112 Cost.;

che, quanto alle censure mosse all’art. 576 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma impedirebbe alla parte civile di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione, si lamenta il contrasto della disciplina censurata con l’art. 111 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di parità rispetto all’imputato; con l’art. 24 Cost., per lesione del diritto di difesa del soggetto danneggiato dal reato; con l’art. 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento che si determinerebbe fra il danneggiato che ha scelto di esercitare l’azione civile nel processo penale e si vedrebbe privato di uno strumento di impugnazione, da un lato, e il danneggiato che «percorre la strada del processo civile» ed al quale sarebbe garantito il doppio grado di giudizio di merito, dall’altro;

che, infine, secondo la Corte rimettente la disciplina transitoria contenuta nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 sarebbe, con riferimento alla parte civile, priva di ragionevolezza (art. 3 Cost.) oltre che contraria al diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto sottrarrebbe alla parte privata un mezzo di gravame su cui «aveva riposto congruo affidamento perché, al momento dell’impugnazione, quel mezzo gli era garantito dall’ordinamento»;

che anche il regime transitorio dettato per la parte pubblica  è ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della discriminazione tra «la posizione di coloro che hanno proposto appello prima dell’entrata in vigore della legge» e «quella di coloro che proporranno l’impugnazione solo in seguito»: infatti, solo in relazione «a questi ultimi, e non ai primi, è concessa la facoltà d’appello contro i proscioglimenti, seppur nei limiti del novellato secondo comma dell’art. 593 cod. proc. pen.».

Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia;

che le Corti d’appello rimettenti dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale della preclusione − conseguente alla modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) − dell’appello delle sentenze di proscioglimento emesse all’esito del giudizio di primo grado da parte del pubblico ministero; e della immediata applicabilità di tale regime, in forza dell’art. 10 della legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima;

che i giudici a quibus − muovendo dalla comune premessa interpretativa in forza della quale la citata legge n. 46 del 2006 avrebbe soppresso il potere di appello della parte civile − sollevano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, (Corti d’appello di Lecce e di Bologna), anche in «combinato disposto» con l’art. 593 nel testo novellato dalla legge n. 46 del 2006 (Corte d’appello di Roma), nonché dell’art. 10 della medesima legge recante il relativo regime transitorio;

che, quanto alla prima questione, concernente i limiti all’appello del pubblico ministero, successivamente all’ordinanza di rimessione questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva»; sia dell’art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;

che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni;

che, quanto alla seconda questione proposta, relativa all’appello della parte civile, le Corti rimettenti muovono dal presupposto interpretativo che – a seguito delle modifiche recate, dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, all’art. 576 cod. proc. pen. – alla parte civile non sia più consentito proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento;

che, peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (cfr. ordinanza n. 32 del 2007) − ha evidenziato che «deve registrasi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;

che, in particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;

che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda Cassazione, sezioni unite, 29 marzo 2007, n. 27614) la quale ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;

che, nell’affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;

che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messaggio presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;

che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque – contrariamente a quanto assumono i rimettenti – l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 – evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto – nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale principio tempus regit actum, tipico della materia processuale;

che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate −  idonee a rendere le disposizioni impugnate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l’ordinanza n. 3 del 2008).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

ordina la restituzione degli atti alle Corti d’appello di Roma, di Lecce e di Bologna, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 1 e 10 della medesima legge;

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, anche in combinato disposto con l’art. 593 del codice di procedura penale, e dell’art. 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalle Corti d’appello di Roma, di Lecce e di Bologna, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.